Jenide Russo

Opera d’arte diffusa nata dall’iniziativa dell’artista tedesco Gunter Demnig.
[Foto di Alice Ghinzani]
di Alice Ghinzani [14 anni]
Racconto selezionato nell’ambito del concorso STAFFETTA PARTIGIANA, promosso da Nazione Indiana per celebrare l’ottantesimo anniversario della Liberazione dal nazifascismo. Menzione speciale per giovane fantasia e vivida immaginazione trans generazionale.
Odio la pioggia. Soprattutto oggi. Dio, o chiunque ci sia là sopra, non poteva scatenare la propria ira sul mondo un altro giorno? Di sicuro oggi è proprio il giorno sbagliato. Milano sotto la pioggia è uno spettacolo grigio e scuro, anche più di quello che vedono i passanti guardandomi. Direi che ho proprio sbagliato a dimenticarmi la giacca. I balconi non sono più di moda? Non ce n’è neanche uno sotto cui mi possa rifugiare per bagnarmi un pochino di meno, anche se ormai è un po’ troppo tardi per pensare a questo. No, un secondo, aspetta, è una tettoia quella? Mi sembra una luce in mezzo alla tempesta, seriamente. Mi appiattisco contro il muro di questo fantastico portone e tiro un sospiro di sollievo. Fortunatamente qualche bravo architetto esiste ancora. Ora devo solo capire dove sono. Mi sporgo un po’ sotto la pioggia, che ormai non sento quasi più, un po’ per abitudine, e controllo l’indirizzo. Via Paisiello 6. Perfetto. Scrivo a mia madre dove mi trovo, magari mi viene a prendere mentre torna dal lavoro. Aspettiamo. Nel frattempo noto qualcosa, lì sul marciapiede. Sembra che qualcuno abbia appena rovesciato un portafoglio intero per terra. Mi avvicino. Ah, sì, ce ne avevano parlato a scuola, in una di quelle inutili lezioni di storia a cui stanno attenti solo i muri ingrigiti e scrostati. Sono tipo delle pietre che sembrano fatte tutte d’oro, anche se mi pare abbastanza improbabile che sia vero. Sopra ci sono scritte cose sulle persone che venivano rapite durante la Seconda Guerra Mondiale, o qualcosa del genere. Questa è di una che si chiama tipo “Ienide” … no, no, “Jenide… Russo”, credo. Ma sì, una delle tante. Me la dimenticherò tra due secondi. Uno… due… ecco, dimenticata. Oh… ma ecco finalmente mia madre. Per fortuna, sono 20 minuti che aspetto. Ma non importa, mi ha praticamente salvato la vita. Appena entro, vengo subito pervasa dall’odore di macchina riscaldata, pasta frolla e biscotti caldi della pasticceria dove lavora mia madre. I miei preferiti. Ah, quanto la adoro. Mi rimpinzo di biscotti e pasticcini caldi prima ancora di riuscire a legarmi la cintura, e nel frattempo raccolgo spezzoni del discorso che mi sta facendo mentre sfreccia tra le strade affollate della città grigia. «Domani… cena da Lucia… colloqui con gli insegnanti… comportamento… che coincidenza… la nonna… Jenide… la pasta è in frigo… tuo fratello…» Mi blocco. Quel nome. Mi ricorda qualcosa. “Jenide” … non l’aveva appena letto sul marciapiede, su quella pietra? «Aspetta, aspetta, mamma, cos’hai detto?» «Ascoltami quando ti parlo! Tuo fratello cena da Leo stasera e io e papà abbiamo una riunione a testa per i vostri consigli di classe in presenza, quindi ti ho lasciato la pasta in frigo e se hai bisogno di qualcosa chiedi a Mariella» Odio cenare da sola o uscire fuori al freddo solo per chiedere alla vicina se mi accende quegli stupidi fornelli che non funzionano, ma non è questo che mi interessa. «No no, non quello… quella cosa sulla nonna… quella lì che si chiamava (mmh… boh, Iende?), mhh, tipo, … vabbè, con un nome strano… le coincidenze… eccetera eccetera» la buttò lì velocemente «Jenide, certo! Era una cara amica di tua nonna, quando abitavano qui vicino, durante la Seconda Guerra Mondiale… non l’avete ancora fatto a scuola?» «Mmhf? Eh, shi, shi, sherto, la shuola…» Rispondo con la bocca piena di pastafrolla e un’aria il più innocente possibile. «Se proprio vuoi sapere qualcosa te lo racconterà la nonna, prima di uscire, questa storia la conosce di sicuro meglio di me. Ora scendi, forza, devo parcheggiare» mi dice mia madre mentre deglutisco. Ah, sì, è vero, stasera i nonni escono con i loro vecchi colleghi del lavoro. Fortuna che non ho compiti per domani, così appena arrivo mi posso fiondare in camera sua con una tazza di tè e biscotti della pasticceria. «Ok, ci vediamo di sopra» «A dopo!» Mentre entro in casa, Chas mi sfreccia davanti con in mano una delle sue nuove bambole mentre gioca con Jess, la nostra golden retriever. «Stai attento, piccoletto!» Gli urlo dietro mentre corre via. Beh, non credo ci sia bisogno di presentare mio fratello, si è già intromesso da solo nella storia. Chas, diminutivo di Chausiku (è un nome che viene dal Kenya, come i nonni e la mamma), che vuol dire “nato di notte” (è veramente nato alle 3 di notte, e per me rompiscatole era e rompiscatole rimane): 7 anni, ribelle, pestifero, capriccioso, … serve altro? Bene, passiamo a cose più importanti. Riempio una tazza di acqua e la infilo in microonde. Raccolgo gli ultimi biscotti dalla scatola della pasticceria, prendo un piatto dalla credenza, schivo Chas che continua a correre per casa e, cercando di tenere tutto in equilibrio mentre immergo il tè nell’acqua calda della tazza, mi intrufolo in camera della nonna, prima che mio fratello torni in cucina e mi faccia cadere tutto. La nonna è lì, seduta sulla sedia a dondolo sotto la finestra e sta leggendo. «Ciao, nonna, come va? Ti ho portato la merenda» La nonna alzò lo sguardo verso di me. «Ciao, tesoro, ma grazie. Cos’è questo impeto di generosità oggi?» La guardo, con finta indignazione. «Ehi, ma perché tutta questa diffidenza? Una povera nipotina non può portare una merenda di conforto per la sua nonna vecchia e stanca?» «Attenta a non incontrare il lupo, allora, Calzine Rosse!» dice, indicando le mie calze di Natale un po’ fuori stagione. Ci mettiamo a ridere tutte e due, perché sappiamo entrambe che non sono di certo una di quelle persone che dispensa favori a destra e a manca. «Scherzi poco, tu! Uff, sto cominciando veramente a invecchiare!» Mi rimisi a ridere. Se la nonna sta invecchiando, allora io sono una giraffa dal collo blu. Ogni mattina si fa almeno 3 km di corsa in giro per il quartiere, portandosi dietro Jess, e il pomeriggio va a prendere Chas in bici, dall’altra parte della città, e se lo riporta fino a casa sul portapacchi per tutto il tragitto. Ride anche lei, perché come me sa che non è vero.
«Ehi, nonna, ma tu conoscevi una certa Jenide Russo?» azzardo a un certo punto. La faccia della nonna si fa subito scura. «Dove hai sentito questo nome?» mi chiede. «Su una di quelle… ehm… pietre, credo… per strada» le rispondo, cercando di non mostrare che non sono preparatissima sull’argomento. Si riappacifica di colpo, sorridendo, e riacquistando i suoi occhi dolci e il suo sguardo sereno «Certo, scusami. Se vuoi posso raccontarti questa storia, ma un’altra volta, ora devo proprio uscire. Però» dice, ingurgitando l’ultimo pezzo di biscotto col tè e chinandosi sotto il letto «Posso darti questa scatola. Ho conservato tutte le sue lettere, leggile pure con calma» sorride angelica. Dal modo in cui me la porge delicatamente capisco che per lei è una delle cose più importanti che possieda. La guardo fisso negli occhi. «Grazie mille, nonna» le sorrido, sapendo lo sforzo che fa cedendomela. «La tratterò come se fosse mia» Quando esco dallastanza, Chas si sta già mettendo le scarpe per andare dal suo amico a mangiare, papà è sulla soglia per accompagnarlo e mamma si sta mettendo il cappotto. Li saluto dalla porta, e, quando escono tutti, compresi i nonni, mi acciambello sul divano del salotto con Jess a scaldarmi i piedi e raccolgo la scatola dal tavolo come se contenesse calici di cristallo. Quando la apro, l’odore della nonna e della carta invecchiata mi assale, riempiendo la stanza. C’è anche un altro odore, quello di una donna, giovane, che profuma di vaniglia e libertà. La prima cosa che trovo è la foto di due ragazze, una di fianco all’altra, che sorridono abbracciate. La prima la riconosco subito, con gli occhi socchiusi e la pelle scura: è la nonna. La seconda, invece, non la conosco affatto. È molto bella, però, con la carnagione chiara e i capelli corvini raccolti ordinatamente sulla nuca. Sul retro trovo una piccola frase, scritta a mano, sottile e svolazzante. Sira e Jenide, 27 giugno 1937. Sapevo che la nonna era stata una staffetta partigiana, ma dalla foto che ritrae lei e Jenide sembrano quasi sorelle, amiche da una vita e per una vita. L’appoggio sulle ginocchia, per poter tornare a osservarla in qualunque momento. Raccolgo la prima lettera della pila. Alcune frasi sono cancellate e barrate, ma non con rabbia o foga, no, pulite e senza sbavature, anche se non si riesce lo stesso a leggere cosa c’è scritto sotto.
30 aprile 1944 1
Carissima mamma,
non so se hai già ricevuto la mia lettera; ad ogni modo immagino che ora saprai dove mi trovo. Non pensare che io stia male. Niente affatto! Siamo qui con tutti i nostri fratelli che erano con noi a San Vittore. Si sta tutto il giorno con loro. Ci possiamo quasi considerare in villeggiatura. Ci sono con me le stesse donne che avevo come compagne a Milano. Io sono la capo baracca e non so se riesci a immaginare tua figlia che comanda.
Sto diventando nera per il sole, mamma!
Voi mi potete scrivere anche tutti i giorni.
Per ora niente visite, ma credo che fra qualche tempo potrete venire a trovarmi.
Le mie sorelle come stanno?
E Sergino come va con la scuola?
Fammi sapere tutte le novità della via Paisiello.
Ma quello che mi preme sapere è come stai tu e le mie sorelle.
Fammi sapere anche qualche cosa dei miei cognati.
Salutami tutte le vicine, la famiglia Patrizi; insomma tutti quelli che ti domandano di me.
Bacioni a te mamma e a tutti.
Jenide
Sembra una lettera abbastanza normale. Se non sapessi di chi si tratta, direi quasi che è stata mandata da una ragazzina, magari di recente, in vacanza in un campo estivo con destinazione incerta, che scrive alla madre solo per rassicurarla che non è caduta sotto un ponte e che il telefono non prende. Ma quelle cancellature, tutte quelle linee, pulite e ordinate, nascondono probabilmente molto altro, altro che viene offuscato per non far trapelare nulla, come coprire lo sporco sotto vernice colorata, la polvere sotto il tappeto, la crudeltà sotto tratti di penna. La lettera successiva è divisa in due parti: una dove racconta quasi solo della felicità della visita ricevuta da parte della madre e la seconda, più interessante, dove descrive il suo arresto. Mi concentro soprattutto sulla seconda.
11 maggio 1944 2
(…)
E ora ti racconto come sono stata arrestata.
Sono partita alle 8.30 di casa, ti ricordi?
Sono andata a prendere delle cose poi sono andata a portarle a destinazione.
Intanto che do la roba, mi sono sentita dietro otto persone con le rivoltelle spianate; mi hanno perquisita.
Poi mi hanno portato in macchina fino a Monza e lì mi hanno interrogata.
Siccome non volevo parlare con le buone, allora hanno cominciato con nerbate e schiaffi (non spaventarti).
Mi hanno rotto una mascella (ora è di nuovo a posto).
Il mio corpo era pieno di lividi per le bastonate; però non hanno avuto la soddisfazione di vedermi gridare, piangere e tanto meno parlare.
Quello che più mi preoccupava era che volevano venire a casa a perquisire.
Sono stata per cinque giorni a Monza in isolamento in una cella, quasi senza mangiare e con un freddo da cani.
Venivo disturbata tutti i giorni perché volevano che io parlassi ma io ero più dura di loro e non parlavo (nel pacco avevo dinamite).
Poi mi hanno portato a San Vittore.
Non spaventarti per quello che sto per dirti: ero destinata alla fucilazione, ma invece tutto è andato per il meglio e il più è passato.
Ora sto benissimo e sono in buona compagnia.
Scusatemi se ora vi rattristo con questo mio racconto, ma volevo dirvi quello che mi era successo.
A San Vittore stavo bene, non mi mancava niente e qui sto ancora meglio.
Dì pure che ho mantenuto la parola di non parlare; credo che saranno tutti contenti di me.
Ora che la mamma mi ha visto credo che sarà soddisfatta, vero?
Dì ad Aldina di scrivermi sempre e di darmi qualche notizia in merito a Renato.
Ti prego di salutarmi tutti e, quando hai letto questa mia, ti raccomando di stracciarla o di metterla al sicuro.
Tanti bacioni grossi grossi
Jenide
Wow. Che coraggio. Io non ce l’avrei mai fatta. Fare la staffetta, in giro, con la paura continua, le armi, le bombe che potevano esplodere da un momento all’altro, i soldati, gli amici in pericolo, la famiglia… credo di dovermi ricredere. Impossibile che me la dimentichi, ormai. Raccolgo un’altra lettera, questa invece è per un certo Renato, forse il fidanzato o un qualche fratello o parente.
21 giugno 1944 3
“Carissimo Renato,
sono passati parecchi giorni, ma ancora non ho ricevuto tue nuove, come mai?
Non credo che tu mi abbia dimenticato.
E siccome non so quando potrò rivederti ti prego di scrivermi una lettera, perché così partendo per ignota destinazione avrò un tuo ricordo.
Renato, ieri sono partiti più di mille uomini per la Germania e noi siamo qui in attesa.
E’ per noi un’agonia non saper niente.
Ogni giorno ci sono adunate.
Devi sapere che abbiamo i nervi tesi e che si sta male solo al pensiero di lasciare la nostra cara Italia.
(…)
Ricordo i giorni lieti passati con te e anche però le belle sgridate che mi facevi.
Qui i tuoi compagni mi dicono che sono un buon elemento e questo per me significa molto.
Tu mi dicevi che non bisogna mai dire niente alle donne; ma dovevi sapere a che donna parlavi.
Tu certo non lo sapevi.
Ad ogni modo quando verrò a casa ne riparleremo.
Ti mando tanti, tanti grossi bacioni, in attesa di ricevere tue notizie.
Salutami i tuoi fratelli. un bacio ad Aldina, uno a Luciano e uno grosso a te.
Tua Jenide
Sì, a quanto pare è il fidanzato, anche se non m’ispira molta simpatia. Nel Novecento nel mondo di maschilismo ce n’era a vagonate, ma Jenide continua ad avere sempre un po’ di stima in più da parte mia, soprattutto in questa lettera, dove alla fine fa capire a questo Renato che non se la caverà tanto facilmente, e che le donne sono molto più forti di un qualunque piccolo uomo. A quanto dice questo documento che ho trovato nella scatola, Jenide faceva parte delle Brigate Garibaldi di Milano, dei gruppi antifascisti che operavano clandestinamente qui. Mi sento leggermente insignificante ora. Non so come facevano, ma erano tutti coraggiosi, facevano tutti qualcosa, si rendevano utili, in ogni modo, e alla fine, con i loro desideri di libertà, l’amicizia, l’amore, la fratellanza, alla fine ce l’hanno fatta. Tutti insieme. E io? Io ho passato tutto il tempo a criticarli, a dirmi che in fondo io non c’entravo, non avevo fatto niente, non erano affari miei, erano tutte vecchie storie polverose, che non interessavano a nessuno. Mi vergogno anche solo a pensarci. Continuo a leggere, ormai mi sta appassionando questa piccola, ma neanche tanto piccola, storia.
Fossoli, 2.6.44 4
Carissimi, ho ricevuto ora la vostra lettera in cui mi dite che siete in pensiero per me perché non scrivo.
Questa volta vi debbo sgridare!
Dovete sapere che non sempre posso scrivervi.
Quando capita mando a casa qualche mio scritto; dovreste avere ricevuto questa settimana due lettere.
Dal campo posso mandarvi due lettere al mese: le due le ho già spedite.
Sto benissimo di salute. Qui tutti mi vogliono bene e perciò vi chiedo caldamente di non stare in pensiero.
Sento che la mia amica Maria mi vorrebbe mandare un pacco.
Lo gradisco proprio volentieri.
Se tutti i miei conoscenti, come dite, mi dovessero mandare qualche pacco non andrebbe neanche male, perché qui viene una fame da leoni, con quest’aria buona.
Sono felice che Renato è venuto a casa e ditegli a nome mio di curarsi e di andare a fare un po’ di convalescenza, se è possibile.
Sorrido, guardando malinconica la lettera. Sembrava molto simpatica questa Jenide. Chissà che fine ha fatto. Anche se mi faccio questa domanda, dentro di me so che non c’è più. L’ho visto negli occhi della nonna, quando le nubi burrascose dei suoi ricordi hanno offuscato, anche solo per un momento, la perenne giornata estiva del suo viso. Mi rannicchio ancora di più sul divano. Leggere queste lettere mi fa diventare triste e nostalgica, quasi la conoscessi, questa Jenide, quasi l’avessi conosciuta. Avrei tanta voglia di qualcuno, qualcuno qui, vicino a me, che mi stringe e mi rassicura. Poi ci ripenso. No. Non voglio nessuno. In tutto il mondo, anche ora, anche ieri e anche domani ci sono almeno quattro o cinque milioni di persone sulla terra che ne hanno bisogno molto più di me, di qualcuno che le rassicuri. Sono fortunata, e neanche ci penso. Neanche ringrazio, neanche ci ragiono, neanche me lo immagino. Dentro di me una decisione l’ho presa. Per chiunque avrà bisogno di aiuto, chiunque, nessuno escluso, io ci sarò sempre. Quando riprendo a leggere sono pervasa da una determinazione nuova, mi sento più leggera, più libera. Leggo diverse lettere, tutte d’un fiato, senza fermarmi. Non ce n’è nessuna per la nonna, ma in fondo ho capito perché. Era una partigiana, era un’amica, era una sorella che lottava con gli altri, con tutti gli altri, non poteva e non voleva né avrebbe mai voluto rischiare di condannarla menzionando il suo nome. A un certo punto arrivo all’ultima, la più “recente”, l’ultima che Jenide è riuscita a inviare, quella dove la sua anima speranzosa, piena di gioia e libertà, senza capire la vera realtà delle cose e di ciò che successe, è racchiusa in poche righe.
Fossoli, 1.8.44 5
Carissima mammina,
mancano poche ore alla partenza.
Io parto per la Germania come già ti ho riferito nelle lettere che riceverai.
E ora siamo agli sgoccioli.Non preoccuparti: vedrai che non mi succederà niente di grave.
Non pensarci; state allegri e speriamo che tutto finisca presto, per poter ritornare presto da voi.
Io vi ricorderò sempre, ovunque andrò, con la tua benedizione, cara mamma.
Vedrai che ritornerò.
Ricordami sempre e prega sempre per me.
Appena mi sarà possibile ti scriverò e ti farò sapere mie notizie.
Ti raccomando di non piangere e di non disperarti.
Senti, mamma, non sgridarmi e non farti una cattiva opinione di me.
Guarda che ho fatto un errorino.
Ero a casa e non avevo soldi e siccome ne avevo bisogno ho impegnato la mia borsina rosa e un lenzuolo.
Le polizze sono nel secondo cassetto nel pacco di lettere di Franco.
Non volevo dirtelo, ma siccome parto, mi spiacerebbe perdere questi oggetti.
Se non dovessi ritornare ne potranno godere le mie sorelle.
Vi abbraccio forte forte e vi bacio tanto tanto.
Scusatemi di tutto.
Salutatemi tanto e baciatemi Renato e ditegli che gli vorrò sempre tanto bene.
Questo è tutto ciò che Jenide lasciò al mondo. Tutta la sua testimonianza. “Le sue ultime parole”. Già dalle prime righe, si vede che cerca solo di rassicurare la madre, non vuole che nessuno si preoccupi per lei, ma ha già capito che è abbastanza improbabile che possa tornare, e che, come tutti gli altri, cadrà nell’oblio, nel dimenticatoio, nella confusione di tutti quegli altri nomi, tutti quegli altri corpi, tutte quelle altre anime combattute e combattenti per noi, per me, per ciò che siamo oggi. Tutti questi pensieri mi offuscano la testa, riempiono la stanza e piano piano mi addormentano, senza neanche aver cenato.
Il forno suona. E suona. E suona. È da un po’ che continua a suonare. Perché papà non lo spegne, così possiamo mangiare la sua fantastica torta alla panna? Perché? Perché? Mi sveglio di soprassalto. Non era il forno, ma il citofono, che probabilmente suona da un po’. Ci credo che ho sognato la paradisiaca torta alla panna di papà, sto morendo di fame. Speriamo che nessuno mi abbia dato per dispersa. Controllo la videocamera. È la madre di Leo, l’amico di Chas, che è venuta a riportarcelo dopo cena. «Ciao, scusatemi, non avevo sentito, entrate pure!» parlo al microfono cercando di soffocare uno sbadiglio colossale. «Oh, grazie mille, ma io non salgo. Tu sei la sorella di Chausiku, vero? Lo posso far salire da solo?» si preoccupa la madre di Leo. «Certo, certo, la strada la sa, grazie mille e scusate ancora!» «Figurati, non preoccuparti! Buona serata! Cccrrrz clic» mi risponde il citofono. Apro la porta e aspetto Chas sulle scale. Quando arriva ha il fiato corto e mi si accascia addosso. «Ehi, piccoletto, com’è andata?» gli chiedo mentre si toglie le scarpe. «Bene… anf… tutto bene. Dopo… anf… cena la sorellina di Leo… uff… ha fatto dei trucchi di magia super divertenti, ma io li ho capiti subito perché erano facilissimi… anf…» mi dice mentre si riprende dalla salita, o forse dovrei dire corsa, che ha appena fatto sulle scale. «Wow, bello! Ora mettiti il pigiama e lavati i denti mentre io mangio, che non ho ancora cenato, e poi aspettiamo mamma e papà» «Ok!» dice lui con un sorrisino furbetto, mentre va a prendere il suo pigiama sul letto. Scaldo velocemente la pasta [in] nel microonde e la mangio sul tavolo della cucina, mentre Chas si lava i denti e mi racconta tuuuutta la sua serata per filo e per segno sputacchiandomi dentifricio sulla felpa. Quando si è lavato, vestito e ancora un po’ agitato – solita routine, in pratica – riesco a infilarlo a forza sotto le coperte. «Se fai il bravo senza capricci, ti racconto una storia!» gli prometto, sperando di calmarlo. Lui si fa subito buono buono, e io mi accoccolo di fianco a lui, nel suo letto, mentre scelgo la storia da raccontargli. A un certo punto ho un’idea. Gli racconterò la mia storia. O la sua storia. O la tua storia. Puoi chiamarla come vuoi, è sempre la stessa. La storia dell’umanità, della non umanità, degli oggetti, dei ricordi, delle memorie, dell’ignoranza, della saggezza, della libertà, del coraggio. La nostra storia.
«C’era una volta, c’è e sempre ci sarà, una ragazza che non sapeva niente. Una ragazza a cui non importava niente. Una ragazza che un giorno capì che tutto è importante, e che anche le minime cose, se fatte per aiutare qualcuno, diventano più grandi di tutte le più grandi cose del mondo messe insieme»
ALICE GHINZANI Sono nata nel 2010 e frequento il primo anno del Liceo Artistico di Brera a Milano. Suono il flauto traverso da quattro anni e la musica è una parte importante della mia vita. Una delle mie più grandi passioni è la lettura, che mi permette di viaggiare con la mente. Mi piace conoscere nuovi luoghi e in futuro vorrei girare il mondo.
Un buon inizio. Complimenti ad Alice e a voi per l’iniziativa.