Wirz
di Maria La Tela
Quando fu il nostro turno ci alzammo da terra. Eravamo rimasti seduti a guardare le ragazze che ballavano con le magliette arrotolate sotto l’elastico del reggiseno per scoprire l’ombelico. Wirz le aveva costrette a fare pegno perché avevano perso contro di noi in una gara a chi riconosceva prima le canzoni dagli attacchi: dovevano ballare dieci minuti con la pancia scoperta e poi sopportarci mentre pogavamo intorno a loro. Wirz fece partire Blitzkrieg Bop, le pareti del seminterrato iniziarono a tremare, la musica ci venne addosso facendoci vibrare dentro; cominciammo a spingere con le braccia piegate e i gomiti attaccati alle costole. All’inizio ci pareva troppo buttarci sulle ragazze, allora inchiodavamo la suola di gomma al pavimento un attimo prima di toccarle; Wirz cominciò a dare di matto, se ci vedeva fermi ci urlava contro e le ragazze, per sfotterci, presero a colpirci spingendo più forte di noi. In quei momenti era un attimo farsi male, nessuno controllava più niente, contava solo fare più delle ragazze, più dei compagni, più di Wirz che con i capelli incollati sulle tempie per il sudore, aveva staccato la catenella che portava a un passante dei jeans, se l’era avvolta intorno a un pugno e colpiva a caso nella mischia ogni volta che arrivava il Let’s go! A terra ci finimmo in quattro, io andai sotto, ero vinto dalle spinte e asfissiato dai corpi degli altri. Nessuno si accorgerà che perdo i sensi, pensai chiudendo gli occhi; immaginai di guardare dal cortile la porta azzurra del seminterrato, di avvicinarmi alla maniglia e di leggere lì accanto la vu doppia di Wirz scritta con il pennarello nero indelebile; immaginai, infine, di morire.
Arrivasti che mi ero ripreso da poco. Hai bevuto? Mi domandasti all’orecchio. Sono caduto e basta. Andiamo. Ti tirai via per un braccio. Wirz ci fissava appoggiato a uno dei lampioni del cortile, era stato lui a farti chiamare; lo salutasti alzando il mento e ci avviammo verso il motorino. Ti stavo seduto dietro con le mani in tasca, mi nauseava la puzza di tabacco che arrivava dal tuo giubbotto e non sopportavo la posizione di traverso che assumevi guidando. Faccio l’uomo libero! Dicesti a nostro padre una volta che ti chiese che facessi tutto il giorno fuori casa; cinque dita ti prendesti.
Un tempo eravamo uguali in tutto e ci era diventato familiare il modo stupito, divertito anche, in cui le persone fissano i gemelli, ormai era un assunto senza domande né risposte. Quando in seguito prese forma in noi una coscienza più complessa delle cose del mondo e del nostro aspetto, quegli stessi sguardi cominciarono a stringerci lo stomaco, ne odiavamo l’insistenza, fummo ossessionati dal mettere in atto una reciproca diversità che ci distinguesse. Fu allora che Wirz, come un liquido, aveva cominciato a riempire quella distanza acerba; si era fatto fiume e noi sponde. Iniziasti a raccontare dei tuoi sogni, parlavi di continuo di sconosciuti, di case vuote, ma non era quello a preoccupare nostra madre che tenendoti il mento perché la guardassi, ti ripeteva che molti ragazzi facevano incubi; quello che la impensieriva, confidò in uno sfogo a nostro padre, erano i tuoi racconti di animali deformi che ti agitavano al punto di non farti pronunciare bene le parole, mentre la paura ti impastava la faccia. Lui la stava a sentire senza slancio, una volta a tavola disse di punto in bianco di non aver mai fatto sogni come i tuoi e senza neppure chiedermelo, aggiunse con sicurezza che neanche io li facevo. Avrei voluto dargli torto, ma diceva il vero, in te c’era qualcosa che non andava.
Quella fu l’estate in cui il cibo ti divenne nemico. Davanti a un piatto ti scorrevano nello sguardo contrattazioni che finivano quasi sempre per farti scegliere solo il pezzo di una parte di pietanza, già piccola di per sé. Trascorrevi i pomeriggi fuori casa, avevi conosciuto Wirz qualche tempo prima, ti ci aveva portato un amico che doveva prendere del fumo. Era stato semplice parlare con lui, mi confidasti; pensai che se c’era una cosa che Wirz con tutta probabilità conosceva meglio di quello che vendeva, erano le persone fragili. È uno che si mette lì e ti ascolta, dicesti una notte che venni a sedermi sul tuo letto perché ti era venuta la tachicardia dopo aver fumato.
Che vi dite? Domandai provando una rabbia feroce.
Gli parlo dei sogni.
Si è accorto che non mangi? Ti ha detto qualcosa?
Tra noi, non è Wirz che mi chiede, sono io che voglio raccontare.
Chissà se avevi scelto apposta per impressionarmi le parole tra noi. Le differenze che avevamo costruito mi furono più evidenti e non si trattava ormai del peso dei nostri corpi, né del taglio di capelli, della musica o del nostro modo di vestire; era cambiato il volume emotivo che ero stato per te fino ad allora. Non so dire se fu perché in quel momento ti sembrai vulnerabile come lo eri tu, ma trovasti il coraggio di dirmi che c’era stato un bacio tra te e Wirz; dovette essere per via dell’oscurità che le tue dita mi sembrarono tremolanti come i contorni di tutte le cose sotto la pioggia. Mi resi conto che ti eri esposto con l’incoscienza dei puri, ti amai di più, ma non seppi trovare parole importanti da dirti, desiderai solo che tornassimo per un po’ a quelle voci bambine che ci chiedevano di continuo se l’altro provasse dolore quando uno dei due si faceva male; sembrava un tempo insopportabile, invece avremmo potuto riderne. C’erano adesso, oggi, i sogni spaventosi e la roba di Wirz; dei primi non capivo molto, li consideravo una conseguenza del tuo carattere introverso, ma della roba volevo farmi un’idea più chiara da vicino. Non fu difficile entrare due settimane dopo alla festa nel seminterrato, un terzo della mia classe ci andava. Wirz, in piedi dietro la console in fondo allo stanzone, spostò una delle cuffie da un orecchio quando il mio amico andò a parlargli; ci fissammo, guardai la bocca che aveva toccato la tua. Si rimise la cuffia e abbassò la testa, come se decidesse, poi alzò un braccio e mi fece segno di entrare. La seconda e unica volta che incrociammo gli occhi dopo quella, fu quando mi ripresi in cortile dopo essere svenuto, ma Wirz non aveva bisogno di essere fisicamente vicino agli altri per esercitare il suo potere, mi indusse in qualche modo a credere che mi osservasse di nascosto e questo mi portò a guardare lui tutto il tempo; ero sicuro che lo sapesse. A te non erano mai piaciute feste come quelle, ma anche se non vi prendevi parte, non potevo sapere cosa fosse capace di farsene Wirz, il resto del tempo, di quella tua sprovveduta malinconia che offrivi inconsapevole a chiunque; ogni volta che mi attraversava quel pensiero, sentivo scurirsi dentro qualunque riflesso di lucidità. Passarono dei mesi, trascorrevi molto tempo in compagnia di Wirz; una notte non rincasasti, intorno alle quattro del mattino venni a cercarti con nostro padre, lo obbligai a restare in macchina quando arrivammo nei pressi dello scantinato che, da vigliacco, avevo lasciato come ultimo posto in cui guardare. Mi avvicinai alla porta azzurra, bussai e mi parve di sentire quasi subito l’avvicinarsi di alcuni passi dall’interno.
Wirz! Lui è lì? Chiesi asciutto. I passi si allontanarono per tornare di nuovo poco dopo. Mi apristi tu, indossavi solo i tuoi pantaloni troppo larghi, ti avrei picchiato perché non riuscivi neanche a muovere la bocca mentre te ne stavi con le dita strette alla maniglia della porta e gli occhi maledetti dello schifo che ti eri preso. Ti strinsi entrambe le guance con una sola mano.
Ce la fai a rivestirti? Se entro, non lo so che succede, devi uscire tu. Mi guardavi. E ancora, mi guardavi senza rispondere. Credetti d’impazzire, ti diedi un buffetto sulla guancia con la punta delle dita strette; sentii vivido l’osso sotto il tuo zigomo. Nostro padre è qui fuori, gli dico che hai bevuto. Esci da lì!
Tornasti dentro, accostai la porta per mettere qualcosa tra voi e me. In macchina nessuno disse niente, una volta a casa nostro padre si rimise a letto, non era in grado di guardarti, di guardare la tua magrezza, la rinuncia nei tuoi gesti, non sopportava la vista del suo sangue guasto; forse ero io, più di lui, a non sopportare tutto quello. Trovammo nostra madre in cucina che mangiava noci, gli occhi sfiniti dal pianto, uno dei tanti a cui nel tempo aveva fatto in modo non assistessimo; schiacciava i gusci mentre tutto intorno era silenzio. Ti avvicinasti a lei. Ti piacciono? Biascicasti con la schiena curva, appoggiando con naturalezza un fianco al tavolo come se la tua vita fosse fatta di blocchi, di segmenti autosufficienti che ti permettevano di mantenere intatto un candore privato di qualunque precedente disagio. Sì. Rispose lei semplicemente, alzando lo sguardo. Se avesse detto ancora una parola non avrebbe più controllato il tremito del mento. Le desti un bacio sulla testa e andasti a dormire strusciando i pantaloni sotto le scarpe. Nostra madre seppe allora, prima di tutti, che presto non saresti stato più con noi; non volle tornare a letto, il suo era un ultimo tentativo di fermare il tempo. Mi sedetti di fronte a lei, avevamo bisogno di restare così, in silenzio, a pensarti. Ogni volta che oggi accarezzo qualcuno, sento ancora quel tuo piccolo osso sotto le dita.
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Immagine: Karolina Grabowska.