“El Petiso Orejudo”, l’operetta trash di María Moreno
[Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prefazione di Francesca Lazzarato al volume di María Moreno, L’atroce storia di Santos Godino. El Petiso Orejudo, Edicola Edizioni 2024, tradotto dalla stessa Lazzarato.
Buenos Aires, 1912: il figlio di poverissimi immigrati italiani Cayetano Santos Godino viene arrestato con l’accusa di undici crimini. All’epoca ha sedici anni e diventerà oggetto di studi e congetture pseudo-scientifiche fino alla sua morte, avvenuta in una gelida prigione alla fine del mondo. La sua storia – raccontata da María Moreno in un testo che fonde cronaca, saggio e romanzo – non è solo quella di uno dei criminali più misteriosi e celebri, ma anche quella di una società che rifiuta con violenza ogni manifestazione di alterità, mostrificando e punendo chi vive ai margini. Moreno è una giornalista, scrittrice e critica culturale.
Alla prefazione di Lazzarato aggiungiamo la pagina iniziale del libro.]
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di Francesca Lazzarato
È dagli anni Settanta che María Moreno va anticipando tendenze e mutamenti di rotta in campo letterario, anche se continua a definirsi una giornalista, ancor prima che una cronista, una romanziera, una saggista. Cominciò a scrivere per mestiere negli anni bui del Proceso de Reorganización Nacional, quando la censura ebbe il paradossale effetto di trasformare certe pagine culturali o di costume di quotidiani e riviste in un laboratorio dov’era possibile insinuare sotterraneamente idee proibite o sperimentare nuove strategie narrative. Moreno poté così permettersi di lasciar affiorare nei suoi articoli elementi di erotismo, dissidenza e controcultura, che l’ambiguità di uno stile barocco ed ellittico era sufficiente a mascherare, consentendole di affrontare temi che, allora come oggi, l’hanno resa un punto di riferimento per il pensiero della differenza.
La sua è un’opera vasta e complessa da situare tra il giornalismo, fonte di testi poi rielaborati e raccolti in una dozzina di volumi, e una narrativa caratterizzata dalla fusione di generi diversi, dal saggio alla cronaca al romanzo, fino alla cosiddetta “scrittura dell’io” concentrata soprattutto nello straordinario Black out (2017), quattrocento pagine in cui Moreno parla, con mirabile audacia formale, della sua storia, di un corpo sofferente o desiderante e dell’alcolismo di cui si è spogliata come di un abito logoro, ma anche della fitta costellazione sociale e intellettuale di un’Argentina non così remota, eppure viva solo nella memoria.
Anche se continua a tenersi lontana dal mercato e dalle gerarchie del canone, la sua figura si è lentamente spostata dal margine al centro di un contesto editoriale ormai propizio a quella che si usa chiamare cronaca, genere di frontiera attorno al quale si addensano numerosi equivoci e sulla cui natura si continua a dibattere, ma che per Moreno rimanda innanzitutto alla tradizione latinoamericana del secolo XIX, impersonata da José Martí, Amado Nervo o Ruben Darío. E se riconosce in Rodolfo Walsh l’autentico cronista investigatore, colui che scova, redige e diffonde le notizie in un circuito parallelo a quello dei media e del potere politico, l’autrice argentina assegna pari importanza al Manuel Puig della maturità, che in Sangue di amor corrisposto accoglie la voce altrui e registra i toni dell’oralità popolare.
Moreno, insomma, non pratica un giornalismo travestito da letteratura, che si propone come testimonianza e si attiene rigidamente ai fatti, secondo i dettami dei cronisti nordamericani; la “sua” cronaca richiede l’esercizio dell’immaginazione e procede verso l’indispensabile creazione di uno stile memore dell’avanguardia attiva in Argentina fra gli anni Sessanta e Settanta (quella di Germán García, di Libertella e Lamborghini, di Fogwill e Perlongher, solo per fare qualche nome). Una scrittura che rivendica la disobbedienza, l’accostamento di materiali eterogenei, l’uso del kitsch come sberleffo alla normatività del “buon gusto”, la passione neobarocca, l’intervento dell’ironia là dove si addensano le ombre della tragedia, e infine la presenza costante di voci subalterne e poco ascoltate. Perché Moreno è ben consapevole del fatto che, come sosteneva il messicano Carlos Monsiváis, il cronista latinoamericano non può rinunciare a una polifonia in cui trovino posto gli emarginati e gli esclusi, proprio come accade nell’ammaliante cronaca-saggio-romanzo da lei dedicato nel 1994 a un reietto leggendario, El Petiso Orejudo, alias Cayetano Santos Godino.
El Petiso, El Oreja, El Orejón: comunque lo si voglia chiamare, questo figlio di poverissimi immigrati calabresi è forse il criminale più misterioso e celebre della storia argentina, e neppure un altro famoso assassino adolescente, Carlos Robledo Puch – serial killer dal volto angelico che terrorizzò Buenos Aires nei primi anni Settanta – lo ha scalzato dal suo spaventoso piedistallo.
El Petiso è diventato figura del folclore, modo di dire, icona, spauracchio, simbolo, e il suo mito fa così saldamente parte dell’immaginario nazionale da aver lasciato innumerevoli tracce: per esempio nelle strade e nei musei di Ushuaia, dove statue e murales lo ricordano, nelle vignette di alcuni comics, sugli schermi (El niño de barro, un film a lui ispirato, è del 2007), nei negozi che ad Halloween vendono la sua maschera, nelle pagine di libri-reportage e di trattati criminologici, o in quelle di romanzi e racconti (il suo fantasma appare, per esempio, in Pablito inchiodò un chiodino, novella di Mariana Enríquez).
Maria Moreno ha costruito intorno a lui un testo magnificamente ibrido, in cui convivono il lunfardo dei bassifondi e il cocoliche (lo spagnolo storpiato dai tanos, gli immigrati italiani, che la traduzione ha scelto di restituire tramite un’allusione all’origine calabrese dei Godino), il linguaggio stilizzato dei medici, l’enfasi e la retorica della stampa e la prosa burocratica di giudici e poliziotti. E, come sempre, la scrittura dell’autrice sfugge a ogni classificazione, si spinge ben oltre le frontiere della cronaca, si fa beffe della tassonomia critica, disintegra i generi e ne mette in discussione la legittimità.
Fedele all’abitudine di riscrivere, rinnovare, riutilizzare, nel 2021 Moreno ha ampliato El Petiso Orejudo, aggiungendovi un poema corale da lei definito «un’operetta trash»: brevi note in prosa e versi in cui si coglie un’eco di tanghi o di strofette da café chantant, che precedono ogni capitolo e si rifanno al tumulto di una Buenos Aires immensa e tenebrosa, un moderno «bosco di mattoni» che, pochi anni dopo la condanna di Santos Godino, Roberto Arlt comincerà a descrivere nelle sue Aguafuertes, cronache attente a ogni minuzia della vita quotidiana. Accanto all’ironico e dolorosamente sarcastico narratore onnisciente della prima versione, che non manca di cedere a più di una tentazione metaletteraria e inserisce nel racconto documenti d’archivio, perizie mediche, articoli, interviste, allusioni a personaggi dell’epoca, Moreno ne ha collocato un secondo, un «poeta macabro dalla squisita e tropicale immaginazione» che dà spazio a travestiti, truffatori, ladruncoli, freaks, malati di mente, bambini sfiniti dal lavoro in fabbrica, sartine tisiche, bimbette arse vive dalla furia del Petiso e galeotti in marcia nel glaciale paesaggio patagonico.
Evocate con rapida efficacia, le loro voci contribuiscono a definire l’immagine di una città-batterio “infettata” dal popolo degli immigrati, forza-lavoro indispensabile ma intrinsecamente minacciosa, la cui pericolosa diversità è riassunta e dilatata dalla figura estrema del Petiso: nuovi arrivati visti come portatori di delinquenza e degenerazione, “primitivi” ma non per questo incolpevoli, proprio come i popoli originari che secondo Domingo Faustino Sarmiento, uno dei padri fondatori della patria argentina, per il semplice fatto di esistere mettevano la nazione davanti a una scelta cruciale tra civiltà e barbarie. La folla di comparse chiamate alla ribalta dall’irriverente “poeta macabro” porta con sé eloquenti fotogrammi della società argentina all’inizio del Novecento, e allo stesso tempo svolge la funzione di coro greco nella tragedia dell’Orejudo, “mostro” impenetrabile giudicato e condannato sulla base del positivismo lombrosiano, che in Argentina, come in tutta l’America Latina, ebbe enorme fortuna e si trasformò in un’efficientissima arma biopolitica.
Resta da chiedersi se quella che María Moreno ci sottopone nel suo esemplare e provocatorio testo-collage, squisitamente frammentario e capace di fondere grottesco e sfumature liriche, sia solo un orrorifico true crime trasformato in letteratura, una storia lontana nel tempo e nello spazio, tutta e solo argentina. Ed è quasi ovvio rispondere che in essa si riflette anche l’inquieta oscurità del nostro presente, e che, dopo oltre un secolo, l’atroce storia di Santos Godino continua a interpellarci con immutata intensità.
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IL RAPIMENTO
Brr! Che freddo! Notte fonda nella Città Bacillo (come un nuovo focolaio dell’anomalia dominante). Nel ventre nervoso della Cristalería Rigoleau la giornata operaia non si fermava. Macchine bizzarre diffondevano un rumore monotono di striduli ingranaggi, che si espandeva contro il soffitto di lamiera insieme alle grida infuriate del caposquadra e ai soffocati colpi di tosse che sono il respiro del lavoro. Bambini curvi su pozzi fumanti soffiavano bottiglie, altri, seduti davanti a lunghi tavoli, limavano bordi di barattoli (avevano occhiaie come succhiotti e grembiuli grigi come le nubi prima della tempesta). A un tratto uno si addormentò. Il caposquadra si avvicinò in punta di piedi e lo colpì con forza sulla testa. Al di là delle enormi finestre: la mole grigia della Fosforera Argentina, con i suoi bambini al lavoro davanti a grandi calderoni di magnesio. Faville nell’aria, identiche a quelle che sprizzano dalle rotaie del tram. Vampate di veleno dritte nei fragili polmoni. Alcuni tossivano e si pulivano il moccio sulla manica dell’uniforme grigia. Si sarebbe detto un miserabile giardino dei supplizi.
Coro Il palato del popolo
Quando la porca vita inizia appena,
Il sole spunta e pesto ed ammaccato
Il ratto torna quatto alla sua tana
Mentre nella Taverna dei Misteri
Tra il taccuino ed un’arma abbandonata
Last Reason beve gli ultimi bicchieri
Lui va in giro a cercar soddisfazione
Se ci riesce il cuor gli esplode in petto
Mentre fugge fremendo d’emozione
E l’aria sa di sangue d’angioletto!
(firmato «un poeta macabro dalla raffinata e tropicale immaginazione»)