Dona katta venia

Concerti, libro 1 No. 2, Eructavit cor meum a 6
CONCERTO PALATINO Bruce Dickey
Ex tenebris ad lucem Venezia, musica in tempo di peste
di Greta Bienati
In Venezia la peste era entrata più di un anno prima, il venticinque di giugno del millecinquecento e settantacinque, con tanto di nome e cognome. A portarcela, era stato tale Matteo Farcinatore, venuto giù dalla Valsugana colla moglie Lucia Cadorina e i due figli, per andare a trovare Vincenzo Franceschi, che aveva casa in campo san Marziale.
Il morbo doveva essere corso alla fiera di san Giovanni, su a Trento, e adesso arrivava in città, con l’aria di un dispetto maligno, quasi una vendetta, dopo tutte le rapine che la Serenissima aveva fatto ai montanari. Da secoli, le teste e le braccia migliori lasciavano le valli, per correre in laguna, nella città ricoperta d’oro. Ma, soprattutto, dal Cadore venivano le migliaia e migliaia di abeti, una foresta intera, che le teste malate dei veneziani avevano messo sott’acqua per tener su le loro case. Perché solo una testa malata poteva aver avuto l’idea di mettere a gambe in aria l’ordine fatto da Nostro Signore, mettendo i boschi sotto il mare.
Nascosti sotto i canali, gli abeti si ostinavano a colorar di verde l’acqua, per far vedere che loro, a tanta umana follia, proprio non riuscivano a rassegnarsi. E chissà come gongolavano adesso, al pensiero che, proprio dal loro Cadore, veniva la tale Lucia con indosso la peste, che rischiava di spazzar via tutto quello che era appoggiato sopra le loro teste.
Dalla fiera di Trento, Matteo Farcinatore si era portato dietro anche un valigiotto di drappi, che pensò bene di vendere appena cadde malato, per pagar le cure del dottore. Cure o non cure, morì il due di luglio e lo seppellirono come fosse un morto uguale a tutti gli altri.
Invece, in capo a tre giorni, nella medesima casa ecco che muoiono anche tre donne. E diventa chiaro che di peste si tratta.
La voce corse d’un momento e subito vennero gli ufficiali di sanità a inchiodare con due assi in croce la porta della casa in campo san Marziale. Ma fu come chiudere il recinto a buoi già scappati: i drappi della fiera erano già corsi per mezza città, e in mezza città si erano portati con sé il morbo, tanto veloci da non riuscire a star loro dietro.
A completare il danno, vennero da Padova due gran dottori, il Mercuriale e il Capodivacca. Esaminarono di fino i malati, e dissero che no, quella non era peste, garantito sul loro nome. Poi tornarono di corsa a Padova a fare i luminari, lasciando Venezia in balia del contagio.
Anche senza il benestare dei cattedratici padovani, i signori si misero svelti a riempire i bauli, per spostarsi nelle ville in terraferma. Ma tornarono a disfarli da capo appena arrivò la notizia che le strade erano tutte bloccate dai villici, pronti a tener lontana la peste serenissima a colpi di roncole e falcioni.
Più rapida di un brigantino, la notizia dell’epidemia volò per la pianura del Po e per l’Italia intera. E tutti, di concerto, chiusero i commerci con Venezia e vietarono l’ingresso ai suoi viaggiatori.
Serrata tra i suoi canali, isolata dalla sua laguna, la città d’oro diventò tutt’a un tratto un borgo di fantasmi. Chiuse le botteghe, vuote le piazze, deserte le vie. Tutti prigionieri in casa, impediti a uscire dalle porte inchiodate dagli ufficiali di sanità oppure, più semplicemente, dal terrore. Per strada, solo qualche raro medico, con il cuore di leone e la faccia nascosta dalla maschera da corvo, affidato anima e corpo alla spugna imbevuta di aceto e succhi di erbe infilata nel becco. Nessun sacerdote, perché la peste è più forte della fede, e nemmeno cani e gatti, sterminati perché non sterminassero gli uomini.
Tra le botteghe chiuse nelle strade ammutolite, c’è anche quella di un pittore, venuto giù anche lui dal Cadore, come gli abeti e la peste. È ai Biri, in parrocchia di san Ganciano, in una bella casa, che, al tempo in cui il pittore l’ha affittata, era quasi nuova. S’è spostato qui dopo che gli è morta la moglie di parto, mettendo al mondo una bambina, la Lavinia, che crescendo è diventata il ritratto della madre, dipinto meglio di quel che avrebbe fatto lui.
La povera Cecilia era figlia di un barbiere di Perarolo, venuta giù anche lei dalle montagne, coi capelli color del grano e la pelle di burro, e la Lavinia era la terza figlia, dopo l’Orazio e il Pomponio, nati prima che il pittore si convincesse a sposare la sua amante e a trattarla come una moglie. Morta la Cecilia, nella casa in calle di Ca’ Lipoli il pittore non riusciva più a starci, figurasi a pitturare: a ogni momento gli pareva di vedersela davanti, con la faccia di pietra, senza espressione e con la bocca serrata, come quando l’avevano portata via con la gondola nera.
Nella bottega ai Biri, invece, ha ricominciato a lavorare coi pennelli. Prima gli dava una mano il fratello, poi l’Orazio ha fatto vedere di aver preso anche lui un po’ di talento dal seme del padre. Magari non proprio lo stesso, per la verità. Perché lui, il pittore, quando ancora era un bambino, senza aver mai studiato disegno né pittura, aveva dipinto sul muro di casa una Madonna, usando per colorarla il succo spremuto di erbe e fiori. E tale fu la meraviglia che suscitò in famiglia che lo spedirono di filato giù a Venezia perché imparasse il mestiere.
La bottega dei Biri è sempre stata piena di allievi, perché il lavoro era tanto e le commissioni ben pagate. Soprattutto da quando l’altra peste si era menata via il Zorzone, lasciando al dipintore venuto giù dalle montagne il posto di pittore ufficiale della Serenissima. Quella volta, il cadorino aveva fatto in tempo a scappare in campagna e, quando aveva saputo che era morto il suo maestro, gli erano venuti in mente tutti gli accidenti che gli aveva tirato quando avevano litigato per via delle pitture del Fondaco dei Todeschi, e avevano rotto malamente.
Sessanta e più anni sono passati da quella visita del morbo, e adesso il pittore ne ha più di cento. E stavolta è chiaro che la peste non gli porterà buono. Quando hai un secolo, però, la morte non è cosa che ti coglie impreparato. E infatti ormai è qualche tempo che lavora al suo ultimo quadro, che vuole farsi mettere sulla tomba. Tomba che dovrebbe essere ai Frari, nella basilica per cui il pittore ha già dipinto due Madonne, una più bella dell’altra. Ma ancora non è detto, perché tra lui e l’eterno riposo ci sono le teste dure dei frati e le norme di sanità, che dicono che i morti vanno tutti nelle fosse comuni, pittori o non pittori.
Per la sua tomba, il cadorino ha scelto di dipingere una Pietà, con la Madonna che tiene in braccio il Cristo morto. Ci lavora da più di un anno, ma oggi ha chiaro che non riuscirà a finirla.
Perché oggi, ventisette di agosto dell’Anno del Signore millecinquecento e settantasei, sulla porta della bottega ai Biri, ormai deserta, si è presentata la Morte in persona, con tanto di mantello nero e maschera col becco.
– Dammi il tempo di finire il quadro, – ha supplicato il pittore.
Ma lei ha fatto segno di no con la testa, ché non è tipo da farsi fregare tanto facilmente.
– L’ultima pennellata, – prova ancora il pittore.
La Morte guarda il quadro. La Madonna è la Cecilia, con la faccia di pietra di quando è morta di parto. Vicino a lei, la Lavinia ha i panni della Maddalena che chiama gente. Ha il braccio alzato e, dalla bocca aperta, le escono tutti insieme i pianti e i lamenti, le strida e gli spaventevoli ululati che riempiono le strade di Venezia al posto delle voci e dei canti di ieri.
Tra le braccia di sua madre c’è l’Orazio, verde e pieno di piaghe. Uguale a quando i monatti l’hanno menato al lazzaretto, senza neanche guardare la borsa di monete d’oro che il padre ha teso perché lo lasciassero lì con lui, che almeno davano a un vecchio la consolazione di non crepare da solo.
Al vecchio inginocchiato davanti al Cristo morto, il dipintore cadorino ha messo la propria faccia. Si è vestito di stracci, senza neanche lo zucchetto di tutti i suoi autoritratti, ché il Signore lo sa bene com’è fatto il suo cranio e a Lui non si nasconde niente, figurarsi la calvizie.
Il Pomponio non c’è. Tanto quelli come lui scampano sempre. E, con la testa che ha, sicuro si mangerà fuori in un momento tutto quello che il padre ha guadagnato in una lunga vita di lavoro.
Nello sfondo scuro, la luce lugubre di un agosto che sembra novembre, con le ombre agitate dai lumini del camposanto, e le statue che guardano dall’altra parte. Una mano di dannato si aggrappa alla Sibilla, ma neanche quella serve a farla voltare.
Non vuol farlo vedere, la Morte, ma è impressionata anche lei. E anche lusingata, perché il pittore ha dipinto tutta la vita papi e imperatori, e adesso l’ultimo ritratto è tutto per lei, e forse nessuno l’ha mai dipinta tanto bene.
– Solo una pennellata, – concede, perché anche la Morte è vanitosa.
Il pittore prende il vasetto del nero. Al pensiero di lasciare il dipinto non finito gli fa male il petto, e la cosa più difficile è decidere dove mettere l’ultimo tocco di una vita passata con in mano il pennello. Dalla finestra, entra il soffoco del cielo grigio di agosto, scurito dal fumo delle disinfezioni, odoroso di mirra e pece spagnola, di ginepro e di zolfo.
– Quell’angolo lì l’ha dipinto il tuo imbianchino? – lo scherza la Morte, e indica un ex voto, che il pittore ha messo al piede della statua della Sibilla.
Ci ha dipinto lui e l’Orazio, in ginocchio davanti alla Madonna, a impetrare pietà per una vita passata a rincorrere la fama e il denaro. E li ha dipinti davvero col pennello ingenuo di un imbianchino, perché davanti al Signore è meglio essere umili, e non farsi vedere ritrattista di papi e imperatori.
La Morte lo scherza, ma il pittore adesso sa cosa deve fare. Intinge il dito nel nero, e, sotto l’ex voto, scrive una preghiera alla Madonna. Nella testa, le lingue di una vita si impastano tutte insieme, e scrivere è una fatica uguale a spostare una montagna.
La Morte, curiosa, si avvicina per leggere meglio, e la mano del pittore perde forza. Neanche riesce a finire l’ultima parola.
– Le montagne… – mormora il moribondo, e si appoggia al braccio della Morte, indicando il giardino.
La Morte se lo scrolla di dosso, per leggere bene che cosa ha scritto.
– Dona katta venia… – si mette a sillabare come uno scolaretto.
Il pittore approfitta della sua distrazione. Zitto zitto, esce dalla porta di dietro, si trascina attraverso l’orto, sale al loggiato. Sono tre passi, ma il morbo gli fa le gambe di cera. In mezzo al giardino, un albero dalle foglie rotonde gli tende un ramo per appoggiarsi, per ringraziamento di averlo messo una volta in un quadro.
Dal canale, sale il marcio delle acque e dei morti, ammucchiati nelle barche insieme ai malati da confinare al lazzaretto. Il pittore guarda verso settentrione. Verso le sue montagne.
Per gli occhi deboli di vecchio, il mondo sono macchie di colore steso con le dita: il verde del mare, il rosa delle case, il grigio del soffoco di agosto, che ammorba l’orizzonte. E che nasconde le montagne, nella foschia pesante che sale dalla laguna.
E allora, per vedere il suo Cadore, il pittore chiude gli occhi. E chiama, nella lingua che ha succhiato insieme al latte.
Chiama così forte che, sotto le case, gli abeti lo sentono, esuli e marci come lui.
E gli abeti, risvegliati dai suoni della loro lingua, rispondono.
Prima è un profumo pulito di resina, sempre più forte, ad aprire i polmoni chiusi dall’aria impestata. Al profumo vien dietro uno stormire di fronde, e poi un cinguettare di uccelli, e un bramire di cervi in amore, come quando il larice mette le foglie nuove e verdine.
Resina e stormire, canti e bramiti, sono così forti che vanno sopra alle fumigazioni e ai pianti. Così forti che i monatti in barca si fermano per un momento, e si guardano intorno a cercare i boschi. Ma intorno c’è solo un vecchio su un loggiato.
– Qualcuno brucia erbe di strega, – brontola il monatto, e scaccia via con la mano il profumo degli abeti fantasma.
Dietro le palpebre chiuse, il pittore respira la resina e le voci che gli hanno insegnato a parlare, in quei boschi che Venezia, con tutto il suo oro, può solo tagliare per invidia e nascondere sotto il mare.
Sotto le dita, l’appiccicare ruvido di una corteccia; sulla testa un sole pulito di aprile, quello che scioglie l’ultima neve. Tra le foglie tenere del larice e le gemme color sangue degli abeti, compare una donna, coi capelli dorati e la pelle di burro.
– Cecilia! – chiama il pittore.
– Tiziano! – sorride lei, e gli prende la mano.
Nella bottega, la Morte si riscuote. Corre in giardino, sale a due a due i gradini del loggiato. Si affaccia sul canale, che quasi cade di sotto. E lo vede: sotto il pelo dell’acqua, in mezzo ai tronchi che tengono su le case, il pittore corre per mano alla sua Cecilia, come fosse in un bosco del Cadore. Nel loggiato, è rimasto solo un cadavere verde di peste, con le dita sporche di pittura nera.
– Dona katta venia nostra pecata bene pixit signatur, – recita la Morte, facendogli il segno della croce.
Madonna, abbi pietà dei nostri peccati perché ti dipinsi bene.
Grazie di questo drammatico figurato animato racconto sul brano finale di vita del Tisiàn! Quel magnifico dipinto che sta su e amo moltissimo lo finì poi Palma il giovane.
Grazie a lei per il suo gentile apprezzamento. Si tratta davvero di un quadro potente, e il fatto che Tiziano lo abbia lasciato incompiuto credo che gli aggiunga un’ulteriore forza artistica e narrativa.