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“…cercando primavere di viole”

 
 

 
di Orsola Puecher

 
Alice e Marie dormivano vicine e il sonno se le prendeva senza sollievo né pace. La notte era solo un intervallo inquieto al dolore e nel pulsare tanto flebile delle loro vite non c’era differenza di rumori rispetto al giorno: l’abbaiare dei cani, passi, le voci secche. E il freddo così intenso di quel marzo senza primavera. L’avvolgersi del buio, invece, portava loro il suono smorzato di una campana, forse della chiesa di un villaggio lì vicino, intravisto all’arrivo. Dalla punta aguzza di un campanile oltre il lago, oltre la radura di betulle, rintoccava ogni quarto d’ora, anche di giorno, ma con la luce e la sua durezza Alice e Marie non la sentivano. Non si ricordavano di ascoltarla. Nel silenzio scuro, invece, contavano i quarti, le mezz’ore e i tre quarti, che avevano un tocco più leggero e vicino, e le ore, più lente e profonde, e in quel battito regolare pareva potessero sentire il polso al cuore del mondo che confermava di esistere ancora, al di là del filo spinato, in buona salute, con le cose e le case e le persone, le finestre accese nel ritmo regolare di uno scorrere intatto e perduto.


Marie lavorava alla fabbrica dei manometri con i suoi vent’anni a cui avevano spento di colpo la luce.

Alice, l’età stanca, desiderosa solo di quiete, di riposo e di ricordi, si consumava alla cava di sabbia, vicino alla palude.

Ci fu un primo periodo in cui continuavano a chiedersi il perché, a cercare di lottare contro le cose che conquistavano terreno su di loro, per ghermirsele ed inquadrarle nel mistero di quel male tanto assoluto. Ancora speravano, sentivano i sapori, gli odori, il freddo, la sorpresa di una paura tanto immensa da tremare come foglie secche nei castelli del blocco 17, per quella crudeltà oscura e per la sua incomprensibile assurdità. Con il cuore in petto che pareva diventare così grande, rosso e convulso, da poterlo vedere acceso nel buio e sentirlo martellare e scoppiare fra il dolente ammasso dei loro corpi. Poi subentrò una specie di rassegnazione, fatta di piccoli espedienti, dell’appiattirsi, dello strisciare lungo i muri, del confondersi fra le altre, per non richiamare su di sé nemmeno un soffio d’attenzione delle sorveglianti, delle SS, dei cani. E fu allora che alla sera nella baracca, strette vicino alla finestra, uno spicchio di nero con i vetri sporchi e malfermi, cominciarono a parlare dei piatti. Iniziò Alice con la descrizione golosa, minuziosa e succulenta di un arrosto, una pietanza che si faceva solo alla domenica, prima della guerra. Un certo pezzo di maiale, che Alice sosteneva chiamarsi lonza e Marie invece lombo. Quasi accalorandosi e litigando fra loro per il nome di questa carne immaginaria, che con un fuoco di parole veniva cotto al forno e annegato nel latte che, alla fine, avrebbe distillato una salsa densa. Da intingerci la nostalgia di un pane bianco, a piccoli pezzi di mollica tenera. Poi polpette, sformati, bolliti, ossi buchi spolverati di prezzemolo e buccia di limone, con il boccone prelibato del midollo, nel mezzo dell’osso, da mangiare per ultimo. Anche di cioccolato, di zucchero, di dolci parlavano. Raccontavano alla fame. Una sera Alice, diceva di una torta, e questo le ricordò sua madre Rosa, morta giovanissima di parto, dando alla luce sua sorella Teresa. Quell’unico dolce concesso dalla povere tasche del tempo era una specie di pane spesso di mais e farina, con i chicchi di uva fragola, che mangiandolo ti fermavi a sputare i vinaccioli duri. Pareva un ricordo così lontano e continuava ad allontanarsi sempre di più, le sfuggiva insieme al senso del tempo, del futuro e al sapore dell’uva fragola dai chicchi piccoli, con qualche ragnatela e, intrappolate dai fili polverosi, piccole uova d’insetto. La buccia spessa e opaca, aspra, il cuore bianco, zuccherino, le riportavano ora una tristezza senza speranza. E forse quel ricordare non era altro che un grande dolore che rimbalzava senza consolazione, un accomiatarsi dalle cose perdute per sempre, che non riusciva nemmeno a scaldarsi per la dolcezza del rimpianto.

Marie, di origine francese ma da sempre vissuta a Genova, partecipava con una verbale e sofferente descrizione di schiacciate e focacce e ravioli e cime tagliate a fette. Profumi di pesto, noci e sfoglie al forno. Parlavano a occhi chiusi, e sembrava che, a tratti, ai loro sensi fossero restituite delle folate di profumi e di sapori. Si nutrivano con il solo parlare di quei cibi. Non lo stomaco. Non le ossa o i corpi. Forse le anime, che si erano fatte così piccole da sembrare un lumicino di sego in fondo ad una scala buia. E di notte, durante il sonno, si sentivano le labbra e le bocche muoversi e masticare il nulla.

Marie era rimasta orfana presto, anche lei, sola con il padre professore di latino e greco. Frequentava il primo anno di Lettere, prima. Trovata al porto di Genova, con un biglietto in tasca e un libro in mano, per farsi riconoscere, fu portata via subito, nel carcere di Torino, in treno. E da lì al campo. Era antifascista e anche suo padre. Cospirava. Ma il suo unico gesto fu quel foglio mai consegnato.

Ad Alice la vita stava sfuggendo via. Era la sabbia della cava, granello dopo granello di una clessidra che nessuno avrebbe rigirato, ed era inutile cercare di tenerla stretta fra le dita, che si aprivano senza più forza, piagate, rovinate, crepate dal freddo e dal manico della pala, da quell’illogico accumularla, la sabbia, in collinette regolari, per poi riprenderla e riportarla con la cariola nel grande mucchio. E poi da capo. Così tutti i giorni, piovesse, nevicasse, scottasse un sole che si stentava a credere fosse lo stesso di anni passati, di altre giornate, che aveva rischiarato la felicità e la vita fino ad allora.

E così si rifugiavano in quei piatti, attraverso i quali si tenevano tenacemente aggrappate al pensiero che qualcosa oltre a quel presente era esistito.

Prima che i Tedeschi la portassero via, Alice quel pomeriggio era riuscita a fare il pesce finto, piatto di guerra e di penuria, con le patate lesse schiacciate e mescolate con una rara e preziosa scatoletta di tonno, a cui si dava l’illusoria forma di un pesce. Stava sul tavolo di marmo in cucina in un vassoio ovale, quando le SS arrivarono a prenderla. E il pesce era rimasto in cucina, intatto davanti alle sedie rovesciate ed ai cassetti aperti, l’occhio tondo fatto con una fettina di carota a fissare il vuoto. E le capitava di ripensarci, spesso.

Erano antifascisti lei e suo marito Vittorio. Solamente antifascisti, non militanti. Con la guerra avevano traslocato dalla casa di via Broletto, nel centro di Milano, un po’ fuori, in via Gallarate, dove la città si fermava nei prati, vicino all’Alfa Romeo continuamente bombardata. Alice andava ad un chiosco di granite in piazzale Accursio, alla sera, era calda quell’estate del 1944, dove si riuniva gente di tutti i tipi. Ingenuamente parlava di politica e lì conobbe una ragazza che abitava in via Marcantonio del Re, era incinta ed il marito era partigiano nelle Brigate Moscatelli in Piemonte. Ad Alice faceva pena, spesso le prestava la sua tessera annonaria, perché potesse mangiare un po’ di più. Lei che non ne aveva avuti di figli. Un giorno il marito della ragazza fu catturato ed impiccato e gli trovarono nella tasca della giacca una lettera della moglie, le parole impacciate, d’amore e lontananza, le solite, e gli diceva che una “brava signora” le aveva dato le tessere per mangiare e di stare tranquillo. E bastò così poco a scatenare il fiuto dei lupi. Le SS piombarono nella zona interrogando e rastrellando. E il nome e l’indirizzo di Alice probabilmente vennero fatti da quello del chiosco delle granite. I tedeschi pensarono che lei fosse collegata alla lotta partigiana. Un sospetto anche piccolo allora bastava. La presero e la arrestarono un pomeriggio, alla fine dell’ agosto del ‘44, poco dopo la strage di Piazzale Loreto. La portarono prima a San Vittore. La nipote si mise ad aspettarla, sotto le mura del carcere, con una borsa di vestiti, di biancheria Si diceva che i prigionieri sarebbero partiti a mezzanotte, ma c’era il coprifuoco e una guardia le disse di andar via, altrimenti le avrebbe sparato addosso. Si riparò da amici che stavano li vicino. Alla mattina scoprì che li avevano già portati via. Forse a Torino si diceva. Il marito Vittorio partì con il primo treno. Ma non c’erano più. I vagoni piombati erano partiti per il Brennero.

Sul treno Alice aveva incontrato Marie.
Cercavano di tenersi su a vicenda.

Per Marie era più facile, con il lavoro al chiuso, in fabbrica e la forza intatta della giovinezza. Alice, invece, pian piano cominciava a cedere, ma sapeva di dover tener duro, di cercare di non finire nella cosiddetta infermeria, di non ammalarsi. Che allora sarebbe stata fumo per il camino dei forni sempre accesi e cenere per le acque ferme del lago. Marie riusciva a rubarle qualcosa alla mensa della fabbrica, un po’ meno misera di quella del campo. Qualche pezzo di pane, di formaggio. Ma Alice era esausta. Una sera, dopo il lavoro, durante l’Appell, cadde sulle ginocchia, ma prima che la notassero, Marie riuscì a sollevarla e insieme ad un‘altra la tennero stretta in piedi, fra di loro, perché non si accorgessero che stava male. Altrimenti l’avrebbero portata subito via. La tenevano dritta, terrorizzate.

L’Appell nel campo di Ravensbrück, nello spiazzo davanti alle baracche, al freddo, al mattino e alla sera, poteva durare anche ore. I conti non tornavano mai e si doveva ricominciare da capo. Era un calvario interminabile e rischioso. Stavano ferme, attente a cogliere il suono straniero dei loro numeri, in quella lingua tagliente e ostica, gli occhi bassi, cercando di non fare nulla, bastava uno sguardo, un cedimento, un colpo di tosse, e poteva essere la fine.

Non c’era solidarietà, ma una gran diffidenza, soprattutto per loro, italiane, non ebree, politiche, con il triangolo rosso cucito sul petto. Come se avessero qualche colpa in più di tutto quello.

Ma fra Alice e Marie era diverso, fin dall’inizio, l’una vedeva nell’altra la figlia mai avuta e l’altra la madre perduta.

Dopo il primo periodo nel campo si avvidero di un altro indecifrabile cambiamento: nessuna segnava più sangue. Si dicevano che mettessero una medicina nella broda del mattino. In questo forzato tornare adolescenti c’era qualcosa di devastante. In quel tempo rinchiuso erano riusciti a fermare anche le lancette dei loro corpi. Nemmeno più a quello avevano diritto. I capelli rasati, le divise informi. I numeri tatuati sul braccio. La loro femminilità che scivolava in un limbo di pena e nulla.

Alice era sempre in uno stato di trance pieno di visioni e di ricordi. Per la fame, per la febbre o per salvarsi dalla china lungo cui stava precipitando senza più appigli. Ogni cosa del presente la conduceva nel passato. A rifugiarsi nella memoria. In una specie di sogno. Una mattina che non riusciva a staccarsi dagli stracci del pagliericcio, il rumore degli zoccoli delle compagne che si alzavano, la riportò sul selciato di lastre squadrate verso la filanda, mentre con le sue sorelle, Teresa e Giovanna, attraversava l’alba estiva. E a loro da tante strade, man mano, si aggiungevano le altre donne, fino a fondersi in un unico fiume che picchiava ritmico sulle pietre. E cantavano.

Muoveva le labbra e non ne usciva suono e non riusciva ad ascoltare Marie che la scuoteva, dicendole che si erano già alzate tutte.

In un delirio pieno di dolcezza sognava le sere d’estate, quando andavano a ballare. Era una balera in campagna fra i pioppi, vicino al canale. Si stringevano a vicenda nel busto e scappavano via di nascosto. Il papà era severo, rimasto vedovo presto, con queste tre femmine pronte a sbocciare, come fiori pieni di polline. La Giovanna era meno bella delle sorelle, ma così buona. Stava seduta al bordo della pista, e nessun giovanotto mai la invitava. La facevano ballare loro due, a turno.

La scuoteva ancora Marie, ma lei restava là.

Non ti scordar di me
la vita mia legata a te.

La fisarmonica e il mantice che si piega e ripiega e le gonne a cerchio che girano.

Partirono le rondini
dal mio paese freddo e senza sole…

Le due sorelle ballano insieme.

…cercando primavere di viole
nidi d’amore e di felicità…

Allacciate sotto un cielo rotondo che brilla di stelle grandi e vicine, come comete e meteoriti in viaggio.

… non ti scordar di me
la vita mia legata a te.

Marie la dovette sollevare di peso per farla alzare, ma nei suoi occhi, che aprendosi si smarrivano, lesse tanta lontananza e una piccola profonda follia, che li rendeva trasparenti e già in viaggio verso l’annientamento.

Alla sera, al ritorno dal lavoro, la trovò piegata in due dai dolori. Si alzava con fatica, trascinandosi alla latrina. Sempre più spesso. La dissenteria, così la chiamavano, ma era tifo.
Si sapeva cosa significava, ne avevano viste tante finire così.

Marie la accompagnava in silenzio. Alice era febbricitante, agitata e continuava a parlare.

Le fece imparare a memoria l’indirizzo di Milano e giurare che quando sarebbe ritornata, sarebbe andata da suo marito. E di questo ritorno di Marie Alice sembrava così sicura che le trasmise la forza di crederlo, anche dopo.

Alice parlava, parlava continuamente ed era come se le sue parole chiamassero a raccolta, una per una, le persone e le storie e il passato tutto a vegliarla, perché la potessero riscaldare, salvare ed accompagnare per mano verso il buio che la stava aspettando.

Poi pian piano Alice smise di parlare, sembrava dormisse. Anche Marie si assopì. Intanto il cielo schiariva e all’arrivo delle sorveglianti per la sveglia qualcuna fece la spia che lei stava male e andava sempre alla latrina e aveva delirato tutta la notte.

Marie provò a protestare, a dire che non era vero. La picchiarono con il frustino e dovette arrendersi. Provò ancora a scuotere Alice, ma lei non si alzava, respirava affannosamente e tremava.

Mentre le altre si avviavano all’Appell, la portarono via su di un carretto.

Marie, alla sera, rischiando grosso, scappò alla baracca dell’infermeria e spiò dalla finestra. I letti di ferro erano tutti vuoti, con i materassi arrotolati.

Qualche tempo dopo il campo fu liberato dai Russi.

Era solo Aprile.

Marie non lo potè vedere.

I Tedeschi, ormai braccati, avevano incolonnato quelle ancora non malate costringendole ad evacuare con un lunga marcia a piedi, per trasferirle in un altro campo, dicevano.

Ad un certo punto le abbandonarono al loro destino.

E non riuscivano a credere che fosse tutto finito.

E Marie riuscì a tornare, come le aveva detto Alice.

[ a chi fu internato nei campi di concentramento nazisti non per discriminazione di razza o sesso o altre cause indirette ma per le sue idee politiche – per la scelta eroica e consapevole di ribellarsi alla dittatura fascista e nazista – a tutti coloro che non ebbero per le loro ceneri e per le loro spoglie urna e luogo la memoria sia sempre corrispondenza d’amorosi sensi e monito severo per il futuro ]

“Gli alberi crescono, nuvole corrono, gli anni in fretta passano.” da Brundibár di Hans Krása di Orsola Puecher

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
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