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A San Pietroburgo con Dostoevskij – Antonina Nocera

Pietroburgo a sfoglie

 

C’è un filo sottile tra il desiderio, l’ossessione, il sogno. Accade che questo filo spesso si assottigli fino a rendere labili le distanze tra queste tre dimensioni psichiche, come accade al protagonista del racconto di W. Jensen, Gradiva, cui Freud dedicò un saggio di approfondimento sul delirio e i sogni. Un giovane archeologo, Norbert Hanold, che scorge in un museo un bassorilievo raffigurante un’immagine di donna, da lui ribattezzata Gradiva, “colei che incede”, rimane a tal punto impressionato e sconvolto da continuare a ricercare in modo ossessivo questa figura nella realtà. Si reca da Roma a Pompei alla ricerca di Gradiva, finché, alla fine di un cammino tra sogno e realtà, ritrova le sue fattezze in Zoe, un’antica compagna di giochi infantili. Stesse le movenze, l’incedere, i particolari. L’attrazione che ne scaturisce lo porta a vivificare questa immagine, a costringerlo a intraprendere un viaggio, per ritrovare la sensazione di qualcosa che aveva vissuto, duemila anni prima, sicuro di avere fatto la prima colazione con una donna pompeiana, dalla caviglia sottile, dalla veste bianca e svolazzante che aveva acceso il suo desiderio. Trovo che questa storia sia, di là dalla interpretazione freudiana che la relega nell’ambito del rimosso, del sintomo sotto forma di figura nel sogno, una perfetta metafora di quell’innamoramento necessario che sostanzia ogni tipo di ricerca letteraria. Cercare Gradiva, per me, è stato cercare Pietroburgo nelle pagine dei romanzi, nelle parole degli scrittori russi che ne avevano delineato una precisa fisionomia, avevano acceso la mia immaginazione, risvegliando, come probabilmente fu per Hanold, un sentimento occulto, che lei, la città petrina, rinfocolava con la sua potenza iconica. Camminare per le strade pietroburghesi è un’esperienza che chiama a raccolta una stratificazione di memorie culturali, letterarie, che sono inseparabili, tanto sono “inscritte” nel panorama urbano. Tra tutti, ho eletto lo scrittore F. M. Dostoevskij a mentore ideale di questo cammino, nel crinale tra sogno, realtà e desiderio. Credo che tra tutti abbia creato una sintesi perfetta che prende spunto da Gogol’, Anciferov, Puškin, Turgenev, e crea la magia sincretica. La febbrile e convulsa Pietroburgo, la tremula parete che separa la Prospettiva Nevskij dal sogno, i personaggi che si muovono come fantasmi o sognatori, il perverso intrigo di vicoli dell’anima e della mente.

Quando ho conosciuto Piter, come i russi pietroburghesi amano definire la loro città, ho provato la netta sensazione di avere compreso non l’intera anima russa – forse nessuno la capirà mai integralmente – ma quella fetta di “russitudine” che aveva forgiato la mia personale anima russa, quella che ho costruito sui romanzi, sulle letture, sulle fantasticherie che formano la mitologia personale di un luogo.

Si ha la netta sensazione che nulla di quello che si vede è definitivo. “La città più premeditata del mondo” è una definizione dostoevskiana che esprime perfettamente il senso di Pietroburgo. Tutto sembra perfettamente comme il faut all’apparenza, un’architettura all’europea che ti restituisce qualcosa di familiare, ma non integralmente. Un familiare che si avvicina maggiormente al senso di Unheimlich, perché lo riconosci, ma al contempo ne senti l’estraneità. Un luogo, insomma, che nella sua bellezza esteriore ti invita ad andare oltre, ad affrettare il passo per imboccare la strada che porta “oltre”, tra i vicoli, di là dalla facciata, dalla bella prospettiva che si staglia come una quinta teatrale, pronta ad aprirsi, a svelare connessioni con mondi inaspettati, poco rassicuranti.

Pietroburgo, città eccentrica, estranea alla cultura del proprio paese, a eccezione di alcuni quartieri periferici in cui il “pittoresco” resistette per un certo tempo, il concetto fondamentale fu udivlenie i vostorg (stupore ed esaltazione/entusiasmo), fondato su una base sottilmente razionale e utilitaristica. Per questo gli spazi erano ampi, le vie e le prospettive di grande portata, le distanze dilatate. La prima volta che si imbocca la Prospettiva Nevskij si percepisce il senso di questa grandiosità che colpisce gli occhi e l’immaginazione. Ma chiunque abbia letto Gogol’ – anche Dostoevskij sa bene che usciamo tutti dal Cappotto – sa che questo apparato è come il cielo di carta di Mattia Pascal, pronto a sfarinarsi sotto le dita, come un sogno, una fantasia, in un viaggio mentale.

Non si può conoscere l’essenza pietroburghese senza avere letto Il cavaliere di bronzo di Puškin.

T’amo creatura di Pietro, scrisse il poeta che cantò le origini di Pietroburgo in uno dei poemi più importanti della storia letteraria russa. Un’opera fondativa, della lingua, dell’immaginario, della struttura urbana. L’opera va letta come parte di una storia più ampia, che si riverbera nei meandri della memoria, della storia e nell’anima di Pietroburgo come la chiamò Anciferov (Duša Peterburga). Un’anima doppia, che partecipa del cielo e della terra, del sublime e del laido. Puškin ha detto tutto di questa origine, chiamando in causa il Prometeo al fine di dare linfa vitale a questa nuova costruzione: La città di Pietro.

La storia di Pietroburgo si fonda sulla capacità di trasformazione della natura a opera dell’uomo. Natura e spazio fisico vengono piegati alle esigenze della monumentale Pietroburgo nascente; la prima operazione consiste nella cancellazione dello spazio precedente, il terreno brullo e inospitale viene dissodato, bonificato, reso “piano” e plasmabile. Sembra che tutto abbia preso avvio da una fantasia, da una “visione” del giovane zarevič Pietro mentre trascorre il suo tempo in occupazioni adolescenziali in un recinto dedito ai giochi; da una fan- tasia fanciullesca prende corpo quella “visione” della futura città, in cui tutto sarebbe stato recintato come un grande hortus conclusus modellato a propria immagine e somiglianza.

La costruzione del mito della città di Pietroburgo e la costruzione della città in senso stretto procedono a passi paralleli: il mito poggia sulle palafitte erette sui terreni paludosi, e sui versi di poeti che ne decantano l’aspetto tragico, torbido, pericolante. Le denominazioni della nascente città ne tradiscono tutte le velleità: “Palmira del Nord”, “Nuova Roma”, o di contro “opera dell’‘Anticristo’”, o del “costruttore taumaturgo”. La poesia encomiastica ne rivela il suo carattere miracolo- so: Sumarokov, Lomonosov e Deržavin, entrambi pro- motori della retorica di Pietroburgo come “novella Roma” con tutti gli orpelli del mito di fondazione. Di pari passo alla mitologia fastosa, una vena cupa e corrosiva stempera l’ottimismo progressista; leggende popolari prefigurano un’imminente rovina, i “fantasmi del passato”, forse le anime degli innumerevoli martiri morti durante la costruzione della città, e sepolti per sempre al di sotto delle sue fondamenta, incombono sul destino della città. È impossibile leggere i russi che hanno scritto di Pietroburgo senza percepire questi fantasmi, nei volti, nelle movenze, dei passeggiatori della Prospettiva Nevskij, nelle strade buie e tortuose che portano al cuore del- la città, nei personaggi che animano il racconto della città. Pietroburgo è un testo, come venne definito dalla critica semiotica, da Uspenskij e Toporov. Un testo che interseca fili di narrazioni stratificate, di segni e simboli che rimandano a una mitologia complessa e antitetica. Al mito della finestra sul mondo si abbina l’antimito escatologico della sua distruzione. Il fatto che Pietroburgo potesse per i suoi dati semantici fondamentali essere inserito in questa doppia situazione ha consentito di considerarlo nello stesso tempo sia un paradiso, l’utopia della città ideale del futuro, materializzazione della Ragione, sia la sinistra mascherata dell’anticristo.

Tutto parte da un elemento primordiale, l’acqua: nel 1824 il quartiere Kolomna fu sconvolto da un’alluvione. Come Puškin ricorda nell’introduzione al Cavaliere di bronzo: “L’incidente descritto in questa storia è basato sulla verità. I dettagli dell’alluvione sono presi in prestito dalle riviste dell’epoca”. L’acqua della Neva invade minacciosa la città, portando morte e distruzione. Un elemento che ricompare in Dostoevskij tra le pagine del romanzo Il sosia. In un memorabile brano che pare attingere a Puškin per la drammaticità incalzante e a Gogol’ per quell’aura fantomatica, fumosa in cui la realtà sfuma nella visione e viceversa, Dostoevskij dipinge nel suo secondo romanzo una città minacciosa, che annuncia l’imminente sdoppiamento dell’impiegato Goljadkin, con le acque che gonfiano dalle rive della Fontanka, il lungofiume che costeggia la parte sud della città e taglia il centro pietroburghese, formando una curiosa perpen- dicolare con la piazza Sennaja. Sembra che tutti i personaggi dostoevskiani seguano delle traiettorie che alla fine si incrociano in strani crocevia. Goljadkin e Rodion Raskol’nikov sono tra gli eroi principali dello sdoppiamento dostoevskiano, lo stesso nome Raskol’nikov ne porta una traccia, raskol’ è lo scisma. Entrambi vivranno il dramma della scissione identitaria, Raskol’nikov perché pervaso dall’idea di diventare Napoleone e sovvertire l’ordine morale, Goljadkin rappresenta – ben prima di Freud – lo sdoppiamento della personalità, la schizofrenica propulsione verso un altro che è tanto vivido da diventare “persona”, maschera vivente della propria ossessione. Anche il quartiere Kolomna, che oggi non è certo desolato e solitario come lo descrive Gogol’, conserva quel pizzico di malinconia acquosa che lo distin- gue dagli altri quartieri pietroburghesi.

Ma torniamo alle acque, ripercorriamo Fontanka. Nel punto in cui il personaggio dostoevskiano si ferma, pres- so il ponte Izmajlovskij. Oggi questa è per me una delle passeggiate più affascinanti, specie durante le notti bian- che, un percorso da fare a piedi, col battello, fino al museo di Anna Achmatova. Nulla potrebbe turbare questo paesaggio, se non il ricordo terribile che si stagliava di fronte a Goljadkin, a mezzanotte, quando “tutte le torri e i campanili di Pietroburgo battono le ore in punto”:

il vento ululava per le vie deserte sollevando le acque nere della Fontanka fino all’altezza degli anelli di ormeggio e scuotendo impetuosamente gli sparuti lampioni del lungofiume, i quali, a loro volta, facevano eco ai suoi ululati con acuti, penetranti cigolii, dal che risultava quel continuo, stridulo e pigolante concerto così noto a ogni abitante di Pietroburgo. Pioveva e nevicava nello stesso tempo. Trascinati dal vento, veri ruscelli d’acqua piovana, volavano quasi orizzontalmente, come da una pompa di pompieri, pungendo e flagellando il viso dell’infelice signor Goljadkin, come migliaia di spilli e spilloni. Nel silenzio della notte, interrotto soltanto da lontani rumori di carrozze, dall’ululare del vento e dal cigolio dei fanali, si sentiva il malinconico stillicidio dell’acqua che gocciolava su tutti i tetti, i terrazzini, le grondaie, e i cornicioni sul sel- ciato di pietra sul marciapiede.

Ancora non esisteva Raskol’nikov, Delitto e Castigo sarebbe nato successivamente. Curiosamente, entrambi i personaggi cercano una sorta di luogo in cui si incrociano energie sinistre eppure vitali. Questo luogo è Fontanka, il lungofiume che appare nei taccuini preparatori del romanzo. Le acque torbide delle origini pietroburghesi esercitavano ancora il loro influsso magnetico. Ma Raskol’nikov, che allora si chiamava Vas’a, prese un’altra strada. Non esiste infatti una sola Pietroburgo, ma una Pietroburgo a “sfoglie” che contiene in ogni strato una narrazione esterna, una rappresentazione di se stessa, un commento che cresce e si riverbera nelle mille città della memoria, collettiva e personale. Sono qui per costruire la mia Pietroburgo.


Antonina Nocera vive a Palermo, è insegnante di letteratura italiana e latino. Saggista nell’ambito della critica letteraria, ha pubblicato una monografia dal titolo. “Angeli sigillati. I Bambini e la sofferenza nell’opera di F.M. Dostoevskij.(FrancoAngeli, 2010 Finalista al Premio Carver 2022), Metafisica del sottosuolo – Biologia della verità fra Sciascia e Dostoevskij” (Divergenze, 2020 Finalista al premio Carver 2021 e Premio Etnabook 2021) “A San Pietroburgo con DostoevskijLa città di carta e di sogni.”(Perrone 2024) e altri contributi critici in volumi collettanei.  Gestisce il blog letterario Bibliovorax ed è direttrice editoriale della rivista Augeo- quaderno di scienze umane (Divergenze).

 

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