“Vincent, in nostalgia della terra dei dipinti”, di Peter Gizzi
È questo che volevi dire, Vincent?
che troviamo riposo alla fine della macchia d’alberi
annidati nella nostra porzione sotto la migrazione dell’uccello
a dire, chi e come sono reso migliore dalla lotta.
O perché io io sono in questo giardino botanico vuoto
questa spirale discendente di colpi bassi e di visione
la vigna densa di foglie che si avvolge e soffoca l’albero.
Oh, santo cielo, se lo sei davvero
o se davvero riesci a sentire ciò che potrei dire
guariscimi e fammi avere il dono della risata
di occhi e sorrisi, di occhi ed affetto.
Non essere ingenui trovare solo risposte sciocche
non immaginare che le risposte siano la sola destinazione
né è utile ora interrogare il colore
ora che il raggio bianco nell’albero distante getta luce.
Che il sole ci possa fare questo, a ciascuno di noi
che il sole possa fare questo ad ogni cosa dentro
la luce spezzata rifratta attraverso le foglie.
Ciò che gli antichi chiamano pace, nessun esempio migliore
ciò che i nostri padri chiamavano il bene, quale migliore celebrazione.
Le foglie brillano così nel corpo come nella testa
il sole va più a fondo del pensiero.
Oh essere utili, d’utilità, alla reale cosa vista
essere in qualche modo connessi tramite ciò che si fa nel mondo.
Forse non c’è nulla di più grande al mondo
nulla di più fedele ai buoni sentimenti che vibrano dentro
come nel mezzo del fiore io chiamo il tuo nome.
Corrispondere, essere in equanimità con le cose organiche
affaticarsi e riflettere e tornare a casa e dipingere
più lontano, e oltre, la migrazione delle cose.
L’atto del tornare a casa delle oche e dei topi boschivi.
L’ampia dimostrazione del sole dentro tutta la vita
dentro tutta la vita vista e sentita e anche tutte le parti atomiche.
Ma le cose percepite esistono in ombra, riflettiamo.
L’oscurità porta una luce tuttora impunita dalla chiarità
ma forse una profondità più lucente ancora della chiarità e che è vera.
Il buio è vicino al dubbio e dunque vicino al sole
almeno ciò che i vecchi libri chiamavano scienza o a cui si inchinavano.
Il buio non è il male perché contiene il violetto e il cobalto
e non dimentichiamo mai il violetto e il suo calore
il calore della mente riflessa in un tempo buio
nel tempo dei dipinti e della luce rifratta.
Ah, il sole è anche qui nella regione polare della notte
la prossimità animale di un altro e di nessuno.
Entrarvi come in una grande onda frangente a fine agosto
uscire con lui dovunque sopra e scintillante.
Interrogarsi e sognare e alzare lo sguardo verso di lui
meraviglioso e strano compagno a tutti i nostri giorni
e la fatica e la cura e la paura animale sempre con noi.
Il cielo di notte, il profondo senso di spazio, concreti corpi di luce
la gemma a pennellate in raggi e scintillii
da tenere stretti, legati più stretti nell’atto del vedere.
Il puro atto verticale di sentirsene presi
il cielo, la luna, le molte forme celesti
queste notti stellate solo e connesso vivo all’orlo.
Pensare adesso all’argento e al quasi blu del peltro.
Percepire queste tinte nel profondo, sentire il colore crescere e calare
e il giallo, i gialli sono le tonalità del lavoro e del pane.
Il sole profondo e costante tocca terra e imprime il suo marchio
facendo così tanto più di sé qui di dove segnala
la grande sfera di fuoco collocata al centro di ogni cosa.
Non è confortante questa nozione di ogni cosa?
benché nulla possa esserne l’espressione ultima e reale
quel nulla al centro di una cosa viva e infuocata
verde e poi menta, blu e poi color del scisto, grigio e grigio che si fa viola
e poi crepuscolo lucente e dopo polvere poi sparsa, ora scomparsa.
Ma a che servono adesso questo raggio sottile, questa porta socchiusa
il sentiero stretto coperto da una volta di alberi che chiama
cosa dire della striata inutilità in ombre e linee lapidarie.
Continuare, mandare avanti, fare il passo dopo, morire.
I cerchi si allargano increspandosi nel sempre disegnato a tratteggio
il cerchio all’orizzonte che si riversa di continuo nella pittura
nella non vicina, nell’adesso lontana, nella via da tempo linea del giorno.
Quella luce mi era nemica e grande fonte di agonia
un grande sollievo nella pittura e la fratellanza il cielo e l’erba.
Le colline fragranti parlavano in toni floreali che riuscivo a sentire
i nodosi ceppi tagliati che laceravano il cielo, divoravano il sole.
I nodosi ceppi tagliati che laceravano il cielo, divoravano il sole
le colline fragranti parlano in toni floreali che riuscivo a sentire
un grande sollievo nella pittura e la fratellanza il cielo e l’erba.
Quella luce mi era nemica e grande fonte di agonia
nella non vicina, nell’adesso lontana, nella via da tempo linea del giorno
il cerchio all’orizzonte che si riversa da tempo nella pittura.
I cerchi si allargano increspandosi nel sempre disegnato a tratteggio.
Continuare, mandare avanti, fare il passo dopo, morire.
Cosa dire della striata inutilità in ombre e linee lapidarie
il sentiero stretto coperto da una volta di alberi che chiama
ma a che servono adesso questo raggio sottile, questa porta socchiusa.
E poi crepuscolo lucente e dopo polvere poi sparsa, ora scomparsa
verde e poi menta, blu e poi color del scisto, grigio e grigio che si fa viola
quel nulla al centro di una cosa viva e infuocata
benché nulla possa esserne l’espressione ultima e reale.
Non è confortante questa nozione di ogni cosa?
la grande sfera di fuoco collocata al centro di ogni cosa
facendo così tanto più di sé qui di dove segnala.
Il sole costante e profondo tocca terra e imprime il suo marchio
e il giallo, i gialli sono le tonalità del lavoro e del pane.
Percepire queste tinte nel profondo, sentire il colore crescere e calare
pensare adesso all’argento e al quasi blu del peltro.
Queste notti stellate solo e connesso vivo all’orlo
il cielo, la luna, le molte forme celesti
il puro atto verticale di sentirsene presi.
Da tenere stretti, legati più stretti nell’atto del vedere
la gemma a pennellate in raggi e scintillii.
Il cielo di notte, il profondo senso di spazio, concreti corpi di luce
e la fatica e la cura e la paura animale sempre con noi
meraviglioso e strano compagno a tutti i nostri giorni.
Interrogarsi e sognare e alzare lo sguardo verso di lui
uscire con lui dovunque sopra e scintillante
entrarvi come in una grande onda frangente a fine agosto.
La prossimità animale di un altro e di nessuno.
Ah, il sole è anche qui nella regione polare della notte
nel tempo dei dipinti e della luce rifratta
il calore della mente riflessa in un tempo buio
e non dimentichiamo mai il violetto e il suo calore.
Il buio non è il male perché contiene il violetto e il cobalto
almeno ciò che i vecchi libri chiamavano scienza o a cui si inchinavano.
Il buio è vicino al dubbio e dunque vicino al sole
ma forse una profondità più lucente ancora della chiarità e che è vera.
L’oscurità porta una luce tuttora impunita dalla chiarità
ma le cose percepite esistono in ombra, riflettiamo.
Dentro tutta la vita vista e sentita e anche tutte le parti atomiche
l’ampia dimostrazione del sole dentro tutta la vita
l’atto del tornare a casa delle oche e dei topi boschivi
più lontano, e oltre, la migrazione delle cose.
Affaticarsi e riflettere e tornare a casa e dipingere
corrispondere, essere in equanimità con le cose organiche
come nel mezzo del fiore io chiamo il tuo nome.
Nulla di più fedele ai buoni sentimenti che vibrano dentro
forse non c’è nulla di più grande al mondo
essere in qualche modo connessi tramite ciò che si fa nel mondo.
Oh essere utili, d’utilità, alla reale cosa vista.
Il sole va più a fondo del pensiero
le foglie brillano così nel corpo come nella testa
ciò che i nostri padri chiamavano il bene, quale migliore celebrazione.
Ciò che gli antichi chiamano pace, nessun esempio migliore
la luce spezzata rifratta attraverso le foglie.
Che il sole possa fare questo ad ogni cosa dentro
che il sole ci possa fare questo, a ciascuno di noi
ora che il raggio bianco nell’albero distante getta luce.
Né è utile ora interrogare il colore
non immaginare che le risposte siano la sola destinazione
non essere ingenui trovare solo risposte sciocche.
Di occhi e sorrisi, di occhi e affetto
guariscimi e fammi avere il dono della risata.
O se davvero riesci a sentire ciò che potrei dire
oh, santo cielo, se lo sei davvero
la vigna densa di foglie che si avvolge e soffoca l’albero
questa spirale discendente di colpi bassi e di visione.
O perché io io sono in questo giardino botanico vuoto
a dire, chi e come sono reso migliore dalla lotta
annidati nella nostra porzione sotto la migrazione dell’uccello
che troviamo riposo alla fine della macchia d’alberi.
È questo che volevi dire, Vincent?
*
Peter Gizzi, “Vincent, Homesick for the Land of Pictures”, in The Outernationale, Wesleyan University Press, Middletown (Connecticut), 2007, p. 47 – 53.
Molto notevole. Mi pare che una delle parecchie chiavi di lettura stia in quella parola, più volte presente, “connessi”, che dà come l’idea di un mondo intero e non separabile in compartimenti stagni, al quale egli sente di appartenere e al quale ci invita a appartenere.
(Quel “io” ripetuto al quinto verso è voluto? E l'”e” ripetuto al decimo?)
il primo è giusto così. il secondo è un refuso che ho corretto, grazie mille!
Bellissimo.
I versi sono la contemplazione puro dell’universo. Grande pace che viene nel cuore a seguire i colori della notte e del sole. La violetta è il fiore dell’oscurità, un pensiero meditativo, comme maturito alla pena.
Si pensa alla guarigione nel confronto della natura ( sono incerta dell’interpretazione), respiro questi versi come un vento di libertà, vista della vigna, come ricordo dell’esultanza.
Grazie a Andrea per la traduzione di un poeta che io credo ho letto una volta su NI
versi abbaglianti
grazie
,\\’
bellissima, grazie anche da me.
Prima di tutto è un testo bellissimo e quindi grazie Andrea per la proposta e la traduzione. Alcune note confuse: intanto una cosa notevole mi sembra il modo in cuiil poeta porta avanti il suo dialogo immaginario con l’opera pittorica di Van Gogh. Non solo sperimenta la luce della pittura che esce dal quadro o ci tira dentro il paesaggio – in un sogno, un desiderio di unità con le tutte le cose viste, un bisogno sensoriale di essere nel mondo – ma lo fa riproducendo nella poesia quello che è il tratto di Vicent: denso circolare, premuto sulla tela. Avete presente i vortici di Van Gogh, i soli, gli azzurri del cielo, dipinti con tale forza e foga che ci attraggono verso un centro e nel far questo annullano ogni ragione, ci denudano fino all’animale? Ecco questa poesia, almeno per me, lo rende benissimo. Entra da un paesaggio naturale (gli alberi, del giardino botanico) nel gesto umano della pittura e tutto questo spinto dalla medesima luce, dal sole più forte del pensiero, simbolo del bene, della ricerca e anche del dubbio nella sua assenza, punto fisso del ritorno. La luce nei quadri di Van Gogh c’è anche quando non sembra: penso ad un quadro apparentemente distante da questa poesia, come I mangiatori di patate, un quadro “povero”, buio e molto piccolo, che pure ci abbaglia con quella lampadina tremula sui volti ritratti. E non penso sia un caso postare ora questo testo, alla fine dell’anno, nella festa della luce. Natale è principalmente questo: il primo momento dopo il solstizio in cui è percepibile l’allungarsi del giorno, un cerchio che si chiude per ricominciare, un’attesa del bene quando la luce si ricompone, ma per far questo deve sempre rifrangersi nelle foglie e negli alberi, sparire tendere al viola (penso ad un altro poeta, Montale, “tendono alla chiarità le cose oscure”), all’interno, all’esperienza del tutto privata di certi scambi silenziosi, come qui tra una pagina ed una tela, creando un paesaggio mentale dove essere riconosciuti.