Tutto il mostruoso di Parthenope
di Annalisa Izzo
Uccello dal corpo di donna, la sirena Partenope, come racconta il mito, si lasciò morire tra gli scogli delle Sirenuse, nelle acque tra Positano e Capri, per non essere riuscita a sedurre Ulisse col suo canto. La corrente marina trascinò le spoglie della vergine fino all’isolotto di Megaride, quello sul quale sorgerà, poi, il Castel dell’Ovo. Fu così che i primi abitanti di quel luogo la ritrovarono, coi capelli fluttuanti sull’acqua e gli occhi spenti; le diedero sepoltura, le innalzarono un altare, poi un piccolo tempio. Nacque in quel momento una città nuova, che della sirena prese il nome e che della sirena fece la sua protettrice: Partenope, Neapolis.
È il mostro dunque – l’uccello antropomorfo dell’epos omerico, la donna-pesce dei bestiari medievali, l’essere prodigioso, meraviglioso, straordinario, soprannaturale, seducente e terrificante al tempo stesso – la figura con cui si identifica la città.
Il decimo film di Paolo Sorrentino si apre con la nascita di una bambina, partorita nel mare di Posillipo – che dall’isolotto di Megaride dista poche bracciate, anzi lo guarda – alla quale il futuro padrino dà il nome della città stessa, Parthenope. Il ciclo del mito primigenio è compiuto, tra morte, nascita, e rinascita del mostro: Parthenope, la sirena, il mostro per antonomasia, nasce incarnazione della sua città.
Se l’aggettivo « onirico » è quello che più volentieri è stato speso per il cinema di Sorrentino, l’aggettivo « mostruoso », invece, lo è stato solo occasionalmente. Eppure, che sia grottesca, demoniaca, perversa o straziante, è la natura mostruosa dell’umano che Sorrentino mette in scena ogni volta – se per mostruoso intendiamo, appunto, tutto ciò che si scontra con una (presunta) norma, suscitando stupore o terrore. Di questa galleria del mostruoso (che corre da Il Divo, a L’amico di famiglia, da This must be the place, a La grande bellezza e a Loro…) Parthenope è la quintessenza.
Per metterci sulle tracce del suo monstrum, Sorrentino lascia stavolta fin troppi indizi. Nell’onomastica, intanto. Ancor prima di Parthenope, conosciamo suo fratello: « Raimondo! », lo chiamano all’arrivo del padrino, il Comandante, che reca in dono una carrozza fatta venire, dice lui, direttamente da Versailles. Ora, a Napoli il nome Raimondo non è un nome qualunque, perchè ancora oggi è indissolubilmente legato a una figura eccentrica e fascinosa del passato settecentesco della città: l’aristocratico, inventore, naturalista, massone, letterato, studioso di storia e di filosofia, Raimondo Principe di Sansevero. Dedito a ricerche molteplici e disordinate, il Principe, negli ultimi anni della vita, si dedicò alla ricostruzione della cappella di famiglia, adiacente piazza San Domenico Maggiore (chi volesse visitare oggi la cappella dovrà armarsi di grande pazienza, i tempi di attesa sono lunghi, tale è la fama di questo sito, nell’era dell’overtourism). Tra le tante opere d’arte commissionate dal Principe, nella cavea della cappella si ammira il Cristo velato, uno stupefacente Gesù deposto, ricoperto da un sudario scolpito nello stesso blocco di marmo e realizzato da Giuseppe Sanmartino – opera che suscitò, a quanto si dice, l’invidia di Antonio Canova – ma anche le due Macchine anatomiche, gli scheletri di un uomo e di una donna con il sistema arterovenoso pressoché integro, realizzati dal medico Giuseppe Salerno e acquistati dal Principe (ai quali, in passato, si accompagnava un feto, adagiato ai piedi dello scheletro femminile, a suggerirne la provenienza, trafugato non molti anni fa). Che sia falsa la credenza popolare (riportatata da Croce) secondo cui i corpi erano quelli di due servitori del Principe, da lui avvelanati a scopo di sperimetazione, importa davvero poco: tanto la scultura quanto i due studi anatomici, sono voluti dal Principe Raimondo proprio per suscitare estremo stupore negli osservatori. Sono mirabilia letteralmente mostruose, in cui ad essere esibito (mostrato) è lo scontro tra il dentro e il fuori dell’umano. Il mostruoso del Principe di Sansevero nasce laddove ciò che non dovrebbe essere visibile è invece ostentato, oppure laddove ciò che dovrebbe nascondere mostra.
Che il principe-mago sia eletto da Sorrentino a suo nume tutelare, è confermato più avanti nel film: durante l’appello per l’esame universitario di antropologia, infatti, scopriamo che il cognome di Parthenope è Di Sangro, proprio come il Principe, il cui nome completo è Raimondo di Sangro, VII Principe di Sansevero.
In verità, la dichiarazione di un legame fortissimo con questa figura bizzarra ma autorevole (rispettata, per esempio, dal filosofo illuminista Antonio Genovesi, che ne fu amico) è già nella prima inquadratura del film. La scena si apre sul mare, tra l’isolotto di Megaride e le acque di Posillipo, sulle quali scivola una favolosa carrozza settecentesca. Una carrozza che arriva alle spiagge del golfo dall’acqua! Ebbene, questa scena ripete, in ampia misura, la scena spettacolare che il Principe Raimondo offrì ai suoi concittadini il 17 luglio 1770. Da tempo egli aveva in progetto di attraversare il golfo a bordo di una carrozza rocaille trainata da quattro cavalli, e dopo anni di lavori e preparativi, quella mattina di luglio la magia si avverò. Un articolo sulla Gazzetta di Napoli riportò l’evento descrivendo il pubblico affollatosi sul lungomare per ammirare il fatto straordinario. La carrozza solcò davvero le onde, sostenuta da una zattera, appena visibile sotto il pelo dell’acqua e sulla quale erano installate sagome di cavalli in legno, mossa da un sistema invisibile di ruote a pale. La distanza dalla spiaggia rendeva la macchina credibile e dava alla scena qualcosa di miracoloso, di mostruoso – e certo, di cinematografico avant la lettre.
Il mostro, dunque, e il mostruoso come cifra del cinema di Sorrentino. Perchè il mostruoso rivela l’invisibile, la verità dietro la menzogna, l’indicibile. Andiamo incontro a questi mostri, allora, perchè è così, credo, che potremo cogliere qualcosa – una piccola parte e solo da una certa prospettiva, si capisce – del senso di un film che costruisce il suo significato non certo attraverso il plot (la storia di una donna nata nel 1950, che seguiamo, in una successione di magnifici quadri – c’è chi, il Guardian, ha definito il film il “long-form di una pubblicità per un profumo di lusso” – dalla nascita fino al giorno del suo pensionamento da docente di antropologia all’università).
Flora Malva, nota attrice cui Parthenope si rivolge per intraprendere la carriera cinematografica, tiene alla splendida protagonista un discorso sulla bellezza come guerra, come prigionia, come offesa. Ma Flora Malva (la pianta era detta omnimorbia dagli antichi, che cura ogni male) non si mostra allo sguardo altrui se non col viso coperto da una maschera nera, oppure nel vapore denso di una cabina-doccia. I suoi lineamenti sono stati sfigurati dalla chirurgia estetica: è diventata un mostro inguardabile. Mostruosa è Greta Cool, diva in dismissione, che, madrina di un’inaugurazione nella sua città, rompe le righe e si lancia (con poco garbo ma davvero cool) in un’invettiva contro i napoletani, salvo poi perdere la parrucca alla fine del monologo e mostrarsi per ciò che è: una vecchia dai capelli tinti e radi. Mostruosa l’umanità del vicolo, orba e sdentata; mostruosa la donna di camorra, che offre in pasto al pubblico il concepimento del futuro erede di una dinastia criminale… I mostri irrompono e interrompono, perfino il sacro: così lo sfarzoso funerale di Raimondo (morto gettandosi in mare durante la vacanza a Capri, dopo aver assistito agli amplessi della sorella con l’amico Sandrino), con tanto di carrozza e cavalli (eh sì, di nuovo una carrozza coi cavalli, stavolta nera, come quella de Le conseguenze dell’amore), viene interrotto – su via Partenope – da un gigantesco e mostruoso carapace metallico, dalle cui zampe sprizza a getto continuo un misterioso liquido. La cerimonia solenne e pomposa si scontra con la realtà più lurida dell’autocisterna che sparge disinfettante contro il morbo del colera sul lungomare più bello del mondo. Mostruoso è il corpo dell’arcivescovo Tesorone (satiricamente custode del tesoro di San Gennaro, e forse di ben altre meraviglie), quando, spogliati i paramenti del suo ruolo, si mostra uomo indesiderabile davanti all’abbagliante bellezza di Parthenope. E naturalmente, mostruoso è il desiderio incestuoso che unisce fratello e sorella, Raimondo e Parthenope (la domanda rivolta da Parthenope al miliardario – un po’ James Bond, un po’ Gianni Agnelli – che vorrebbe possederla, precede di poche ore il suicidio di Raimondo e suona così: “Lei non trova che il desiderio sia un mistero e il sesso il suo funerale?”). La carrellata potrebbe continuare (e, soprattutto, dovrebbe essere messa in relazione con le opere precedenti del regista), ma non serve; non serve perchè il film chiude sul più irriducibile dei mostri, che tutti li contiene, il macrocefalo iperobeso, Stefano Marotta, figlio del professore-mentore di Parthenope, Devoto Marotta (il cui cognome, mi pare da leggersi come omaggio allo scrittore Giuseppe Marotta, autore, tra l’altro, del film L’oro di Napoli).
Come per le Macchine anatomiche del Principe di Sansevero Raimondo di Sangro, la mostruosità è invincibilmente legata alla verità per Sorrentino: deposta la spoglia (la maschera, la parrucca, i paramenti… la bellezza del corpo, la norma… ), appare il vero. In tal senso, il regista mette in scena il concetto di verità per come lo intendeva la cultura greca, in seno alla quale nasce Parthenope: alètheia – che la lingua latina traduce con veritas – è disvelamento, lo stato del non essere nascosto. Maggiore è il contrasto, maggiore la mostruosità. Il percorso di conoscenza, perciò, si gioca tutto nella capacità di scorticare l’involucro esterno, quella pelle che è confine tra sé e altro, tra sé e mondo, e finalmente vedere (il discorso sull’umano, lo studio dell’umano altro non è che vedere, saper vedere, afferma in una delle sue ultime apparizioni l’antropologo Devoto Marotta).
Ma vedere cosa? si dirà… Ciò che sta sotto la pelle, sotto la maschera, sotto la parrucca, sotto la bellezza abbagliante, sotto i paramenti… o ancor meglio, ciò che appare insieme a tutte queste cose, ciò di cui tutte queste cose sono fatte, la loro consistenza, la loro essenza. Guardare in faccia il mostruoso senza restarne accecati, disgustati, respinti: guardare in faccia la mostruosità del desiderio, la violenza della bellezza, la rassegnazione dell’intelligenza, l’eccedenza del godimento, l’oscurità dell’umano… senza giudicare (come nel patto siglato da Parthenope col suo direttore di ricerca). Del resto, Parthenope, la cui biografia coincide con questo percorso di conoscenza, solo una volta sentirà di potersi innamorare e sarà per lo scrittore John Cheever – dei cui racconti è avida lettrice e che incontra casualmente a Capri –, profondo scrutatore dell’animo umano e delle sue ombre. E lei, che in tanti hanno voluto possedere, solo una volta la si vedrà godere nuda nel film, quando si lascia masturbare dalle mani del repellente Tesorone (e il miracolo dell’orgasmo si compie, e il sangue del Santo si scioglie).
Se Parthenope è un film su Napoli dunque (e certo che lo è!), è la chiave del mostruoso che può aiutarci a penetrarlo. A patto di intendere il mostruoso non solo come tutto ciò che si scontra con una (presunta) norma, ma ora, chiaramente, come ciò che in quello scontro tra norma e deviazione dalla norma offre un’epifania del vero, che chiede di essere vista, non giudicata.
Paradossalmente, quindi, proprio la bellezza luminosa delle sue immagini, l’avvenenza abbagliante della sua protagonista – che la macchina da presa non lascia, per l’appunto, quasi mai – proprio quel suo autocompiacimento estetico (per cui c’è chi – sempre il Guardian – ha parlato di autoparodia sorrentiniana), fanno del film un’occasione per interrogare alla radice il senso della bellezza, e il suo non essere altro che una delle due inseparabili facce dell’umano, in continuo dialogo, in un mutuo nutrirsi con l’altra, quella oscura e perturbante.
Cosicché la galleria di mostri è riconoscibile come una sfilata di figure della città (eh sì, anche Greta Cool potrebbe non essere altro che una personificazione di Napoli – una Napoli che non sopportando più i suoi figli si ritira lei al Nord – con un senso tutto nuovo da dare all’assonanza tra il suo nome d’arte e la parola volgare per deretano, in relazione con la presunta predilezione della diva per la sodomia). Anzi, si potrebbe perfino ipotizzare che tutte le sperimentazioni di Sorrentino intorno al mostruoso e prima di Parthenope, non siano state altro che declinazioni per via di approssimazione alla definitiva rappresentazione del monstrum come condizione che meglio incarna la verità dell’umano.
Fino all’ultima figura, il mostro celato al cuore del labirintico percorso (novello Minotauro), il macrocefalo iperobeso dell’ultima scena, la cui pelle sottilissima e tesa lascia intravedere quel sistema arterovenoso che il Principe di Sansevero si era già premurato di mostrarci. Ma questa volta il mostro appare, a chi lo sa vedere, bellissimo e degno di tutta la devozione.
Una gran bella lettura dei significati del film, a tratti illuminante, ma che tralascia del tutto l’analisi del significante… L’idea di fondo del film è buona e furba (probabilmente il regista ammicca più a far colpo su un pubblico internazionale che nostrano), ma la resa cinematografica trovo sia deludente (per gli standard molto alti di Sorrentino).