Paradise Lost
di Helena Janeczek
Al campus di Gerusalemme andava forte il wonder- pot, una pentola a forma di ciambella in cui si potevano cuocere dei dolci senza il forno. Andavano forte le torte al cioccolato- suppongo pure all’hashish, ma non ho avuto occasione di assaggiarle- la musica che anni dopo sarebbe diventata world, il tè a litri, succhi di frutta, birra. Dormivo nella stanza della mia amica che vi era approdata dopo la maturità e, finito il corso di ebraico intensivo, aveva cominciato i suoi studi alla Hebrew University. Era la vita libera, la vita adulta dalla quale mi divideva solo l’anno che mancava pure a me per lasciare la Germania, anche se non sarei tornata dalla terra dei carnefici alla terra dei miei avi.
Quei tre giorni a Gerusalemme, mentre i miei continuavano a stare in albergo a Tel Aviv, ne erano stati l’assaggio. La città era tersa nell’aria mai troppo calda di inizio estate, morbida dal colle del campus fino giù al centro, di materia antica anche negli edifici nuovi perché costruiti in Jerusalem stone, pietra calcarea dal colore di pelle dorata.
C’era sempre gente che veniva a trovarci. Parlavamo fino a tardi, di letteratura, cinema, politica, storie personali. C’erano Zvi, un ragazzo americano che studiava arabo, e Pepita, la room-mate da me sfrattata che veniva dall’Olanda. Tutti iscritti a facoltà di orientamento sociale, tutti animati da uno spirito sionista teso verso un futuro di libertà, fraternità, uguaglianza, pace. Nessun israeliano, ma forse era dovuto al fine settimana. Il ragazzo di Pepita lo era, però palestinese, come mi venne confidato con l’orgoglio di chi, pur non essendo che un gruppo di studenti al primo anno, si sente una sorta di avanguardia.
Il terzo giorno, la pentola dei miracoli al centro della stanza veniva sostituita dalla radio. Dal campus sparivano i ragazzi, tranne quelli stranieri come Zvi. Stava per scoppiare la guerra, era già scoppiata. Libano, 1982. Sentivamo quel che dicevano sull’avanzata, le notizie sulle manifestazioni che si stavano organizzando. Shalom Achshav, Peace Now. Io ripartivo, loro ci sarebbero andati.
Mi è tornato in mente vedendo Valzer con Bashir quando vengono nominati gli oltre vent’anni in cui Ari Folman dice di aver rimosso la guerra in Libano. Quel tempo mi è parso un’enormità: rispetto al punto di partenza geografico che forse mi ero trovata a spartire con qualche suo compagno d’armi, al senso di appartenenza che quell’ipotesi mi confermava. Johnny Rotten, il patchouli, le citazioni dei grandi film americani sul Vietnam: riferimenti in cui mi ritrovavo. Ma soprattutto questo: la dimensione caserecca che hanno tutti i discorsi sul trauma, la rimozione, la colpa, la shoah. Per chi come me o Folman è figlio di gente che ne è scampata, certe nozioni psicoanalitiche sono come la cassetta degli attrezzi per affrontare i fantasmi ereditati, lontanissimi dalla chaiselongue dello strizzacervelli di Woody Allen o di altro arguto psicologismo ebraico. Quel che ne viene fuori in questo caso, è una docufiction animata di forza straordinaria che sembra un incontro fra Apocalype Now e Maus. Folman dice che il suo sarebbe un film “assolutamente impolitico” e per quanto simili dichiarazioni siano diplomatiche, ritengo che in questo caso sia la verità. Pur mostrando alla fine le immagini oscene, tremendamente attuali, dei palestinesi uccisi a Sabra e Chatila di modo che, come sostiene, nessuno possa uscirne pensando di aver visto una figata, non lascia mai il punto di vista israeliano. Del resto, chissà se è possibile fare un film di guerra credibile stando da tutte due le parti? Clint Eastwood ha girato contemporaneamente Lettere da Iwo Jiwa e Flags of Our Fathers e poi li ha separati.
Ma Valzer con Bashir non è impolitico soltanto perché sono sempre occhi israeliani che guardano la distruzione materiale e fisica dell’avversario. Lo è soprattutto perché una matrice preesistente fa da filtro a quello sguardo. Da un lato il film sposa la tesi della non partecipazione dei soldati israeliani al massacro, dall’altro fa cadere per Sabra e Chatila la parola-scandalo, la parola- chiave: genocidio. Deve essere impolitico per poter dire: il nostro Vietnam, la nostra perdita di innocenza – e di memoria – origina dal nostro esserci sentiti nazisti, e questo non cambia sposando una versione dei fatti che esclude ogni diretto coinvolgimento. Quel “nostro”, tuttavia, non è nemmeno posto come sentire condiviso da una nazione. Riguarda solo un gruppo di ex commilitoni della stessa generazione e provenienza: askenaziti, coi familiari sopravvissuti o morti nei lager.
Ne sono lontanissimi i ragazzi che nel 2000 devono lasciare l’ultimo avamposto occupato nel 1982, di cui racconta Ron Leshem nel romanzo Tredici Soldati. Ne è stato tratto il film Beaufort, premiato alla Berlinale giusto mezz’anno dopo che per la seconda volta il Libano veniva invaso dall’esercito israeliano. Qui i soldati non sono più di leva, ma di carriera: ultraortodossi delle colonie, figli di russi e soprattutto di mizrahim, ebrei espulsi dai paesi arabi. Nessuno che possa essere parente dei protagonisti di Valzer con Bashir. Quelli là, i privilegiati, anzi hanno rotto i coglioni con le loro storie lacrimevoli di poveri palestinesi e nonni sterminati. Dover lasciare il bunker all’ombra di un castello dei Crociati in cui aspettavano i razzi di Hezbollah, per quei nuovi soldati è privazione di prospettive e identità, cacciata dal giardino di Eden, come afferma provocatoriamente il titolo originale del romanzo.
Anche Il giardino di limoni che una vedova palestinese cerca di difendere dal decreto israeliano di sradicarlo ha all’inizio un aspetto edenico. Film molto più convenzionale e leggero di Valzer con Bashir, è capace tuttavia di trafugare il politico nel privato, a partire da quel che l’immaginario –anche israeliano- associa con la coltivazione degli agrumi, essendo quel giardino in realtà un limoneto. Qui dove non c’è guerra, i palestinesi sono comprimari: cominciando da Hiam Abbass, attrice nata a Nazareth, cui il ruolo di Salma Zidane è stato cucito su misura. Ma oltre alla sua splendida faccia antica, il regista Eran Riklis mostra pure qualcosa dello squallore della Cisgiordania, la difficoltà di muoversi coi posti di blocco e altri aspetti di vita quotidiana sotto occupazione. Salma ha una figlia a Ramallah, l’altra a Gaza, il maschio oltreoceano che nella sua camera ha lasciato come traccia dei suoi sogni il manifesto del omonimo Zizou, ma per il momento fa lo sguattero a Washington. La prima è raggiungibile con difficoltà, la seconda è quasi come fosse in America, forse è persino più difficile parlarle.
Sta in un college statunitense anche la figlia della vicina israeliana oltre al recinto che diventerà muro di divisione, la moglie del ministro della difesa che, confrontandosi con le angherie di Salma, si scopre Desperate housewife. Più importante dell’abbozzata, consolatoria solidarietà tra donne, è il ritratto della loro solitudine speculare. Del loro dover restare dove sono, murate da ragioni di stato e società, mentre altri se ne vanno. Palestinesi e israeliani, sparsi per una diaspora che permette più facilmente di campare, formarsi, sentirsi persone e basta, come per motivare la sua scelta di vivere in Francia, spiega nelle interviste Hiam Abbass che ha recitato e fatto da consulente per Munich di Spielberg, però anche interpretato la madre di uno shahid nel controverso film palestinese Paradise now.
Il giovane avvocato che porterà la causa di Salma fino alla corte suprema israeliana e si innamorerà della sua bellezza e del suo coraggio, è anche lui rientrato da poco in patria. Nel primo incontro, mangia nostalgico una scatoletta di pesci affumicati portati da Mosca dove ha lasciato una figlia bionda. E non è a caso il figlio di Salma quello più indifferente a tutta la questione dei limoni piantati da suo nonno. “Vieni in America, mamma”, dice, “starai come una regina” e riattacca. In alternativa alla solitudine o allo sradicamento non solo dei limoni, non resta che cantare in coro come alla festa del ministro con catering kosher gestito da arabi vestiti con fez e pantaloni a sbuffo: rientrare nei ruoli e nei ranghi. Alla fine l’avvocato rilascia dichiarazioni sulla vittoria ottenuta per la causa palestinese e si fidanza con la figlia di un ministro di Al-Fatah. Ed è col nome che le deriva dal figlio maschio- “Um Nassar”- che pure Salma viene apostrofata quando qualcuno vuole rimetterla al suo posto.
Umm Khaltoum, la Callas della musica araba, sparge invece la sua voce per uno squallido fast-food nel film La Banda (2007) di Eran Kolirin. La banda della polizia di Alessandria doveva esibirsi in un centro arabo di Petah Tikvah e invece finisce a Bet-ha-Tikva, città dormitorio dove non vivono che ebrei sfigati. Dina, gestrice dell’unico bar-tavola calda, sistema gli arabi smarriti per la nottata. Di nuovo il motore è una figura femminile di bellezza ed energia orientale. E sola: single in questo caso. Vedovo invece è Tawfik, il direttore della banda al quale Dina dedica la canzone della defunta diva, dopo averlo paragonato ad Omar Sharif, l’eroe dei melodrammi egiziani che, visti in tivù, da ragazza l’avevano fatta sognare. Attraverso un linguaggio sghangerato alla Tati o Kaurismaki, Kolirin recupera uno struggimento per l’oriente cui il suo paese appartiene per geografia e origine di gran parte dei suoi abitanti, mentre i casermoni nel deserto più che occidentali sono lo stesso schifo in tutto il mondo. E’ questa la cosa che va più a fondo nella sua garbata commedia sentimentale. O il fatto che una giornalista abbia chiesto a Sasson Gabai, l’attore israeliano che interpreta il rigido Tawfik, se avesse avuto difficoltà a entrare nel ruolo di un colonnello arabo. “Per niente”, fu la risposta, “sono nato in Iraq, l’arabo è la mia lingua madre”.
Quelli che erano i ragazzi riuniti intorno al wonder-pot, continuano a svolgere lavori dal risvolto sociale, ma non più in Israele. Sono finiti a Ginevra, Amsterdam, New York. Chi resta invece, sono gli abitanti di posti come Bet-ha-Tikva, o quelli che furono i Tredici Soldati nel Libano occupato. Pure i registi hanno un piede dentro e uno fuori, non foss’altro che per le platee e i premi internazionali che li hanno gratificati. Colpisce che pur distanti l’un dall’altro di circa dieci anni, sono tutti e tre maschi e di origine askenazi. Come se fosse ancora necessaria una provenienza privilegiata per riuscire a raccontare un conflitto attraverso volti, storie, sguardi pienamente individuali. Cosa che magari aiuta pure a capire un’altra disparità: come mai il conflitto israelo-palestinese o -arabo giunga a noi soprattutto attraverso il cinema israeliano. Non si tratta forse solo delle maggiori facilità di girare, né dell’astuzia usata nel contrabbandare il veleno della realtà dentro prodotti godibili o parzialmente edulcorati. Quel che pare più difficile per un palestinese è trovare la sufficiente dose di libertà artistica fra le esigenze di mediazione e militanza. Il film sui due aspiranti attentatori suicidi Paradise now, ha un produttore israeliano ed è riuscito a vincere il Golden Globe, nonché accedere a una nomination agli Oscar per un paese di nome “Palestina”. Il suo regista Hany Abu-Assad vive in Olanda da trent’anni. Rispetto a una terra così ferocemente amata da produrre paradisi accessibili grazie al tritolo, forse è necessario cominciare a costruire dalla distanza.
pubblicato su “Il Riformista”, il 25.1.2009.
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il film palestinese di cui ti parlavo l’altra sera è questo:
http://it.wikipedia.org/wiki/Intervento_Divino
sembrerebbe che sia uscito anche in italia.
pezzo molto bello, spero di ritornarci.
ciao helena,
ti segnalo un altro film molto bello che riguarda la storia di una famiglia a Tel Aviv. il film si chiama “meduse”, ed è passato in italia nel 2007. del film puoi leggere qui:
http://www.mymovies.it/dizionario/recensione.asp?id=55005
poi qui:
http://www.repubblica.it/2007/10/sezioni/spettacoli_e_cultura/meduse/meduse/meduse.html
e qui:
http://www.cinematografo.it/cinematografo/s2magazine/index.jsp?idPagina=4607
in più ti lascio la recensione che all’epoca avevo scritto su “lettere da iwo jima” per sentireascoltare.com:
http://www.sentireascoltare.com/rubriche/cinema/speciali/ClintEastwood.htm
a presto
giuseppe
Ad una prima scorsa ho provato un fastidio strano, difficile da identificare.
Poi l’ho stampato per leggerlo con più calma.
L’ho letto in metropolitana e poi di nuovo in pausa pranzo.
Alla fine, sul retro dei fogli ho buttato giù questo appunto.
«Ma alla fine lo stesso disagio che provo quando leggo delle vicende di Israele da un autore di origine ebraica.
Disagio che mi sembra derivi da un sostanziale e ripetuto occultamento di quella che a me pare la «verità» (parola che non ha senso senza virgolette, ha scritto qualcuno).
Occultamento che di solito è ottenuto intrecciando fittamente tra loro, e ben stretti, i temi, le vicende, le contraddizioni, le culture, le narrazioni, che convivono nello stesso spazio storico del «conflitto» (uso le virgolette per sottolineare la strumentalità obnubilante di questa parola: «conflitto»).
Allora la «verità» a conti fatti, sgombrato il campo da impoliticità (forse era meglio dire «apoliticità») in questo caso del tutto IMPOSSIBILI (“Valzer con Bashir” sembra voler denunciare la guerra in quanto tale, ma non ci riesce perché le omissioni saltano agli occhi), la verità, dicevo è quella di un lento processo di occupazione, di conquista di territorio altrui.
Di cui l’occupazione del Libano, le stragi, eccetera, non sono che episodi, fatti, che appartengono ad un fenomeno di lunga durata.
Rispetto a questa verità, ogni «impoliticità», è solo simulazione.»
@Tash: non so quali libri di autori israeliani tu abbia letto, ma mi pare che il fastidio ti nasca da altri motivi. Molti scrittori israeliani infatti sono in prima linea nello sceverare le contraddizioni e le verità che riguardano Israele e la questione mediorientale tout-cour
@tashego
mi sembra che tu abbia identificato la tua univoca chiave di interpratazione di quello che accade in Medio Oriente e che tu giudichi marginale se non superfluo ogni riflessione sul Medio Oriente che non sia imperniata su quella chiave. Non condivido questo tuo punto di vista, in fondo la guerra di Troia fu probabilmente una guerra per il controllo delle rotte commerciali tra il Mar Egeo e il Mar Nero, ma dobbiamo ringraziare chi parlandone secoli e secoli fa trovò in quei fatti punti di vista e esperienze che ancora oggi ci toccano.
Qui c’è un lungo articolo che racconta l’impatto di “Waltz with Bashir” su ex-combattenti israeliani
http://www.haaretz.com/hasen/spages/1061907.html
Grazie a tutti per le segnalazioni….
Sulla questione del disagio di Tash, un accenno di riflessione. L’orrore del Vietnam (e pure dell’Iraq) l’abbiamo letto e visto con gli occhi degli americani, il regime dell’apartheid attraverso scrittori (e in minor miusura) registi bianchi.
Quello che è forse il capostipite di tutta questa tradizione, Cuore di Tenebra (che non a caso è alla base di Apocalypse Now) è sempre il racconto di un europeo.
Di tutti coloro che da non occidentali raccontano le loro storie, a noi arriva solo una piccolissima minoranza, poi quasi sempre ignorata.
L’occhio resta centrato su noi stessi. Forse lo sguardo che per Tash non è solo quello israeliano, ma quello ebraico, cade da qualche parte in mezzo. Da un lato assimilato con il punto di vista dominante, dall’altro tale da portarsi dietro la diversità degli ebrei.
A me sembra che quando si tratta di arte (suona trombonesco, ma non so come dirlo altrimenti), ogni rappresentazione sia lecita e importante (sempre che non sia semplificatoria, banale, falsa, brutta). Anche se rischia di occupare tutto lo spazio.
Poi forse su “Bashir” c’è un malinteso. Se la postura di quel film è impolitica, il suo impatto non lo è affatto. La vicinanza con l’ultima guerra, vi avrà contribuito certamente, ma credo che non sia qualcosa di esterno al film, bensì una sorta di paradosso che si porta dentro.
E non si tratta di una denuncia generica di ogni guerra, ma guardo quanto è brutta, bensì un modo di dire: guardate come quel che abbiamo fatto lì, ci ha devastati dentro. E pure: guardate in faccia all’orrore osceno di quei morti innocenti.
Quel film per ebrei e israeliani dice una cosa pesantissima. Cosa che non resituisce la vita a nessun palestinese ammazzato né allora, né adesso. Ma se colpisce e affonda dentro a chi lo vede la propria parte, ha già fatto tanto.