Per la Chrysler
Cosa succede a un ragazzino di quattordici anni che vive nelle isole Trobriand, nella Melanesia occidentale, quando i suoi genitori decidono di non partire più per ricongiungersi a loro parenti emigrati in Europa, ma attraverso un finanziamento di una ong, di dedicarsi a gestire una piccola village guest house per turisti?
Questa storia è iniziata nel 1995 e Kuruma (è il nome del ragazzino, che in trobriandese non significa niente di che) accettò la decisione con un misto gioia 40%/delusione 60%. Sapeva che non sarebbe mai riuscito a stare a lungo lontano dalla sua casa, dal suo mare, da quel cielo, ma aveva pregustato con una voluttà erotica l’idea di vedere il resto del mondo, e adesso?Il complesso turistico fu inaugurato e Kuruma faceva un po’ il ruolo di portiere tuttofare, ma la maggior parte dell’anno non arrivavano visitatori, il posto era vuoto e lui passava bene o male il tempo ad annoiarsi. E proprio sfogliando annoiato (come esercizio per migliorare l’inglese) i libri che i genitori avevano messo nella sala comune della guest house, fece la conoscenza di Bronislaw Malinowski e dei suoi studi antropologici (si diceva così?) sulla popolazione delle isole Trobriand, cioè praticamente su di lui. Gli sembrava irreale: c’era qualcuno al mondo che lo aveva studiato? Scoprì dunque che la sua gente era food producers, agricoltori, che immagazzinavano il cibo (food storage), che erano organizzati politicamente in un chiefdom (un principato? una comunità gerarchica?), che tra la popolazione esistevano differenze di prestigio e di rango ma queste non si potevano chiamare propriamente strata, caste.
Il libro di Malinowski centrò il suo interesse in modo bruciante, anche più della scoperta che aveva fatto soltanto sei mesi prima, che una loro parente emigrata in Francia vent’anni prima ora faceva la cantante ed era diventata famosissima e ricchissima. Con la nuova percezione che gli aveva suggerito l’antropologia, Kuruma era come se rivivesse da capo la realtà circostante. Si sentiva un uomo che avesse dormito per dieci anni e si fosse risvegliato all’improvviso. E ora analizzava il suo mondo teso a verificare le cose che c’erano scritte nel libro: le abitudini quotidiane, il rapporto tra uomini e donne, la distribuzione della giornata lavorativa…
C’erano però una serie di concetti di Malinowski che non riusciva assolutamente a comprendere: innanzitutto il titolo del libro, Argonauti nel Pacifico Occidentale. Chi erano questi Argonauti? E cosa c’entravano con loro? Ma l’idea più singolare tra le varie dell’antropologo riguardava il kula, lo scambio delle collane di piccole sfere, che avvenivano con la gente delle altre isole. Malinowski la prima volta era rimasto tre anni nelle Trobriand e doveva essere impazzito per il suo studio perché aveva disegnato moltissime cartine come schemi del kula ring, il circuito del culo. Cartine tipo questa:
Quello che lo affascinava di tutto questo studio era come Malinowski si fosse addentrato in profondità in quella che era la sua società. E non si riusciva a spiegare il motivo di tanto interesse. Disegnare cartine su cartine, piene di linee che indicavano le traiettorie delle piroghe, perché? Qualcuno l’aveva finanziato con una montagna di soldi per andarsene a curiosare in mezzo al mondo “primitivo”? Il mondo europeo lo annoiava e così era venuto fin quaggiù?
La risposta la trovò in una lettera che Malinowski aveva scritto nel 1917 al suo amico Richard Illyson: “…quando mi metto a fissare il silenzio, da una parte mi sento come un uomo lontano anni luce da quello che succede da voi. […] Tu mi dici che non riesci a dormire per il frastuono dei bombardamenti… qui in soli tre mesi ho imparato a percepire la differenza dei rumori delle maree… […] Quando sono severo con me stesso mi dico che sono qui solo per fuggire alla mie responsabilità alla mia vita ai miei stessi legami ed affetti, quando riesco ad essere indulgente penso che solo questa sia la mia vita…”
Kuruma decise di trasferirsi in Europa nel 1997. La guest house era ben avviata e i suoi genitori credettero fosse un investimento famigliare di mandarlo per un paio di mesi in Europa per migliorare le lingue. Il desiderio di Kuruma, mentre fantasticava sul viaggio che avrebbe fatto, in volo per 30 ore passa contro il movimento di rotazione terrestre, e appena fu arrivato dai suoi parenti perfettamente integrati nella nuova realtà, era quello di scrivere un saggio antropologico sul mondo non-trobriandese prendendo come modello Argonauti. Avrebbe dovuto trovare degli esempi forti perché il tutto fosse interessante e credibile, esattamente come Malinowski era stato a osservare e studiare il kula ring.
A Parigi entrò in confidenza con una sua cugina di secondo grado, chiamata o soprannominata (non lo capì) Eva Green, che lo iniziò alla quotidianità del mondo da esplorare. Gli spiegò per sommi capi la storia del paese, gli indicò quali erano le abitudini più diffuse (dalla doccia alle file ai semafori), gli diede da leggere libri e fumetti a suo dire indicativi della cultura che voleva conoscere.
Il fumetto che folgorò Kuruma fu sicuramente Dragonball. Eva Green possedeva in casa la collezione completa e all’inizio fu proprio lei a insistere perché lui lo leggesse e ne condividesse l’entusiasmo per. Dopo averne letto qualche numero Kuruma divenne dipendente, e capì che aveva trovato l’oggetto del suo studio.
Il suo primo trattato di antropologia si intitolò: “Le sfere del drago”. Parlava dell’origine del mondo di Dragonball e del suo sviluppo, e cominciava così: “Le sfere del drago sono originarie del pianeta Namek. Nell’antichita i Kaioshin diedero il potere di crearle ai namecciani, a patto che le usassero solo in caso di necessità. Quando su Namek si abbattè un terribile cataclisma, i genitori di un namecciano decisero di inviare il figlio sulla terra per farlo scampare a morte certa. Questo namecciano arrivò sulla terra, dove dopo ne diventò il Dio, liberandosi della sua parte malvagia. Senza saperne il perché, ma guidato da uno strano bisogno, creò le prime sfere del drago, quelle dalle stelline nere che invece di disperdesi sul pianeta si disperdevano nello spazio, e se non venivano riportate dopo anno sul pianeta dove fu espresso il desiderio, questo scompariva. Cosi questo Dio decise di ricreare le sfere, e questa volta gli riuscirono, e vennero così create la sfere che tutti noi conosciamo”.
Raimo, se solo da questo breve e affascinante scritto ti venisse il ghiribizzo complesso di fare qualcosa di più, diciamo un’opera a metà tra il Michaux di “Altrove”, o il Celati di “Fata Morgana”, e il grande Sebald de “Gli emigrati”, per raimizzare infine il tutto, ovviamente…