Dalla Malaparte (in Sud n°5)

Il testo che segue fa parte di un dossier Malaparte che per primo l’Atelier du Roman, rivista parigina diretta da Lakis Proguidis, ha pubblicato. Tra la nostra rivista, Sud, il cui numero 5 sarà presentato domenica a Roma Poesia, e l’Atelier du Roman, ma anche Cythere Critique, Camera Verde, News from the republic of letters, esiste un sodalizio, un fare rete, che talvolta sa quasi di eroico. (Chi fa riviste sa quanto sia epico pagare gli stampatori!!) . Il dossier Malaparte costituisce un nucleo importante di questo nostro ultimo numero e François Ricard, canadese, critico letterario, saggista nonchè creatore a sua volta di riviste (ne segnalo lo splendido libro saggio,La generation lyrique) apre una serie di questioni che vorrei condividere con tutti voi.

TRE ERRORI A PROPOSITO DI MALAPARTE
di
François Ricard
Traduzione di Martina Mazzacurati

Chiunque rilegga oggi il dittico composto da Kaputt e da La Pelle (o anche il trittico che questi due romanzi formano con quello che li ha preceduti, Il sole è cieco) non capisce perché l’opera di Curzio Malaparte abbia potuto essere dimenticata fino a questo punto, o perlomeno relegata ai margini della nostra memoria letteraria. Com’è potuto accadere che questo scrittore tanto grande, che nel pantheon artistico del XX secolo dovrebbe occupare un posto simile a quello di Flaubert o di Tolstoï nel XIX, sia l’oggetto di così poca attenzione da parte della critica e che la sua opera sia tanto isolata, come privata di un’eco e di una discendenza?

Primo errore : Malaparte è un autore italiano

Si può, prima di tutto, proteggersi da Malaparte considerandolo un autore italiano. Così è celebrato fin dalle prime pagine, nella sola opera attualmente disponibile in francese, l’autore della Pelle, per la sua appartenenza al «gruppo ristretto degli scrittori che furono, per le generazioni a venire, i testimoni del XX secolo italiano», quello che gli assicura «un posto di onore nel compendio di storia della [sua] letteratura nazionale». Cosa si dice di uno scrittore come Malaparte quando lo si situa – o lo si rinchiude in questo modo – nel suo «corpus» nazionale? Che i suoi scritti si rivolgono prima di tutto, se non unicamente, agli italiani? Che soltanto gli italiani e gli italianologi sono in grado di capirlo davvero? Va da sé che una parte dell’opera di Malaparte è tributaria della sua esperienza toscana o napoletana e della cultura che ha ereditato nascendo là dove è nato. Ma è davvero essenziale? Anche se non avesse mai lasciato il suo paese – mentre ha visitato praticamente l’Europa intera – anche se si fosse ispirato solo all’Italia nei suoi scritti – mentre questi ultimi si sono nutriti di tutta la cultura occidentale passata e attuale – la sua nazionalità civile o letteraria potrebbe forse spiegare in che cosa consista l’originalità e il valore della sua opera?
Riportare Malaparte alla sua condizione di scrittore e d’intellettuale italiano, come continuano generalmente a fare alcuni critici che si interessano a lui oggi, equivale a vendersi per pochi soldi il diritto di ignorare la vera portata di un’opera che, liberata da questa gogna, appare subito come una delle più universali e delle più originali che il XX secolo ci abbia lasciato, un’opera che dobbiamo immediatamente aggiungere accanto a quelle degli autori che abbiamo l’abitudine di considerare come i ‘fari’ della letteratura moderna, Proust, Joyce, Kafka, Céline, Musil, Gombrowicz. Bisogna dunque ripeterlo: nato e cresciuto in Italia, avendo scritto l’essenziale della sua opera in lingua italiana, Malaparte non è più italiano di Dante o Boccaccio, Michelangelo o Vivaldi. Non lo è più di quanto Tolstoï sia russo, Flaubert francese o Thomas Mann tedesco. Oppure, vuol dire che siamo tutti italiani!

Secondo errore: Malaparte è un grande « cronista »

Alcuni credono senza esitazione, presentando Kaputt e La Pelle come ‘cronache’, di rendere loro una sorta d’omaggio: questo quadro degli orrori del nostro tempo, sembrano voler dire, non è finzione ma realtà; è una ‘testimonianza’ a caldo, una serie di eventi riportati direttamente, con le date, i luoghi, i protagonisti identificati per nome, e tanti piccoli fatti veri e verificabili. Insomma, la storia osservata al momento stesso in cui si svolge. In realtà, questa lettura non è che un modo di togliere a Kaputt e alla Pelle il carattere perentorio, assolutamente indiscutibile, che possiede ogni opera d’arte, portatrice di una verità ipotetica, certo, ma proprio per questo inconfutabile; verità che in questo modo, può essere messa in discussione e, insieme, tenuta a distanza. Poiché ogni ‘testimonianza’, ogni ‘reportage’, quale che sia, è per definizione criticabile; può (deve) sempre essere confrontato ad altre versioni, ad altri resoconti degli stessi eventi, visto che il suo fine ultimo non è altro, in fin dei conti, che la veridicità storica. È d’altronde quello che è accaduto ai libri di Malaparte, abbondantemente tacciati (o sovrabbondanti?) d’esagerazione, di manierismo, di soggettività, di partito preso «per l’orribile, l’abietto e il mostruoso», tanti di quei difetti che, trattandosi di «cronache del nostro tempo», non possono che essere redibitori. Rassicurato, il lettore ha così il piacere di alzare le spalle e di andare oltre.
Ma la ragione principale che fa sì che la natura e la bellezza propriamente romanzesca di Kaputt e della Pelle siano e continuino ad essere, se non ignorate, quanto meno oltraggiosamente sottostimate, risiede probabilmente nella concezione insulsa, gretta e più o meno frivola che si ha ancora troppo spesso del romanzo.
Quello che fa di Malaparte non solo un autentico romanziere, ma uno dei maestri del romanzo moderno, è lo sguardo particolare che la sua opera getta sul mondo degli uomini o, più precisamente, lo sguardo dal quale questa opera è guidata. Uno sguardo che non si può definire né ‘oggettivo’ né ‘soggettivo’, né ottimista né pessimista, né lirico né cinico, ma profondamente, radicalmente realista e disincantato. Uno sguardo che nasce e che riconduce incessantemente in questo spazio simile al paesaggio spettrale della Lapponia evocato in alcuni capitoli di Kaputt, al di là delle frontiere che circonda e protegge il senso del mondo e dell’esistenza, laddove gli eroi non si distinguono più dai carnefici, i vincitori dai vinti, l’odio dall’amore, la sofferenza dalla gioia, il riso dalla pietà. «Ridevo, scrive il narratore della Pelle, e questo riso cattivo mi faceva male al cuore. Ridevo e mi veniva da vomitare». Da questo spazio di devastazione fisica e morale che è lo spazio proprio del romanzo, null’altro può sorgere, come dice Malaparte nella sua presentazione di Kaputt, che «un libro orribilmente crudele e gaio».

Terzo errore: Malaparte ha scritto sulla Seconda Guerra mondiale

Eppure Malaparte stesso tiene a mettere il lettore in guardia contro le interpretazioni di questo genere. Nella prefazione di Kaputt (e l’avvertimento vale anche per La Pelle), scrive:

Tra i protagonisti di questo libro, la guerra [gioca] il ruolo di un personaggio secondario. Se i pretesti inevitabili non appartenessero all’ordine della fatalità, si potrebbe dire che essa ha solo un valore pretestuoso. In Kaputt, la guerra vale dunque come fatalità. Non ne fa parte in altro modo. Posso dire che non ne è protagonista, ma spettatrice, nel senso in cui un paesaggio è spettatore. La guerra è il paesaggio obbiettivo di questo libro.

Non si potrebbe essere più chiari: Kaputt e La Pelle non sono né dei romanzi di guerra (non vi sono d’altronde descrizioni di battaglie, e la sola grande scena di ‘bombardamento’ è l’eruzione del Vesuvio alla fine della Pelle) né dei romanzi sulla guerra. La guerra non è che un ‘paesaggio’, un ‘pretesto’ – come dire: una circostanza – e non la materia alla quale s’interessa il romanziere.
Questa materia e lo spazio tematico nel quale si esercita la sua riflessione di romanziere, Malaparte non li ha per niente tenuti celati. I suoi titoli sono assolutamente espliciti. Sempre nella prefazione di Kaputt, precisa: «L’eroe principale è Kaputt, mostro allegro e crudele. Nessuna parola meglio di questa dura e quasi misteriosa espressione tedesca: ‘Kaputt’ – che significa letteralmente sgretolato, annientato, ridotto in briciole, perduto – saprebbe definire quello che siamo e quello che sarà l’Europa, d’ora in avanti: un ammasso di relitti». E il proposito è altrettanto limpido nella Pelle, dove ‘Malaparte’ spiega al generale Guglielmo:

È la civiltà moderna, questa civiltà senza Dio che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla loro pelle. Oramai solo la pelle conta. Non c’è che la pelle di sicuro, di tangibile, d’impossibile da negare. E’ l’unica cosa che possediamo, che sia nostra. La cosa più mortale che ci sia al mondo. Solo l’anima è immortale, ahimè! Ma chi se ne importa dell’anima? È solo la pelle che conta. Tutto è fatto di pelle umana. Persino le bandiere degli eserciti sono fatte di pelle umana. Non ci si batte più per l’onore, per la libertà, per la giustizia. Ci si batte per la pelle, per questa sporca pelle.

Non è dunque la Seconda Guerra mondiale, tanto meno la guerra in generale che esplorano i romanzi di Malaparte, ma proprio quello che è diventata l’esistenza dell’uomo in un mondo – questo mondo qui – di cui la guerra è solo l’emblema, la figura più rivelatrice e più poeticamente carica di significato: un mondo «ridotto in briciole, perduto», un mondo in cui «la vera patria è la nostra pelle» e null’altro. Il mondo del «dio morto» (titolo dell’ultimo capitolo della Pelle), portato via dal «vento nero» che diffonde la sua «peste» sull’antica patria umana disertata, devastata, abbandonata alla propria follia «orribilmente crudele e gaia».
Come quella di Kafka, e altrettanto ‘profetica’, attraversata da parte a parte da questa ironia radicale che il romanzo solo sa cogliere e proteggere, l’opera di Malaparte è una delle immagini più giuste e più profonde di questa interminabile tragicommedia dove ci troviamo, come tutti gli altri, condannati alla buffoneria e ai singhiozzi.

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7 Commenti

  1. Condivido il giudizio sulla grandezza di Malaparte, scrittore dimenticato.
    Ne scrissi qui: http://xoomer.virgilio.it/badimona/Malaparte.htm con questo inizio:

    “Quando domenica 22 luglio 2001 moriva alla bella età di 92 anni Indro Montanelli, alcuni giornali ricordarono la forte rivalità esistente tra questi due grandi del giornalismo. Malaparte (il cui vero nome è Kurt Erich Suckert) morì nel 1957, quando aveva soltanto 59 anni e avrebbe potuto dare ancora molto alla storia letteraria del nostro Paese. Si dice che vicino a morire si rammaricasse di precedere nella tomba il suo rivale. Entrambi, nati alla periferia di Firenze, hanno respirato quel carattere indipendente e umorale che contraddistingue non solo i fiorentini, ma anche gli altri toscani, e la loro vita è per l’appunto contrassegnata da questo carattere orgoglioso e libero. Difficile dire chi dei due fu il migliore; è certo che nessuno li eguagliò nella perizia della scrittura, così improntata della loro personalità. Malaparte, però, riuscì meglio là dove Montanelli fu un autore minore, se non bistrattato: il romanzo. Se si eccettua il racconto Il generale Della Rovere (da cui Roberto Rossellini trasse il celebre film omonimo), niente di rimarchevole resta della narrativa del fucecchiese, mentre i romanzi di Malaparte ci consegnano pagine di letteratura da ricordare.”

    Bart

  2. Malaparte lo amo moltissimo, però Bartolomeo ho un piccolo disaccordo con te sul suo carattere “orgoglioso e libero”. Senza nulla togliere alla grandezza dello scrittore a me è sembrato tutt’altro.

    Ciao

  3. Come voi sono assolutamente convinto non solo dell’importanza di Malaparte nel nostro paesaggio ma anche della necessità di battersi contro l’arte dell’oblio praticata dal nostro paese nei confronti di certi autori . Ricard offre alcune risposte. Mi piacerebbe sapere la tua Lucis su questa pratica della dimenticanza. Ho letto, caro Bart , l’articolo linkato. Condivido tutto. Une seule remarque. Non so se vi ricordate la foto celebre di Pavese allo Strega davanti al tabellone dei candidati. Vi si legge il nome di Curzio Malaparte. In comune questi due giganti hanno a mio parere almeno una cosa. Il fatto di essere stati nella vita (fin nella morte) grandi quanto l’opera lasciata. Eppure siamo convinti che si faccia abbastanza per la loro opera? Non dico tanto ma almeno quanto si è detto e fatto della loro vita (e morte)?
    effeffe

  4. Tu mi vuoi far pelare vivo effeffe:-)

    Nel caso di Malaparte io, da non letterato, mi do una risposta. E’ tutto qui:
    “È la civiltà moderna, questa civiltà senza Dio che obbliga gli uomini a dare una tale importanza alla loro pelle. Oramai solo la pelle conta. Non c’è che la pelle di sicuro, di tangibile, d’impossibile da negare. E’ l’unica cosa che possediamo, che sia nostra. La cosa più mortale che ci sia al mondo. Solo l’anima è immortale, ahimè! Ma chi se ne importa dell’anima? È solo la pelle che conta. Tutto è fatto di pelle umana. Persino le bandiere degli eserciti sono fatte di pelle umana. Non ci si batte più per l’onore, per la libertà, per la giustizia. Ci si batte per la pelle, per questa sporca pelle.”

    Puoi accettare Malaparte senza riflettere su questa sua “visione eroica della vita” ? Ricard, giustamente, oltre non va. Ma, tra le riga, ci sono delle implicazioni abbastanza esplosive, credo.

  5. Francesco, ho un rimpianto per Malaparte: che ho letto le sue opere tanti anni fa, ed oggi non mi posso permettere il lusso di rileggere le sue opere per scriverne degnamente. Mi è accaduto anche per altri autori che sono stati molto importanti nella mia formazione e che hanno accresciuto il mio amore per la letteratura: Hardy, Dickens – di quest’ultimo ho letto qualcosa in questi due o tre anni e ne scriverò poi su vibrisse -, Zola, Balzac, Lawrence.
    Ah, poter ricominciare tutto da capo!

    Scrivo su vibrisse delle mie letture – pensa – e non posso che dire due parole sugli scrittori che ho amato di più!

    Bart

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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