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Essere attento, essere redento. Su un’idea di Simone Weil

 

di Neil Novello

Dalle pagine di Attenzione e preghiera di Simone Weil (Meltemi, 2024, trad. Marco Dotti), un volumetto in cui sono raccolti tre brevi saggi e un’esegesi al Pater, il lettore eredita l’immagine di un pensiero aperto. E anche qualcosa di più. Una tensione meditante che procede per scavi e sconfinamenti, accanitamente applicata a uno spazio intellettuale inesplorato, e per sua stessa natura uno spazio forse inesplorabile.

Essais sur la notion de lecture, scritto nella primavera del 1941 e pubblicato postumo su Les Études philosophiques all’inizio del 1946, interpreta la «nozione» di «lettura» da un luogo speculativo in apparenza depistante, idealmente avulso da un razionale perimetro culturale. Quando Simone Weil parla di «lettura», il libro quale referente oggettivo di una tale esperienza figura quasi come un pretesto. Anzitutto perché la «nozione» di cui si riferisce non interroga soltanto l’esperienza di un uomo dinanzi a un libro, un lettore che legge. Ciò perché l’idea di «lettura» pensata da Simone Weil, figurando come un «mistero», esprime una concezione originaria non meramente oggettuale ma indeterminata, qualcosa che va proiettata oltre l’esperienza del leggere un libro e addirittura oltre il referente, nello spazio di senso della metafisica. Né il pensiero di Simone Weil riguarda l’immaginario del lettore, semmai la sua speculazione si interroga sulla causa originaria, sul luogo di fondazione della formazione immaginaria.

Leggiamo una lettera in cui si annuncia un lutto. Dall’esperienza di lettura si forma un immaginario doloroso. Dalla lettera emana cioè e si concretizza la “realtà” del nostro patimento: «Tutto avviene come se il dolore risiedesse nella lettera e dalla lettera saltasse sul volto di chi legge». La lettura dunque libera una potenza annientante. Fino ad allora essa rimaneva confinata al di là del lettore, chiusa in una dormiente latenza. Ma tale potenza si manifesta, fa la sua irruzione proprio nell’atto di lettura. E ciò perché furiosamente migra in direzione del lettore provenendo da un fuori occulto e radicale. Perché il «dolore», quando giunge, sembra venga da un altro mondo, con la sua carica di enigma e perdizione. Venendo, il dolore diviene umano: a portarlo è la scrittura.

La lettera, il libro, la scrittura in Simone Weil esprimono anche un’altra idea. Identificano una metafora attraverso cui si riferisce della realtà, della forma della realtà quando essa accade, nel momento in cui si fa epifania per “letteratura”. Così, da una «combinazione di segni», la scrittura si rigenera in altro, metamorfosa in un inatteso risveglio ontologico qualcosa di misterioso che permea la pagina scritta e «afferra la mia anima». Perché, confessa Simone Weil, accade l’imponderabile, qualcosa di «irresistibile penetra il significato che ferisce». La «lettura» riguarda dunque l’esperienza mediata di un libro-mondo, il vissuto spirituale di un luogo da cui emana un fatale «tessuto di significati». Esso espone al contempo uno spazio di dolore ed uno, più generale, di «valore». È dinanzi a tale «valore» che il pensiero di Simone Weil, senza mai esplicitarne la cognizione, allude a un risvolto etico. Anzi sembra assumere una vera e propria valenza etica. Leggere il mondo attraverso la scrittura, poiché la lettura rivela una heideggeriana disponibilità all’accoglienza, testimonia l’esistenza di una tensione fàtica tra il lettore, l’uomo che legge il libro-mondo, e la stessa scrittura che viene all’uomo. È quel che ritorna o può fare ritorno alla domanda originaria. In altre parole, è l’intrinseca e muta interrogazione di chi compie un atto di lettura, qualcosa che si esaurisce in una compiutezza radicale, per porsi dunque entro un consapevole e paziente orizzonte di attesa.

Con il titolo Réflexions sur le bon usage des études scolaires de l’amour de Dieu del 1942, già ricompreso nel postumo L’attesa di Dio, Simone Weil ripropone il medesimo problema discusso nell’Essais del 1941. Leggere un libro (esperire la scrittura), leggere la realtà del mondo (i segni) richiama sempre una disponibilità. Essa annuncia la presenza, potente e latente, di un’etica in atto, un’assoluta disponibilità etica all’attesa. Leggere il disegno del mondo, cogliere il suo tratto esemplare, accogliere dunque la sua emanazione, equivale al compito svolto dall’«attenzione» nell’esperienza della «preghiera». Per Simone Weil, l’«attenzione» è una facoltà umana, certamente una dote, anche qualcosa di esercitabile. E il suo prediletto luogo di apprendistato, in linea con la tradizione pedagogica, riguarda gli «esercizi scolastici», il momento educativo in cui l’individuo si forma svolgendo un compito, un tema. Anche qui riconosciamo l’esperienza di lettura del problema e la ricerca della soluzione, l’esperienza cioè di uno svolgimento didattico che per Simone Weil è equiparabile a un dispiegamento spirituale. Esso testimonia il cammino stesso dell’intelligenza e dell’anima nella realtà del mondo. Se dunque qui matura un «progresso spirituale», si realizza anche una metamorfosi interiore. Essa matura in uno spazio intellettuale, l’ideale spazio di pensiero esistente tra l’estremo del quesito originario e l’estremo della sua risoluzione finale. La cognizione di «fede» in Simone Weil cammina lungo una tale traiettoria. In essa si certifica la presenza, l’azione pulsionale del «desiderio». Ed è proprio il desiderio ad assumere una funzione cruciale, perché esso ammette e impone all’uomo di stare in un campo di «attenzione». In altre parole, il desiderio guida l’anima alla preliminare condizione per la «preghiera». Qui risiede il fondamento spirituale dell’applicazione, appunto l’esercizio scolastico, la prova didattica come chiave dello sviluppo spirituale:

   Dobbiamo quindi studiare senza alcun desiderio di ottenere buoni voti, di riuscire negli esami, di ottenere qualsiasi risultato accademico, senza alcun riguardo per i gusti o le attitudini naturali, applicandoci ugualmente a tutti gli esercizi, pensando che tutti servono a formare quell’attenzione che è la sostanza della preghiera.      

   Per pregare Dio bisogna leggerlo attraverso il desiderio. E leggere Dio, desiderarlo tramite l’attenzione della preghiera, «costringe Dio a scendere». Come il mondo, la realtà viene al lettore, si epifanizza, così Dio viene al pregante attento. La lettura e la preghiera, il pensiero leggente e il pensiero pregante, sono dunque atti di una medesima attesa dell’alterità. Un’attesa, anzi una domanda che si pone in attesa e che dell’attendere fa la ragione stessa del vivere in preghiera. Ciò perché leggendo e pregando lo spirituale è e insieme diviene, si dichiara cioè capace di compiere una sosta temporale estrema. Qui si consuma un’esperienza ontologica, la caduta in un tempo indeterminabile in cui l’essere è «pronto a ricevere nella sua nuda verità l’oggetto che lo penetrerà». La libera disponibilità è dunque una precondizione, perché chi attende attende la stessa attesa, una specie di kairòs, la venuta cioè dell’atteso. La preghiera domanda l’attenzione e l’attenzione è una domanda rivolta anzitutto a sé stessi: è una ricerca di “accanto”.

La preghiera di Simone Weil è il Pater. La pensatrice lo traduce dalla lingua greca già nell’autunno 1941, quando è ospite del filosofo-contadino Gustave Thibon. Ricompreso anch’esso nel postumo L’attesa di Dio, À propos du Pater conduce a compimento il discorso teologico entrando direttamente nello spirito della preghiera. Simone Weil libera quindi la sentina filosofica verso l’unico possibile oggetto di desiderio. Il suo Pater è un commento, un’acuta esegesi del testo, e dunque della cognizione stessa di «preghiera». E anche una continua, imperterrita domanda a Dio, una domanda che una volta pregata esaurisce il proprio compito ponendosi appunto in attesa dell’atteso.

Attenzione e preghiera, se si eccettuano i versi di Love di George Herbert, per Simone Weil la «più bella poesia del mondo» ed essa stessa preghiera in versi, si chiude con l’Autobiographie spirituelle. È una lettera del 1942, rifluita anch’essa nell’Attesa di Dio, che la pensatrice invia al domenicano Joseph-Marie Perrin, il suo padre spirituale. La prima parola della lettera è «Padre». Scrivendo appunto a padre Perrin, Simone Weil ritorna al grande tema dell’«attesa» del Padre celeste, anzitutto per fissare la maturità dell’autoconsapevolezza spirituale. Sia l’attenzione pregante sia la preghiera espongono la pensatrice dinanzi a un limite estremo, radicale. Esse non esibiscono una domanda a Dio, al grande atteso, perché l’atto di preghiera non implica mai la volontà di «cercare» Dio. L’essenza del Padre sta in una formula: Dio solamente viene. Simone Weil confessa allora a padre Perrin che all’uomo, quale sua silente facoltà, è richiesto il risveglio dell’«attenzione». Qui potrebbe avere inizio ciò che definiamo l’umano. Scrive Simone Weil: «quando si desidera pane non si ricevono pietre». Desiderare è dunque un atto di preghiera proprio dell’umano. Un atto che si esprima attraverso il Pater o attraverso la stessa Love di Herbert dà come esito spirituale una sorta di miracolo ontologico.

A padre Perrin, Simone Weil confessa che per mezzo della «preghiera» poetica Love «Cristo stesso è sceso e mi ha presa». Dalla preghiera in versi sortisce dunque l’effetto del desiderio. Essa viene come esito di uno stato, di una condizione umana, e così «costringe Dio a scendere», come si legge nelle Réflexions. Ma la preghiera del Pater, da Simone Weil recitata con «attenzione assoluta», con umanità radicale, gli aspri e faticosi giorni della vendemmia presso la vigna di Gustave Thibon, contrassegna anche il limite della sua fede desiderante, il limite estremo e insuperato della sua religiosità. Dinanzi a padre Perrin, la pensatrice confessa l’esistenza di un’essenza innominabile, un confine insuperabile, la rappresentazione stessa di un mito resistente. È la qualità per così dire relativa dell’umano, una relatività che inibisce la pienezza di un atto spirituale veramente liberato verso il cielo, quell’attenzione pregante, disponibile a un’attesa che può essere anche infinita.

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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