Non chiamatela Banlieue

di Gianni Biondillo

Innanzitutto: non è una banlieue. Smettiamola di usare parole a sproposito, non aiuta a capire di cosa stiamo parlando. E, a ben vedere, non è neppure più una periferia. Dal Corvetto a Duomo ci vuole un quarto d’ora di metropolitana, siamo ormai nel cuore della metropoli lombarda. Milano è una città densa e piccola, dimentichiamo l’idea novecentesca di periferia come quartiere operaio ai margini della città. Gli operai non ci sono più, come le fabbriche, Milano è cresciuta e ha inglobato questi quartieri. Come se non bastasse, poi, il Corvetto è anche un bel quartiere. Ora qualcuno mi prenderà per matto, ma lo dico e ribadisco. È il più grande progetto di edilizia popolare costruito negli anni venti del novecento in città, quando, in quel secolo, dare una casa a tutti era un imperativo morale. Quando una casa era un diritto, non una merce di scambio.

A progettarlo fu il più prolifico e dimenticato degli architetti lombardi, Giovanni Broglio, che ideò per lo IACP case fino a tutti gli anni cinquanta. Un bel quartiere, insisto. Case semplici, ma non banali. Una piazza, un parco, un mercato al coperto, delle scuole. Da qualche anno s’è pure trasferita una grande parte degli uffici comunali, in via Sile. E se ci aggiungiamo i nuovi progetti previsti a Santa Giulia per le olimpiadi, continuare a raccontare questo quartiere come se fosse sulla luna, lontano da tutto, senza neppure un servizio, è una bugia. Nessuno dei quartieri “difficili” di Milano sta sulla luna. Abito in via Padova, la strada più multietnica d’Italia, che è a dieci minuti a piedi da Città Studi. Il quartiere San Siro, quello dei “video trapper”, è a cinque minuti a piedi dalle ricchissime case di calciatori e notai.

E poi ci sono loro, i ragazzi. Quelli che cerco di raccontare da sempre, come ne I cani del barrio, ambientato proprio al Corvetto (e a Quarto Oggiaro e in via Padova… insomma, in piazza del Duomo non ci vado mai nei mie libri). Ricordo una scritta su un muro, letta in pieno centro: “Le periferie vi guardano con odio”, diceva. Magari lo fosse, pensai. Era evidente che l’estensore del graffito fosse un figlio della borghesia “di sinistra”, che in quelle periferie non c’è mai stato. Innanzitutto perché le periferie, in senso geografico, non esistono. Esistono luoghi di frizione sociale, spesso persino a un passo dal centro storico, come via Gola. Depositi degli ultimi, dei poveri, degli immigrati, degli anziani, dei disabili, di chi non produce, di chi non è dentro la narrazione della città che non si ferma mai. E vivono spesso in case dalle condizioni igieniche precarie, come sono precarie le loro vite. Ma non c’è odio. C’è frustrazione. La città scintillante, cool, internazionale, la città dei grattacieli sbilenchi e dei boschi sui balconi, la città della riccanza è a un passo, proprio uno, dalla loro città. Ma sembrano non incontrarsi mai. Gli unici rapporti che hanno con le istituzioni sono quelli di tamponamento: assistenti sociali, preti di strada, poliziotti.

Ricordo quando nel 2005 l’allora preside Sarkozy diede della racaille (della feccia) ai ragazzini che misero a ferro e fuoco le banlieues parigine. Più d’un giornalista mi chiese se dovevamo temere lo stesso qui in Italia. Ricordo la risposta: questa è la prima immigrazione importante in Italia. E ogni prima immigrazione cerca di stare nelle regole, cerca un posto di lavoro, un’opportunità, non prevedo, oggi, nulla di simile. Ma ricordiamoci che sono venuti qui per restare. Facciamo tesoro della lezione di Parigi e lavoriamo per la prossima generazione. Evitiamo che si senta esclusa, costruiamo, prima che tutto venga distrutto. Eccola la nuova generazione. Avrei voluto essere smentito dai fatti, avrei voluto spogliarmi del mio ruolo di Cassandra. Non abbiamo fatto nulla, abbiamo messo la testa sotto la sabbia. Non è neppure più una questione “etnica”. Spesso queste bande giovanili sono composte da ragazzi di provenienza mista, italiani compresi. È più un fatto generazionale. Viviamo in un paese che odia i giovani, che non fa nulla per loro, e in una città dove un affitto di un monolocale costa come un rene. In più questi “immigrati di seconda generazione” (lo sentite l’intimo razzismo di questa definizione?) non hanno la cittadinanza italiana, non hanno un lavoro, non votano, non hanno un peso politico, non contano niente. Qui, dove tutto sembra a portata di mano. Insisto, non è rabbia, è frustrazione.

Era già successo, al Corvetto, come in via Gola, come a San Siro. Tutti quartieri popolari sotto l’attenzione degli speculatori immobiliari. Pezzi di città enormi, lasciati andare alla deriva, in attesa di essere “rigenerati” dal mercato, dato che il pubblico non ha più soldi. Era già successo, insisto, e l’abbiamo subito dimenticato. Ora resta solo la repressione. Bene. Fatelo pure, si passa facilmente all’incasso con la repressione. Sono voti sicuri. Ma non fingiamo di non sapere che non servirà a nulla.

(precedentemente pubblicato su La Repubblica il 27 novembre 2024)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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