La tua foto di stupido a Zante
(Questo racconto contiene testi espliciti. Se ne sconsiglia la lettura a un pubblico non adulto, e a chiunque possa sentirsi offeso da temi e parole che riguardano la sessualità.)
di Alberto Pascazio
Non sono mai riuscita a masturbarmi pensandoti. Ieri ci ho riprovato nel bagno dell’ufficio, ma non ho sentito niente: niente. Allora ho spostato lo sgabello con la carta igienica di fronte al water e ci ho messo sopra il cellulare con la tua foto, quella che ti ho fatto a Zante. Non sei venuto proprio bene, ma dà l’idea di quanto tu sia stupido, che è l’unica cosa di te che mi ha sempre davvero eccitata. Avrei potuto usare quella di LinkedIn, in cui sei bello e sei serio — a volte c’ho provato anche con quella — ma non mi fa lo stesso effetto. Quando su quella spiaggia hai provato a dimostrarmi che anche tu ne sapevi di poesia e mi hai letto Alda Merini cercandola su Google e io ti ho compatito perché non sapevi niente — e per fortuna non sai davvero niente — e allora tu sei tornato a fare le tue cose e ti sei messo a saltare sul fuoco, da una parte all’altra, come un grillo ritardato, e allora ho tirato fuori il telefono e ti ho fatto una foto, ecco, quando eri a Zante, storto e fuori fuoco: avrei potuto usare solo quella.
Che poi io non sono mai riuscita a masturbarmi pensando a qualcuno: non te, proprio nessuno. La verità è che non penso a niente, forse solo a me stessa, a quello che provo e basta. Quindi non sono proprio pensieri, perché non vanno dal cervello al cervello. Vengono dal corpo, credo, nemmeno dagli occhi: non lo so. Comunque non l’ho mai capita questa cosa che fate — che fai — di pensare mentre avete il cazzo in mano. Io quando mi tocco è proprio per non pensare. Ci litigavamo anche, ti ricordi? Tu mi dicevi che era impossibile, che mi doveva per forza essere successo di pensare a qualcuno mentre mi toccavo, magari al liceo, e io ti dicevo che no, non mi era mai successo. E tu ti arrabbiavi, dicevi che non era vero, che ero una santarellina ipocrita. E io ti giuro ancora adesso che è tutto vero, che ipocrita lo sono fino alle ossa, ma santarellina proprio no. Infatti oggi in bagno non ci sono riuscita, di nuovo, nonostante la tua foto di stupido a Zante. Ho persino messo la luminosità al massimo, ma anche se in quella foto sei davvero un minus habens, niente: niente.
Allora sono tornata alla scrivania e mi è venuto in mente di parlarne con Sandra e Sharon. Di chiedere a cosa pensino loro — ai loro tipi, forse? — quando si toccano. Buttarla lì insomma, magari più tardi, all’aperitivo, quando cominciano a lamentarsi dei colleghi e finiscono a parlare di cazzi. Ma poi ho pensato che da ubriaca avrei spifferato tutto, che avrei detto il vero motivo di quella curiosità così innocua e non potevo, insomma: non posso. Perché sei morto e non ci si masturba pensando ai morti. Però mi chiedo: da vedova, non avrò il diritto di masturbarmi pensando a mio marito? È così strano? Va bene, mi sono risposata, ma una smette di essere vedova? — Sai che non lo so? — Comunque, forse è strano dirlo: “oggi sono venuta pensando a mio marito… no, non Mauro, l’altro, quello morto”, ma allora perché non riesco neanche a farlo? Vorrei così tanto riuscirci. Stupido gigantesco tamarro di un morto tatuato: sarai tutto poltiglia adesso. Anche per questo avevamo litigato una volta: quando mi hai detto che ti eri segato guardando le foto di Anna Karina. Dicevi che era la tua nostalgia della figa passata — Dio quanto sei stupido — e io mi incazzavo di brutto, ti urlavo che è assurdo masturbarsi pensando a una morta. Forse hai ragione tu, sono solo una santarellina ipocrita.
Comunque, mi sono arresa e sono tornata a casa. Ho cenato con Mauro e Martina. Dovresti vedere quanto ti somiglia adesso. Però lei è più in gamba. Sarà perché Mauro la tratta come fosse sua figlia da quando siamo andati a vivere da lui. E lui è come me: è cresciuto tra i libri. Mi è sempre morto dietro e tu ci ridevi su, ti sbellicavi proprio. Gli dicevi: “leggi, leggi…”. Poi sei caduto su quella moto, stupida quanto te, e io che avrei dovuto fare? Me lo sono fatta andar bene. Soldi ne ha un bel po’, ha una casa qui in centro e una a Ponza, i suoi sono ancora vivi, e pure lui è vivo. Insomma dai, mi capisci. Ad ogni modo, abbiamo mangiato un’insalatona che aveva preparato prima che tornassi, ci siamo guardati un cartone — uno nuovo, con le fate queer, non lo conosci — e Martina ha preteso il gelato. Io lo sapevo perché le insalatone a cena sono tanto giuste quanto sbagliate. Però non ho detto niente perché sapevo che l’avrebbe detto lei. Mica è scema quella. Lui sì: non come te, è uno scemo intelligente, ma sempre scemo è. Però non mi fa lo stesso effetto. Per farmi eccitare uno dev’essere scemo per davvero. E poi è normale: né alto né basso, né bello né brutto, né piccolo né grosso. So che hai capito. Ad ogni modo, ci siamo mangiati questo sacrosanto gelato — sì, pure lui — e siamo andati a letto, tutti e tre insieme. È un po’ che Martina vuole dormire con noi: da quando ha cambiato scuola ora che ci penso.
È successo nel letto. Appena il fresco delle lenzuola si è intiepidito di corpi, mi è venuta una voglia matta di pensarti. Sì, ho detto voglia matta, ma tu che ne sai di cliché letterari? Comunque, era buio, ma io vedevo i colori di quella foto. Però non era una foto: si muoveva. C’eri tu che saltavi da un punto all’altro, sul fuoco, e a ogni salto vedevo il tuo cazzo che rimbalzava nel costume. E i tuoi tatuaggi così pretenziosi e squallidi — non so come abbia fatto mia madre a lasciare che ti sposassi. In ogni caso, ho infilato la mano sotto le lenzuola. Ero terrorizzata: non sapevo se Mauro e Martina stessero già dormendo. Dopo tipo sette secoli sono arrivata sotto ed ero un disastro: devo aver bagnato tutto il coprimaterasso. Però ero così felice amore mio. Mi sono sfilata pianissimo e sono andata in bagno: non ho avuto neanche bisogno della foto sul telefono.
Quando mi sono svegliata, stamattina, Mauro e Martina erano allegri: abbiamo preparato i pancake. Devo ammettere che se riuscirò a ripensarti di nuovo forse questa vita mi andrà bene. Mauro dice che posso lasciare il lavoro, vuole aiutarmi ad aprire un negozio da mantenuta: non lo chiama così, ma so che lo pensa. E ha ragione, però che mi importa? Fiori secchi o vestiti per bambini ricchi: non ho ancora deciso. Martina è contenta: un po’ le manchi, ma almeno ha una specie di padre. E io ho te, cioè: ho quel ricordo e questa mano. Credo mi basti, davvero. Spero che i fiori ti piacciano.