Il cavaliere di Graal
di Patrizia Vicinelli
[Scusandomi per il ritardo, pubblico la poesia di Patrizia Vicinelli inviatami da Emma (lei sa quale), che ringrazio. a.r.]
Da un altro punto furono viste le stagioni
fino lì sconosciute
solo allora poté sedersi ad ammirare
il senso dell’alternanza.
Dalla sua radice gassosa ne muta
la base visibile
e lo cimenta la traiettoria
di notte e giorno la luce,
il cielo.
È fusa la donna alla sua ombra
eppure trema al fuoco dell’inizio
così se li sposta i suoi passi
Iside all’orizzonte mèta
ora essa fugge la sua lontananza.
Perché non cola l’attesa profumata
ossia fermarsi
la sua ansia volta avrà la fine
di profilo porre cosa la tiene unita
quella che stacca la radice, un alito.
Batte allora sul ferro la materia di sé
e lo plasma ogni angolo continuo
della vista
una distanza del suo centro esatta
la definisce.
I piani diversi del linguaggio
ne è avvolto
così genera le forme della sua ricerca
egli ha imparato come lasciarsi solcare
ad essere cinto dalle tracce.
Con un colpo d’occhio sentiva
la presenza simultanea di tutto ciò
che nella terra cresce
e questa coscienza della situazione attuale
lo aiutava come una disciplina.
Ciò che non è compiuto spinge
il modo del procedere,
mèta, mèta, arsi e riarsi,
durante la costa dei millenni.
Incessante se lo vide rinascere e morire
il mondo fino a dove
non ci fu più tempo né abbastanza luce
per seguitare i paradossi demoniaci
sbalzato come dura pietra molle ora
nelle acque del fiume,
si agitava dentro pezzi di realtà dissimili.
Nel mentre cantano nel petto i volti
dei suoi sogni
muta al mattino in albe anche dorate,
quale certezza venga da mondi paralleli, attriti
posti sopra o sotto, vincolanti.
Scivolando lungamente sul fianco
della piramide atavica
lo blocca quando vuole come esercizio
e intanto la miseria dell’uomo
va consumata dentro di sé, nell’arca
del suo spazio interiore
intendeva infrangere ciò che da inadeguato
si ricompone ad ogni istante.
L’attrazione dinamica del fare mancò
a quel punto
e alla fine della danza più lunga,
l’abbandono e il silenzio
della grandiosa solitudine
lo rendeva eterno,
come collocato su di un punto raso
della terra, sotto le stelle.
Non era più chiamato in battaglia
da tanto tempo.
Il mio inizio è forse il solo inizio,
disse l’uomo assetato, e si sedette
a guardare l’evidenza del suo destino.
Il cavaliere che guarda la luna,
non cerca e non aspetta niente.
Beveva quel soffice vino d’agosto
e teneva la porta aperta
sulla laguna afosa della fine d’agosto,
musica in viole di quel tempo, vino di Graal.
Si chiedeva se non fosse una sua fantasia
mentre risa fendevano l’aria,
di giovani donne ubriache.
Arrossisce il suo silenzio il vino
e gli dà corpo
col respiro batte il ritmo della mente
nell’aria intatta
ora a cerchio lo sguardo, la perdita
lo svela,
un parallelepipedo di una battaglia navale
del settecento,
esatto d’ombre fatte di sfumature.
In settembre oltre la luce così bassa
e radente c’è nebbia
e l’odore di funghi porcini annusati
a lungo, come nelle cene d’inverno
dentro le buste di plastica.
La configurazione del male così conosciuta
era allora impalpabile, sembrava
non ci fosse traccia.
Intanto la luna al primo giorno calante
porge la notte in adagio,
la struttura tutto sommato
è tonda ora, poi cambierà.
Già pensa che il santo Graal è troppo
lontano, e il bicchiere si sta offuscando
di rosso, – qualsiasi cosa signore, ma spingimi
avanti – nuovamente il bicchiere brilla rosso
e la luna fra gli alberi cade con la certa nebbia
fino ai pini e alle acacie, ma non i grilli, non
i ragni, le libellule fino a ieri poi.
Non c’è arrivo non c’è sosta non
c’è partenza, ma il succedersi senza tregua.
Questo sì, che ad ogni livello ne succeda
un altro, per generazione spontanea
l’aveva saputo dalla ruota che girava
mentre i mondi finivano, a volte.
[Tratto da Opere, Scheiwiller, 1994.
*
*
Foto di (e con) Alberto Grifi.]
Emma, potresti dirmi di quando data questa poesia? Mi sembra importante. Ri-grazie,
Andrea, io la poesia te l’ho spedita, ma so pochissimo della Vicinelli.
Giorgio Di Costanzo, se ci sei batti un colpo!
Temperanza, se ci sei batti un colpo! :-)
“Il Cavaliere di Graal” l’ho presa in un’antologia esecrabile ed esecrata (“Il pensiero dominante” di Loi e Rondoni).
Il curatore della parte in italiano (Rondoni) evidentemente non ha ritenuto necessario citare il titolo della raccolta (o del poema), limitandosi al generico “Opere” – Scheiwiller – 1994.
Visto che si reclamano i rimandi alla rete, ecco una terribile stroncatura de “Il pensiero dominante” (fuori tema, vabbe’), a firma Giuseppe Genna.
http://clarence.supereva.com/contents/cultura-spettacolo/societamenti/recensioni/0106/rondoni.html
Emma, non importa, grazie lo stesso. Lo si troverà un giorno o l’altro.
*
Quanto alla recensione, certo che Genna quando è in forma è davvero bravo!
*
Cerchero’ altri testi di Vicinelli, se possibile meno “anestetizzati” – in questo ha ragione Cortellessa, senza che cio’ tolga alcunché alla qualità della poesia -.
Sono assente per gravissimi motivi familiari. Scusatemi.
Il testo di Patrizia fa parte de “I fondamenti dell’essere”, è l’inizio della parte prima. L’intero testo è datato: settembre ’85, ’86, e febbraio ’87. Patrizia è venuta a mancare il 9 gennaio 1991, esattamente un mese prima di Corrado Costa. Ancora scusatemi per la fretta e per non potermi dilungare su una carissima amica.
Grazie Giorgio.
E insomma, che tutto ti vada per il meglio.
Perché così tanta poesia schiva la sfida del senso?
Perché per la prosa questo è più difficile da fare e col senso prima o poi devi farci i conti?
Perché deve piacermi una poesia che continuamente sfugge ad ogni tentativo di “leggerla”, creando immagini (apparentemente?) random, una-via-l’altra, spezzando in continuazione ogni possibile costruirsi del discorso, non dico di un ritmo, frustrando alla radice ogni tentativo anche volenteroso di comprensione, magari costruendo qui e là bolle, non dico di senso, ma forse capaci di evocarti cose, che però subito vengono fatte scoppiare, per essere di nuovo diversamente riformate più in là?
Sotto questo tipo di poesia non si nasconde un kitsch annoso?
Un’impotenza sostanziale nell’uso di parole non totalmente auto-riferite, cioè che non abbiano senso, qualora ne avessero, se non per chi le ha scritte?
Non è un tipo di poesia che con il lettore usa il bastone e la carota, premiandolo et punendolo, stop and go, fino alla fine?
Perché leggerne allora?
Chi ha postato qui questi versi potrebbe aggiungere peffavore una nota di commento critico?
Cioè in sostanza per quale motivo a lui/lei questi versi dicono, piacciono?
Per esempio a me piacciono molto questi versi, non mi sembrano affatto bolle che scoppiano… forse poesie come queste evocano a me donna immagini di senso nel mio percorso femminile alla ricerca di una identità che non sia cliché. Forse non tutto quello che non si comprende all’istante è da rifiutare, forse esiste la diversità che a me fa amare questi versi e a Tashtego no. Non credo sia un problema amare cose differenti, se così fosse saremmo omologati in un’unica direzione. E non li trovo neppure “anestetizzat”, anzi mi piacerebbe sapere in che senso sono stati definiti tali. Tutto ciò senza polemica, semplicemente per riflettere sulla diversità.
Carissimo Giorgio Di Costanzo
spero con tutto il cuore che le cose si risolvano a tuo vantaggio e ti ringrazio per le note preziosissime alla poesia
effeffe
(Procida)
Mah, quanto alla labilità del “senso”, in Rimbaud c’è di molto peggio, mi sembra – certo non è obbligatorio amare Rimbaud.
Il discorso è complesso, mi supera di molto. Tuttavia, posso forse dire che parole che non si fidano della realtà e del buon senso comune – della lingua comune – a me parlano. E’ poco, lo so.
*
Quanto all'”anestetizzato”, citavo Cortellessa citato da Genna nell’articolo citato da Emma (uff!); in pratica Cortellessa, parlando della Loi-Rondoni – sembra una legge sull’immigrazione, e forse un giorno, ahinoi, lo sarà, quando vieteranno le lettere meticcie – dice che dei poeti “d’avanguardia” avevano scelto solo esempi rari ed anestetizzati. E secondo me ha ragione : questa poesia della Vicinelli è di perfetti classicismo e trasparenza rispetto ad altre sue – la maggior parte -.
Non è un giudizio di valore, ripeto; o se si’, solo sul poco coraggio dei curatori.
Baz, abraz,
p.s. Un saluto e un augurio a Di Costanzo.
Riguardo ai dubbi di Tashtego, io penso che la modernità (e l’arte moderna in particolare) abbia abbondantemente dimostrato come tutto quanto – qualsiasi strutturazione ci si presenti davanti – possa essere trattato come un “significante”, e diventare quindi oggetto di complesse proiezioni di significati e di sentimenti: insomma il classico ritrovare “il tutto nel niente e il niente nel tutto”. Ritengo dunque che in questo tipo di operazioni, pur intrise di sofisticata consapevolezza “linguistica”, l’atteggiamento rimanga essenziale: se siamo annoiati, irritati, limitati in qualche risorsa o prevenuti in un modo qualsiasi (magari inconsciamente) riusciremo a divincolarci agevolmente da ogni possibile “riuscita” di questo tipo (penso che sia per questo che troviamo così bravi ed interessanti i nostri amici, quelli verso i quali, magari per reciprocità, siamo disposti a quell’investimento di affettuosa attenzione che questo tipo di opere reclama.) Naturalmente parlo principalmente per me stesso: ho notato per esempio, con un certo disappunto, come mi siano bastati alcuni giorni di assenza forzata da questo contesto, seguiti da un periodo eccessivamente disturbato dalle tristi incombenze della vita, per sentirmi irrimediabilmente “out of synch” con quanto veniva qui proseguito, talvolta con molto rammarico (quando mi sembrava che lo scambio prendesse davvero il volo) altre volte senza (quando mi sembrava che il discorso corto-circuitasse nella cosidetta “autoreferenzialità”.) Il problema non mi sembra dunque essere il “noumeno” di questa poesia, probabilmente inesistente e costruito da ciascuno “on-the-fly”, quanto il suo carattere di universalità, ovvero il suo situarsi nella polarità: per cultori / per tutti, dove il “per tutti” implica secondo me una più grande responsabilità e la disponibilità a giustificare un simile azzardo a fronte di tutte le possibili critiche, perseguendo onestamente l’inter-soggettivazione di ogni concepibile valenza. Altrimenti, se ci rifugiamo nell’ineffabilità e nelle affinità elettive dei circoli di cultori, si porrà pur sempre il problema dell’inflazione, del fatto che quella amorevole attenzione che è il necessario propellente di simili operazioni è comunque una risorsa scarsa, per la quale si scatenerà una contesa darwiniana che converrebbe mantenere alla luce del sole, per non ricadere nell’ipocrisia e nella stucchevole retorica della “buona volontà culturale”.
Wowoka, la tua riflessione è notevole, ma nonostante le riletture non riesco a comprenderne le ultime righe, a partire da “Altrimenti…”. Potresti forse parafrasare?
Comunque, rivolgendomi a te, Tashtego e Gabriella a un tempo, mi è capitato sotto mano questo passo del mio amato Hermann Broch:
“Chi si limita a cercare soltanto nuove sfere di bellezza, crea sensazioni, non arte. L’arte è fatta di intuizioni della realtà, e solo grazie a queste intuizioni essa si solleva al di sopra del Kitsch. Se non fosse così ci si potrebbe accontentare delle sfere di bellezza già scoperte.”
Per quel che mi riguarda, l’interesse per la poesia, e anche per la poesia che sfida il senso comune, viene proprio dal fatto che con il senso comune faccio i conti (come tutti) ogni giorno, così come con l’esigenza di maneggiare/scrivere testi chiari ed “efficaci” sul piano della comunicazione.
Questo non significa affatto che aspiro a far parte di chissà quale circolo élitario.
Ho semmai l’impressione che la poesia – e non solo quella “oscura”, ma anche quella immediatamente comprensibile – più che un “genere” (un “genere”?) da élite, sia il “genere” più negletto.
Nell’ambito del “genere” poesia poi ci sono molte cose e diverse.
È evidente che l’inter-soggettività è necessaria, ma è necessario anche fare i conti con il proprio tempo.
Come si fanno questi conti?
Anche ammettendo che l’oscurità rappresenti “il” problema, bastano la lirica e i “modi” della tradizione?
E poi: l’arte contemporanea è così comprensibile?
@Zangrando. Provo a risponderti cercando di ricondurmi velocemente ad un contesto “ideale” di “ricerca” (intesa in senso lato) attraverso un frammento di Daniel Dennett: “Ogni particolare creatore – romanziere, compositore o programmatore che sia, è accellerato nello spazio dei progetti da un insieme di abitudini particolarmente distintivo noto come stile [Hofstadter …etc]. E’ lo stile che ci vincola e allo stesso tempo ci offre le opportunità, imprimendo una direzione positiva alle nostre esplorazioni, ma soltanto rappresentando in altro modo regioni confinanti che ci sono proibite – e se sono proibite a noi in particolare, probabilmente sono proibite a chiunque per sempre. Gli stili individuali sono davvero unici, prodotti di incalcolabili miliardi di felici incontri casuali avvenuti nel corso degli eoni, incontri che hanno prodotto dapprima un genoma unico, poi un’educazione unica e infine un insieme unico di esperienze di vita. Proust non ebbe mai la possibilità di scrivere qualche romanzo sulla guerra del Vietnam e nessun altro potrebbe scrivere quei romanzi – romanzi che raccontino quel periodo con il suo stile. Siamo bloccati, essendo reali e finiti, in un angoletto minuscolo dello spazio totale delle possibilità, ma quale meravigliosa realtà ci è comunque accessibile, grazie al lavoro di ricerca e sviluppo di tutti i nostri predecessori! Tanto vale sfruttare al meglio quanto abbiamo, lasciando in tal modo ai nostri discendenti qualcosa di più su cui lavorare.”
A questa visione, forse un po’ troppo serena, aggiungerei soltanto l’inquietante considerazione di come lo stesso nostro inabissarci in qualche zona estrema dello “spazio dei progetti” comporti necessariamente una estesa “riprogrammazione” della nostra mente, una deriva che rende l’idea di universalità – che implicitamente informa ogni “offerta” creativa (nessuno attribuirebbe grande importanza a qualcosa di totalmente arbitrario, arbitrarietà che al più dovrà limitarsi alla superficie delle cose) alquanto problematica. A fronte di questa problematicità, penso che la risposta più irritante e scorretta, ma purtroppo anche la più facile e quindi comune, sia quella dell’elitismo, cioé dell’assolutizzazione della propria arbitrarietà, sia esso quello (davvero odioso) che tenta di “naturalizzare” (e quindi perpetuare) delle situazioni di privilegio sociale, oppure quello (assai più scusabile) di chi ritrova in esso l’estrema forma di difesa da una società che tende ad annullarlo. Penso che si tratti di una questione cruciale, p.es. auto-addestrarsi la mente fino a riuscire ad attribuire qualche valenza abissale a quelli che magari furono dei semplici capricci di un’annoiata Peggy Guggenheim, mi sembra un fenomeno alquanto sinistro, però sono abbastanza sicuro che una parte significativa del gioco consista proprio in questo (ma mi sa che ho divagato, sorry!).
Visto che non lo dice nessuno, lo dico io : la foto è meravigliosa, ogni volta che apro NI mi ci incanto davanti.
Mi preme dire, ancora una volta, che portare ad esempio la de-strutturazione dei linguaggi che il Novecento ha operato praticamente su tutte le discipline artistiche, per giustificare l’elusione del senso che spesso opera la poesia più “facile”, è a mio avviso un errore.
L’idea, radicata anche nelle avanguardie, che le cosiddette “arti” (le “10 Muse”, per capirsi) non siano altro che vari accidenti di una medesima sostanza, quella dell’ARTE, e che quindi sia lecito per esempio paragonare pittura e poesia, perché in fondo stiamo parlando della stessa roba, questa idea dicevo è sbagliata.
Un quadro non-figurativo, cioè privo di referente condiviso, o esterno, non è la stessa cosa di una poesia ermetica, o priva di significato intelligibile (non voglio dire univoco).
Segni e parole, benché siano ambedue strutturabili nel discorso, non sono la stessa cosa, e il discorso plastico e/o visivo è molto diverso dal discorso costruito con parole.
Le parole nascono attaccate ad un referente e viaggiano nel tempo e nello spazio con dentro un significato.
Anzi, vivono proprio in virtù del significato.
In molti casi più di un significato.
La grammatica e la sintassi servono per comporre i significati delle parole nel discorso. La poesia è anch’essa discorso.
Il discorso possiede una struttura più o meno rigida & solida ed è veicolo di un pacchetto più o meno complesso di significati composti, implementati, eccetera che ne formano il senso.
Eccetera: non voglio andare oltre, su questo piano.
Mentre il visivo tollera un ampio grado di distacco da ogni referente condiviso – immagino che una delle ragioni di ciò sia nell’ampia mancanza di “senso” di cui è dotato molto di ciò che siamo abituati a vedere – il verbale porta con se significato e senso, senza i quali è urlo, rumore, borborigmo, parole in libertà, eccetera, tutte cose che possono evocare, ma alla lunga non davvero significare & restare, abitarci.
L’evocazione la tolleriamo per un ristretto numero di parole, oltre il quale il gioco perde senso, si disfa, le parole si de-legittimano da sé.
Scopo della poesia è riuscire ad abitarci, a farcire la nostra mente per intero, almeno per il tempo che ci è necessario per leggerla.
Le parole non devono abusare della nostra pazienza, del bisogno che abbiamo di poesia, spacciandosi per versi, anche quando sono qualcos’altro.
Occorre essere più severi con la poesia, bisogna pretendere dalla poesia che si confronti, sempre, col senso.
(il tono apodittico deriva da un’esigenza di brevità, me ne scuso)
> L’idea, radicata anche nelle avanguardie, che le cosiddette “arti” (le “10 Muse”, per capirsi) non siano altro che vari accidenti di una medesima sostanza, quella dell’ARTE
A me però quella non sembra una così brutta idea, nel senso che il prevalere della connotazione (significati secondi, terzi, quarti .. e riverberi emotivi) sulla denotazione potrebbe ragionevolmente caratterizzare il fenomeno artistico rispetto alla mera “comunicazione” di informazioni. La tua comunque mi sembra più una questione di grado (di tolleranza) che non di “essenza”.
“…è a mio avviso un errore”
“…questa idea dicevo è sbagliata”
“Le parole non devono…”
“Occorre essere più severi…”
“…bisogna pretendere dalla poesia…”
Mah, oggi ho un po’ di generica insofferenza verso l’inconfutabile :-).
Grazie Wovoka.
Epperò questi ultimi interventi tornano a bloccarmi, nel senso che sollevano questioni che, personalmente, non riesco ad affrontare nello spazio di un post. Anche perché il lavoro, quello che mi dà il pane, mi chiama a giornate decisamente impegnative… Perciò vogliate scusarmi, spero di poter tornare presto a discuterne.
È vero Andrea, la foto è molto bella. Forse anche perché lei (Patrizia Vicinelli) è splendida.
@emma
e però in fondo alle mie righe mi scuso di tanta assertività, emma.
la sostanza del discorso non mi sembra supponente.
ma vabbè.
A Emma : splendida è dir poco, in effetti. Spero con questo di non assumere una posa troppo “inconfutabile”… :-)
Tashtego,
il bello è che sono (più o meno) d’accordo con te. Anche sulla definizione molto istintiva che dài di “senso” come scoglio a cui aggrapparsi, quando nella realtà fa mare grosso.
Ma a me questa poesia non pone problemi speciali – saro’ magari scemo, che credo di capire e invece no -; per me racconta – o “mostra”, o “evoca”, come vuoi – l’uscita da un sistema cristologico, monodirezionale, monologico, e l’ingresso in un sistema circolare, più sinuoso, morbido ed aperto. Insomma : un passaggio dal “maschile” al “femminile” – ma detto certo con più finezza e creatività di come lo sto facendo io. Gabriella, che ha le antennine al posto giusto, e belle aguzze, se ne è accorta subito.
Io aggiungerei che c’è senz’altro un’eco buddhista nell’immagine finale della ruota.
Poi Di Costanzo ci informa che questa poesia fa parte di un ciclo, per cui si dovrebbe vedere l’assieme prima di dire cosa è chiaro e cosa non lo è.
*
Cosi’, molto a spanne, insomma.
Non capisco poi perché te la prendi con la sintassi, che a me pare del tutto regolare.
*
Sulla necessità storica e personale di sfondare le regole, di “farne un’altra” (come diceva circuncirca Balestrini, e con lui altri); io – che credo di essere più giovane di te – sono nato e cresciuto in un’epoca “sintattica” alquanto, di quelle da asfissiare. E il confrontarsi provocatorio di quelle esperienze con il “senso” mi pareva – e pare – cristallino.
Non è vero che fuori dalla sintassi condivisa ci siano solo urlo, borborigmo, parole in libertà… Ci sono miliardi di cose, non ne abbiamo un’idea, e galassie che ruotano.
Tàl disi mi che sùn lumbard da Varéss.
Sciau,
@Tashtego
Il tuo commento non mi sembra affatto supponente, lo trovo franco e per certi aspetti anche coraggioso, oltre che provvisto di un sano buon senso.
È che l’argomento mi sembra davvero ostico, refrattario – credo – a trattazioni in termini di ragione e torto, dover essere e pretese.
Poi, sulla severità: va bene, “occorre essere più severi con la poesia”.
E con la prosa? Tutto a posto per la prosa?
Anche se non ne avrei voglia (ho la morte nel cuore) vi debbo ( è una forma di rispetto) qualche nota supplementare. Il compianto Renato Pedio, curatore di “Opere”, Milano 1994, scrive una breve “notizia” a corredo de “I fondamenti dell’essere” che vi trascrivo: “Questo lavoro dal titolo I fondamenti dell’essere è strutturato in quattro parti, collegate tra loro da uno stesso procedimento di ricerca linguistica. La principale connotazione, che è etica, riflette momenti diversi della percezione – tempi dello spirito – e sviluppa modi diversi della manifestazione del tempo reale nella fattività e nell’evento, luoghi privilegiati di ogni metamorfosi. Le due relazioni si congiungono nella rappresentazione di un processo dialettico i cui termini trascendono il senso dell’esperienza nella speculazione del pensiero. Ognuna di queste quattro parti è corredata da una riflessione-rifrazione sonora e-o fonetica. La parte seconda, “Il tempo di Saturno”, riferisce anche una parte visiva che “svela” la modalità dell’analisi all’interno della struttura linguistica.”
Andrebbe ricopiato interamente il saggio introduttivo di Niva Lorenzini. Mi limito a riportare le prime righe: “La poesia di Patrizia Vicinelli è segnata da attriti, percorsa da interferenze che coinvolgono la realtà in frantumi e la voce che la registra, rivelandola. La logica della sistematizzazione è perciò quanto di più lontano si possa immaginare da un’esperienza verbale che pulsa e esplode nella sua gestualità e oralità, totalmente esposta a un ritmo versale e vitale di morte e rinascita, nella trasformazione incessante. A quel ritmo si richiamava la raccolta che segna un punto centrale nell’itinerario di questa poesia, per la tensione che la percorre e la tenuta di una parola insubordinata e libera. A rileggerla oggi, dopo anni di soporifera accettazione dell’esistente, di omologazione soffocante. “Non sempre ricordano” (uscita nell’85 ma stesa nel ?77) conserva intatti i suoi effetti di straordinaria dissonanza ottenuta tramite sconnessi moduli sintattici, contrasti urlati, dissimetria in grado di fronteggiare il disordine dell’esperienza. E’ una scrittura spavaldamente restia, sino nelle sue cellule lessicali, nelle sue minime modulazioni tonali attratte dall’emergenza del suono, agli schemi (e schermi) della memoria e della distanza (emozionale o, in senso pieno, letteraria, eccentrica rispetto al vissuto). Chi ha parlato di Campana e Pound, a motivare repentine incandescenze e flusso poematico, aveva ovviamente le sue ragioni: ma non di orfismo, se pure sconvolto e ribaltato, si tratta qui. Difficile comunque assegnare parentele: fosse pure quella di un plurilinguismo alla Emilio Villa, così fertile di suggestioni cosmofoniche…….”
Franco Beltrametti (povero, caro Franco) recensendo il libro Scheiwiller scrisse, tra l’altro: “…. Critici benintenzionati non potevano mancare di avvicinarla a Dino Campana. Errore, perchè Patrizia era donna, una donna sobria, dilaniata per generosità e aggressiva-ridente fiducia, donna d’avventure, certo, ma madre reale e solida, regina delle conquistate case bolognesi: via Castiglione, via Siepelunga, via Fattori, che mi ha sempre colpito per essere una traversa di via Speranza. Quando Patrizia giocava con irruenza a pallacanestro o quando sfrecciava in bicicletta sotto le Torri, passava una contagiosa scossa elettrica. Solidale con ogni ricerca di punta, sprezzante ogni furberia, opportunismo o stagnante stagnazione – continua e coerente era Patrizia. Violenta e antagonista, questa è poesia mordente, retta da visioni impervie, una poesia di spada……”
Patrizia rispondendo nel 1986 (tre ore circa) ad alcune (molte) mie domande, in parte pubblicate su una rivistaccia, disse: “…. Nel riflusso attuale, proprio in questi momenti… la funzione del poeta è quella di interpretare il proprio tempo…. il poeta autentico riesce a vedere i “germi” del nuovo. In parte il poeta “fa” il mondo, aiuta gli altri a diventare persone, a prendere coscienza di se stessi e in questo senso ha un ruolo sociale importante…”
D) Quali sono i poeti che rientrano in questa tua definizione?
R) “Certamente non un poeta aulico nè un cantore infelice alla Leopardi….. ritengo più attuale …. Baudelaire, Rimbaud e Lautreamont…… Per quanto riguarda i contemporanei non amo Antonio Porta, nè Roberto Roversi, nè Andrea Zanzotto…..”
D) E i poeti che stimi… chi consigli di leggere?
R) ” Preferisco Emilio Villa, Edoardo Cacciatore, Nanni Balestrini, Amelia Rosselli, Giulia Niccolai ed anche Gian Pio Torricelli, anche se da tempo non scrive più; con lui sperimentai poesia fonetica (eravamo i primi), Giangiacomo Feltrinelli ci spronò a leggere in giro e così venne fuori il primo disco. Attualmente Torricelli…..”
D) Cosa stai scrivendo ora, in questo momento?
R) ” …… Sto lavorando, in questi giorni, alla stesura di quattro quartetti con un titolo collettivo: “I fondamenti dell’essere”, divisi in a) Il Cavaliere del Graal; b) Tempo di Saturno; c) Eros e Thanatos; d) Up and Down… Uno spettacolo tratto da quest’opera verrà dato nella Chiesa
di S. Carpoforo, a Milano, il 4 aprile, con musiche di Giuseppe Chiari….”
Ho un gran rimorso: molti anni orsono avevo promesso a Gianni Castagnoli di dedicare qualche settimana a mettere un pò (solo un poco) di ordine tra le carte di Patrizia. Ho sempre rimandato. Ora entrambi siamo nelle condizioni (e nell’estrema lontananza) di pensare a ben altro. Ora….
Chiedo scusa per essermi dilungato e per gli inevitabili errori di trascrizione. NON HO ALTERATO, però, LE PAROLE DI PATRIZIA. E’ servito anche a scopo “terapeutico”… Ancora tante scuse. G.D.C.
non me la prendo “con la sintassi” della poesia in questione.
nominavo la sintassi, assieme alla grammatica, come sistema di norme che regolano la formulazione del discorso verbale.
Grazie Giorgio Di Costanzo per il tuo commento, non avevo mai letto nulla della Vicinelli eppure amo moltissimo i poeti che la Vicinelli invita a leggere.
…una poesia di spada… per me praticante di arti marziali sono sufficienti queste quattro parole, vanno nel senso del mio percorso. Un augurio per te.
Andrea, sì l’immagine della ruota conduce in mondi apparentemente distanti da noi…
Giorgio, il tuo intervento e la tua testimonianza mi sembrano preziosi.
Secondo me quelle settimane necessarie per sistemare le carte di Patrizia Vicinelli dovresti trovarle (e scusami se lo dico in circostanze per te così difficili e dolorose).
Giorgio, non so perchè, ma mi sono commosso leggendo il tuo testo. proprio così, colle lacrime e tutto. Perchè tempo fa una poetessa greca mi ricordava una verità tanto banale quanto necessaria da ricordarsi. I poeti salvano le lingue. Il greco si è salvato con Omero e i tragici. Il latino con catullo, Virgilio. Senza quelle opere di quelle lingue non si saprebbe più niente, forse, certo molto poco. E quel poco sarebbe meno “intenso” da ricordare. Ma chi salva i poeti? Persone come te, Giorgio, quella tua settimana vale molto di più di certe settimane qualunque.
effeffe
@zangrando. Non ti preoccupare, vivo anch’io lo stesso problema, anzi comincio proprio a pensare che il bello della poesia non stia poi tanto nella poesia stessa, quanto in quel contesto vitale – sufficientemente “arioso” e libero dalle urgenze (almeno nel suo complesso) – che ti consente di apprezzarla, di soffermarti con grazia ed antennine aguzze a scandagliare, con libido da cocainomane, le parole emesse da una qualche bellissima signora, e di ritrovarci dentro immagini, suoni, passaggi, sistemi, e di filarci sopra all’infinito. Come non trovare bello tutto ciò? Comincio quindi ad avvertire l’autentica natura delle mie insofferenze, che probabilmente mascheravo soltanto a me stesso, attraverso ritrite obiezioni pseudo-scientiste. Tutto comincia a sembrarmi saldamente connesso, sensato e fatale.
Eddai Wovoka, la poesia non è solo “grazia”, ecc. :-)
E mi rifiuto anche di ridurla al “bello”, o di contrapporla alla scienza, che non mi sogno proprio di considerare pensiero di serie B.
E poi la poesia non è “una”, segue tante strade diverse, produce cose straordinarie sia con parole oscure sia con parole chiare/chiarissime.
@ zangrando
cos’è una “sfera di bellezza”?
perché indulgete tutti oltrte misura nella triste pratica della metafora?
oltre
e cosa dire del poeta scienziato Parmenide?
su di lui si legga quanto scritto dal filosofo Giovanni Casertano:
Parmenide il metodo la scienza l’esperienza, Guida, Napoli 1978
caro giorgio, sei stato bravissimo.
per favore mi contatti tramite il mio blog (clicca su “contattami” sulla parte sinistra) e mandami la tua e-mail per risponderti. Non sono riuscita a trovarla in nessun tuo commento
georgia
Tashtego, scusa se ti rispondo brevissimamente, ma come ho scritto più sopra, gli impegni di lavoro in questi giorni mi sovrastano:
Non ho nessuna intenzione di fare a meno della metafora, né nelle citazioni altrui né, se possibile, quando scrivo di persona, perché non la considero affatto una “pratica triste”, ma una roccaforte [sic] di resistenza estetica contro il linguaggio bradamente referenziale o (peggio) simbolico e/o allegorico di tanta cattiva letteratura corrente.
Un saluto, anche a Wovoka, allo stupefacente Di Costanzo e a tutti voialtri.
ok zangrando, come non detto.
e però, cos’è una “sfera di bellezza”?
Hermann Broch:
“Chi si limita a cercare soltanto nuove sfere di bellezza, crea sensazioni, non arte. L’arte è fatta di intuizioni della realtà, e solo grazie a queste intuizioni essa si solleva al di sopra del Kitsch. Se non fosse così ci si potrebbe accontentare delle sfere di bellezza già scoperte.”
Boh.
Tash, Hermann Broch non mi sembra uno sprovveduto che usa allegramente il linguaggio metaforico perché non è in grado di spiegarsi in altro modo.
Qui c’è un’idea “forte” di arte: arte come intuizione della realtà e non come “semplice” ricerca del bello, come “banale” ricerca estetizzante.
Arte come forma di conoscenza. Arte contro estetismo.
ho bisogno di una qualche definizione di “sfera di bellezza”, emma.
principi di autorità a parte.
tu che ne pensi?
cosa significa la formulazione “sfere di bellezza”?
Non riesco a fare a meno del discorso di Broch. Perciò cerco di capire un po’ meglio la citazione di Broch.
Mi pare che per “sfera di bellezza” si possa (faticosamente) intendere il Concetto di “bello” + l’Esperienza del “bello” applicati a un mondo a sé, un mondo autosufficiente diverso dal mondo reale.
L’elemento-Esperienza del “bello”, identificabile sostanzialmente con l’esperienza sensoriale (“crea sensazioni”), sembra prevaricare, in ogni caso è molto più importante dell’aspetto “concettuale”.
È evidente che l’esperienza sensoriale per Broch presenta seri limiti, non ultimi il limite di una soggettività assai grezza e il limite della non universalità (c’è materia per la tua tesi, che era poi ciò che cercavi :-).
Per di più la sensazione non consente la conoscenza. Solo l’intuizione permette di comprendere – in maniera non frammentaria (non alienata?) – la realtà, e dunque (questione-chiave) il proprio tempo.
Senza l’intuizione c’è l’esperienza ridotta della sensazione, il “bello” fine a se stesso, l’ornamento senza sostanza, l’orpello inutile, il kitsch.
Naturalmente ci si può chiedere se è ancora possibile un discorso così congegnato, con la sensazione gerarchicamente posta sotto l’intuizione, una realtà conoscibile e “intuibile”, un’arte “utile”, con intatte possibilità di comprendere e agire, ecc. ecc.
Se ne è già parlato, mi pare.
gentile di costanzo,
mi spiace approfittare di questo spazio pubblico per chiederle una informazione bibliografica. Ma il rispetto che ho per la poesia di Vicinelli, largamente condiviso in questa discussione, me ne danno il coraggio. Una parte della mia tesi di dottorato si occupera’ della vicinelli di Ah a a. , e le sarei grato se potesse dirmi su quale rivistaccia appare l’intervista – materiale prezioso per il mio studio (oppure se esiste la sbobinatura integrale mi piacerebbe poterla leggere). Credo d’altronde che sia una informazione utile anche per gli altri utenti del sito.
Grazie molte, in anticipo.
@emma
grazie per lo sforzo, sincero et forse penetrante, ma non convincente.
nel tuo post c’è materia per discutere giorni e notti, e anche per menarsi.
dunque non mi inoltro.
noto solo la sostanza idealistica di ciò che hai postato, come di più o meno tutta la filosofia di cui qui ci si nutre.
e riappare la mia ossessione per le nostre radici comuni, che affondano nel liceo classico/scientifico (è lo stesso) italico.
da cui vengono concetti come “l’universalità del bello”, per esempio.
eh.
Tash, senz’altro mi sono spiegata male. Ma la “sostanza idealistica” non è mia, è di Broch.
Ho ripreso la citazione di Broch perché non fa parte delle mie consuetudini parlare di “sfere di bellezza” :-)
Il mio pensiero (se proprio ci tieni) è quello da “naturalmente” in giù.
E poi non ho frequentato il liceo, né il classico né lo scientifico, e l’università l’ho fatta lavorando :-)
Oltretutto mi sembra che l’“universalità” sia un problema tuo, non mio :-)
A me l’immagine “sfere di bellezza” non crea grandi problemi. Cos’è la bellezza lo sappiamo tutti per via, diciamo così, “intuitiva” (determinazioni biologiche, culturali + semi di casualità). Il fatto che essa la si ritrovi qui e là sempre “intorno” a noi, in oggetti, persone, situazioni eccetera, è conseguenza abbastanza ovvia del nostro essere “soggetti”, cioè dei “punti di vista”, situati invariabilmente al centro di queste percezioni. Dunque la sfera mi appare un’immagine abbastanza appropriata. Il fatto che Broch parli di sfere distinte, invece che di una singola sfera, mi sembra un altrettanto ovvio prodotto della nostra attività “segmentatrice” (“Il soggetto è ciò che i processi continui di risegmentazione del contenuto lo fanno essere” – Umberto Eco) capace di moltiplicare a proprio comodo l’indubitabile unicità dell’essere (“l’infinito è l’unità indivisa e non moltiplicata, ogni molteplicità è un inganno” – E.Zolla).
Occhio ai nomi indiani, Emma. L’universalità è una paturnia mia :-)
Allora siete più d’uno :-)
@ Tashtego pensavo al libro di Peter Sloterdijk, sfere, sul filosofo austriaco vd
http://multitudes.samizdat.net/rubrique.php3?id_rubrique=191
effeffe
“Cos’è la bellezza lo sappiamo tutti per via, diciamo così, “intuitiva” (determinazioni biologiche, culturali + semi di casualità)”.
beh, insomma.
cosa c’è che non quaglia?
ho scoperto per caso questo blog…sto organizzando una serata su Patrizia Vicinelli a Bologna…Saranno letti parte dei Fondamenti dell’essere. Da Stefano Armati, che ha lavorato con Patrizia in “Oltre la costa dei millenni “nel 1987…
@Patrizia Caffiero
C’è già una data?
Stefano Armati? A Milano, primavera ’87, nella Chiesa di S. Carpoforo, danzava, un pianoforte e un cavallo? Abitava a Bologna (bisognava scendere molte scale) e abbiamo visto a casa sua (con Patrizia, Gianni, Linda Mazzanti e Silvia De Brasi) il video “Non sempre ricordano”? Chi può risponda, per favore.
Per Riccardo: solo ora leggo la tua richiesta, ma non so se posso citare un altro sito, non vorrei combinare pasticci….
Mi sembra davvero il caso di segnalare (sul blog di Georgia) l’intervista di Giorgio Di Costanzo a Patrizia Vicinelli.
http://georgiamada.splinder.com/post/6009296#comment
sì, la data è il 24 novembre, a Bologna, Stefano Armati reciterà una parte dei fondamenti. Lui ha fatto questo splendido spettacolo su Patrizia Vicinelli nel 1995. Invece quello di cui parla Giorgio Di Costanzo (ti saluto!) è “oltre la costa dei millenni”, appunto 1987; Stefano Armati era su un cavallo o danzava, anche se con movimenti limitati. Ho visto il video che ha Stefano, mi piacciono molto le inquadrature…naturalmente Patrizia Vicinelli è molto potente. Proietterò anche parte del video prima della lettura. Complimenti per questo blog, non lo conoscevo. Ora andrò a leggermi l’intervista che citate alla Vicinelli.
Grazie Patrizia.
Forse il 24 novembre ci sarò.
Grazie a te, Emma. Mi piacerebbe tanto che venissi. Nella mia rassegna, che puoi vedere meglio a http://www.versinscena.com, ho scelto i poeti bolognesi che più mi interessano, su tre generazioni degli ultimi trent’anni..e anche se non è presente Roversi, la sua ombra campeggia dietro Centi, Sissa, Massari…certo sono solo 5 serate…e sei poeti…ma più avanti, più a lungo termine sto preparando una grande giornata studio su Patrizia Vicinelli; anche dalla bella conversazione letta su questo blog mi accorgo che LEI non è, forse, conosciuta e ricordata abbastanza…per Riccardo: ho del materiale sulla Vicinelli che sto raccogliendo insieme a Rossella Bonfatti, se ti interessa te lo cito volentieri…ora ho poco tempo, ma a presto
Ho messo Versinscena tra i Preferiti :-)