Insetti
di Bruno Barbera
La prima volta che ho incontrato gli insetti è stato mentre facevo la doccia. Mi stavo massaggiando la testa con lo shampoo quando ho sentito, in corrispondenza della tempia destra, un punto cedevole. Istintivamente ho fatto pressione con due dita e nel mio cranio si è formata un’apertura. Ben presto ne è fuoriuscito qualcosa che, non appena entrato nel mio campo visivo, si è rivelato essere un lungo centopiedi. Sono stato talmente colto di sorpresa che non sono riuscito nemmeno a chiedergli che cosa ci facesse là dentro. Ma forse lui avrebbe avuto la stessa domanda per me, che cosa ci fai là fuori. O magari mi avrebbe consigliato una marca di shampoo migliore. Invece siamo rimasti lì a fissarci per un po’. Era un reciproco annusamento, forse i prodromi, chissà, di un’amicizia.
Oggi gioco a biliardo con Domenico. Il biliardo è un gioco di precisione e di pazienza. Io non ho nessuna delle due. Più di tutto non ho il senso di aderenza alla realtà. Un dilettante dovrebbe colpire piano, limitarsi ad avvicinare le palle alle buche, sequenzialmente, per poi chiudere colpi facili. Io invece non ci sto. La drammatica realtà del panno verde non mi va giù. Sogno di essere un grande giocatore e così sparo a tutta forza dei tiri che inevitabilmente finiscono con le palle che saltano nella stratosfera, poi ricadono distruggendo oggetti e ferendo persone. Il proprietario del biliardo è contrariato. Io e Domenico beviamo birra per rinfrancarci, o meglio per rinfrancarmi, e conversiamo del più e del meno. Il più e il meno, questa è la ricca eredità di questi tempi, o forse di ogni tempo. O magari sono insofferente alle nostre leggi anche al di fuori del panno verde. Così mi si può vedere sorseggiare impassibile a labbra serrate, mentre al mio interno proiettano un documentario pieno di cascate e voragini. Vorrei dire o che mi venisse detto qualcosa che abbia un senso, ma le parole mi sembrano logore e svuotate come sacchi di juta flosci.
Ho incontrato la mantide religiosa tornando a casa dal lavoro. Una giornata come le altre, quando rifletti da vicino sulla lontananza di una vocazione. L’ho trovata seduta sul divano del salotto, con le zampe poggiate sul pouf. Guardava La pupa e il secchione e divorava i miei plum cake. Glieli avrei dati volentieri, solo avrei preferito che me lo avesse chiesto prima. Comunque non ho obiettato niente e mi sono messo sul divano anch’io a guardare la tv. Ben presto ci siamo ritrovati a sghignazzare come due ebeti, accalorati dal Verbo di quella divinità semovente che è Enrico Papi. Dallo schermo sembrava provenire un soffio di eternità, una confortante garanzia di come andranno le cose da qui sino alla fine dei tempi.
Oggi vedo la mia fidanzata Anna, a Porta di Roma. Il centro commerciale ha sempre il solito effetto: ripugnante e al tempo stesso irresistibile, come un incidente autostradale. Provo a concentrarmi su Anna e penso che ha dei bellissimi capelli biondi lunghi e lisci da ragazza. Sono talmente belli che qualche volta, scioccamente, sento che li vorrei avere anche io. Chissà come dev’essere il mondo visto da dietro una sottile coltre di capelli biondi femminili. Probabilmente sanguinoso, ma un po’ più romantico. Anna fa un sacco di cose con l’entusiasmo di un bambino davanti alla sua collezione di palline rimbalzine. Gli eventi della vita di Anna sono tondi, sodi, hanno colori sgargianti, e schizzano da una parte all’altra con traiettorie spettacolari e sorprendenti. Non c’è da meravigliarsi se faccio fatica a stare dietro al suo ritmo. Credo che ogni tanto lei rallenti leggermente, di proposito, per farmi mandare giù il boccone più facilmente. Mi racconta le sue giornate con un tono didascalico, cantilenante. Io mi sforzo di afferrare il nocciolo delle sue funamboliche parabole, di trovare un minimo comun denominatore, magari una morale, ma devo dire che il boccone resta amaro, e credo che lei a sua volta se ne accorga, e i suoi lineamenti allora mi sembrano un mosaico di dubbi.
In cucina ho conosciuto la cavalletta: era molto carina con quelle ali adorabili, e mi ha chiesto se volessi cenare con lei. Aveva preparato un risotto di quelli in busta. Non se la cavava mica tanto meglio di me ai fornelli, e questo mi aveva fatto sorridere. Aveva aggiunto al risotto allo zafferano del guanciale. Il suo tocco di creatività, diceva. Devo dire che il risultato non era malvagio. Sono tempi duri, riflettevo masticando metodicamente, tempi in cui si può finire per cercare rifugio persino in un risotto in busta preparato da una cavalletta.
Il dottor Rutelini dice che presto le visioni svaniranno. Il perturbante sarà solo un ricordo. Devo semplicemente seguire le sue rigorose indicazioni, figlie di un’esperienza decennale in questo campo. Abbiamo i migliori strumenti, afferma perentorio il dottore: sarà sufficiente allinearli con i suoi migliori propositi. Così sia, penso, mentre mi crogiolo nelle sfumature sonore del suo eloquio. Trovo rassicurante il rumore sfrigolante della sua voce. Rassicurante e professionale. Ho piena fiducia nel dottor Rutelini, piena fiducia che le cose andranno meglio.
Quando la sera prendo i farmaci, mi viene sempre il dubbio di averli già presi poco prima. Allora controllo i foglietti illustrativi a proposito di un eventuale sovradosaggio: la risposta è abbastanza chiara, morte.
Morte per il primo farmaco, morte per il secondo e per il terzo. Morte moltiplicata per tre, dovrebbe fare sempre morte, un po’ come per l’infinito. O forse sarebbe una morte ancora più spettacolare.
Domenico è il mio amico fraterno. È una spugna imbevuta di latte e buone intenzioni. Assapora la vita filtrandola dalle gengive, che sono di un rosa imperturbabile. Niente può incrinare il suo silenzio accondiscendente. Non i bambini affetti da leucemia, non i ragazzi con la malattia del motoneurone. O i medici che non fanno la ricevuta. Io mi inviperisco sempre quando i medici non fanno la ricevuta. Forse è per questo che con Domenico, ultimamente, abbiamo sempre più difficoltà nel rapporto, prima ancora che per i bambini affetti da leucemia. Forse i medici fanno sempre meno ricevute, forse io sono diventato più suscettibile a queste cose, forse la fede di Domenico nelle umane sorti diventa sempre più incrollabile con il passare degli anni. È curioso osservare i risvolti della sua attitudine laica: per un credente il gioco è facile, fa tutto parte di un piano e la vita eterna compenserà ogni cosa, ma un senzadio come lui come fa a guardare in faccia i terremoti e uomini fontane di sangue che zampilla e colora il cielo, senza mai avere niente da ridire? La sua opposizione all’alternativa che la non-esistenza rappresenta è solo biologica ritrosia, meccanica idiosincrasia: non ci sono fondamenta logiche nel suo pensiero virtuoso, e ho il sospetto che non potranno esserci mai.
Quando la cavalletta era più giovane, usciva spesso di casa. Andava nel quartiere Monti, un luogo così deliziosamente levigato, mi dice; e osservava, con sguardo da entomologo al contrario, i giovani trentenni. Trentenni come me, solo incuranti della fine del mondo. Li guardava infatti parlarsi strabuzzando gli occhi perché a quanto pare un datore di lavoro chiede sempre degli straordinari che poi puntualmente non vengono pagati e allora gli occhi diventano due palloni e la bocca si contrae in una smorfia di sdegno e qualcuno tuona MA COME È POSSIBILE?, perché c’è sempre qualcosa di pazzesco nella vita, buono o cattivo che sia, non importa, mi testimonia la cavalletta, l’importante è che sia ASSURDO TI DICO, sono andato a comprare un soprammobile da mettere in salotto ed era PAZZESCO il fatto che la metro fosse inagibile perché NON È POSSIBILE, è un disservizio continuo, questa città è un degrado, però alla fine il soprammobile era PAZZESCO anche lui e quindi va bene, e l’ho pagato un’inezia, un po’ come le piastrelle del bagno, ogni cosa è PAZZESCA e ASSURDA e NON È POSSIBILE, ogni cosa tranne, a quanto pare, il fatto che tutto si distruggerà, la metro, il soprammobile, il datore di lavoro, le piastrelle, e non ne rimarrà nemmeno una fine sabbiolina, e su questo io e la cavalletta siamo pienamente d’accordo. Mangiamo la nostra cena in perfetta sintonia, il tavolo appena illuminato dalla luce fioca e intermittente del lampadario, la cui lampadina malfunzionante forse non mi deciderò mai a cambiare.
La terapia del dottor Rutelini è radicale. Il dottor Rutelini è radicale, e promette risultati radicali. Conto le scatole di farmaci, le scruto, poi le svuoto e maneggio i mucchi di compresse, disegno delle scritte, per esempio S O S, poi impilo le pilloline una a una, faccio delle torri e sto a vedere quanto tempo reggono prima di crollare. È il mio diletto personale, la manifestazione della mia aderenza giocosa e granitica alla ferma dottrina del dottor Rutelini.
Anna è qui davanti a me insieme alle sue perplessità, che devono essersi gonfiate con il tempo, come sotto l’effetto di una fermentazione chimica.
A ben vedere le parole che mi riserva ora, borbottate a mezza bocca, sono figlie dei suoi pensieri i quali a loro volta scaturiscono proprio da processi chimici che avvengono nella sua scatola cranica, sotto quei meravigliosi capelli. Tutto torna. E la mia scatola cranica?, vorrei dirle. Scatola nera che può solo immagazzinare informazioni, in attesa dell’incidente.
Ha il volto pallido e contratto; il sangue tutto al cervello intento a costruire e demolire edifici mentali.
Anna… è quello che riesco a dire, come misera replica al suo sguardo pacatamente furente.
Non riesco ad assumere alcun tipo di atteggiamento, figuriamoci un atteggiamento coerente con la situazione.
Non ricordo più bene cosa ho fatto o cosa non ho fatto per meritarmi i suoi occhi fiammeggianti, ma qualcosa deve pur esserci stato, e comunque immagino che ormai non abbia più importanza.
Intanto continua a fissarmi, sobbollendo, a braccia conserte.
Quando la mia prima ragazza, dopo ben due mesi e mezzo di una straordinaria relazione, venne carinamente sotto casa mia per dirmi che mi lasciava, io assunsi presto proprio quel tipo di postura (allora sì che ero ancora capace di rappresentare l’incarnazione di uno stato d’animo).
Lei, che faceva teatro, e di queste cose ne sapeva a pacchi, si indispettì:
Ecco, guarda il tuo linguaggio del corpo! Manifesta chiusura!
E che cos’altro dovrei manifestare?, avrei voluto dirle. Altri tempi, però.
Ora c’è solo Anna in lievitazione, e ho il presentimento che presto non ci sarà più nemmeno questo.
Il centopiedi mi ha confidato di aver abitato la testa di un’altra persona, prima di me; un diciannovenne studente universitario, di economia per la precisione. Ne aveva assaggiato gli umori dell’encefalo, ne aveva tastato il polso mentale. La mattinata cominciava sempre con un vago senso di costrizione alle vie respiratorie, come se l’organismo, da brava macchina biologica qual è, si rifiutasse di compiere uno sforzo, o un lavoro, per il quale non sente di essere stato progettato, realizzato e nemmeno testato a dovere. Poco dopo, quando s’incamminava con la sua macchina non biologica lungo la via predefinita che lo aspettava con pazienza al mattino, le curve della strada gli davano l’impressione di sorrisi ironici che dicono “tanto lo sapevo che saresti passato di qui”. Quando il percorso porta sempre nello stesso posto, rimuginava il giovane, non c’è più spazio per la conoscenza e la sensazione, è tutto un meccanico ripetersi di movimenti e pensieri standardizzati; la via di fuga nell’abisso, o perlomeno sull’orlo dell’abisso, è invece vettore di un’emozione molto più potente.
La Nomentana comincia all’incirca nel cuore della città, narra il centopiedi, pulsante di traffico e di vita, ammesso che la si possa definire vita, mentre sul traffico proprio non c’è dubbio. Mano a mano che si procede verso il Raccordo, però, le quattro frenetiche corsie vengono inglobate in due, gli incroci rigurgitanti automobili cominciano a diminuire, i palazzi si diradano per lasciare spazio a una vegetazione che selvaggia in senso assoluto non è, ma sicuramente più dei tipici scenari cittadini a base di cemento e smog, brulicanti di persone.
Quanto sia difficile muoversi lungo il confine senza precipitare nel baratro è arduo da stabilire per un semplice studente universitario: probabilmente il verificarsi della caduta dipende dalla propensione del soggetto, dal suo coraggio o dalla sua incoscienza, a seconda dei punti di vista.
Poi lo studente, dal percorrere la Nomentana in senso centrifugo, si ritrovava ad abbandonarsi alle molteplici stradine che la tagliano, vagando senza meta, con traiettorie ripetitive, simil-circolari, all’interno di un qualche quartiere di periferia, che poteva essere San Basilio come un qualunque spazio remoto e orrido all’interno della sua mente.
Ho fatto un sogno. Giacevo su un letto di schegge di vetro, che si combinavano con le mie ossa in un incastro sferragliante. Sentivo le mie cartilagini articolari consumate, non offrire più alcun sollievo. Poi di colpo ero steso dentro al cuore di un ghiacciaio, sotto una coperta bucata. Da quel foro vedevo chiare, davanti a me, le lettere del mio nome, colorate di un rosso acceso, lampeggianti, come una spia che segnala estinzione. Alla fine mi trovavo al di sotto di un’enorme massa di acqua limpida, un oceano appeso sulla testa; e alzando la testa, in quell’oceano potevo stare a guardare il mio riflesso nitido esalare i suoi ultimi respiri.
Ma poi mi sono svegliato, con la consapevolezza che le cose andranno meglio, che mi proviene dal dottor Rutelini.
I miei colleghi di lavoro sono sempre stati simpatici. Ma è quella simpatia del tipo «se non fossi costretto ad avere a che fare con te quotidianamente non ti cagherei di striscio». Lo si può scorgere nello sguardo apparentemente impenetrabile di chi ti chiede di fare delle fotocopie. Lo si può scorgere nell’impercettibile incresparsi delle loro labbra quando dici una cosa di cui non sei sicuro. Lo si può scorgere nel modo autorevole con cui appallottolano un foglio di carta e lo buttano nel cestino accanto alla tua scrivania. Se li aveste conosciuti lo avreste pensato anche voi. O forse no. Forse sono solo scherzi della mia mente. D’altra parte, è con la mia mente che devo fare i conti; e i suoi scherzi possono essere molto più reali di qualsiasi verità sia scritta su un qualsiasi libro di scienza.
Così magari è stata solo una mia impressione, ma non hanno fatto una piega quando ho detto che mi licenziavo. In un certo senso, sembrava che se l’aspettassero. Il lavoro non era poi nemmeno terribile, ma so quello che lascio, e tanto mi basta.
La mantide mi ha raccontato di un uomo che aveva conosciuto a Villa Doria Pamphili. Nei suoi racconti la villa è certamente più selvaggia di quanto pensassi. Era un mercoledì mattina come tanti, un giorno lavorativo per tanti, che aveva svuotato questo ampio angolo di verde quanto basta per immaginarlo come il porto definitivo, rampa di lancio per arrivare oltre e ultimo punto di contatto con tutto quello che va lasciato alle spalle. L’uomo quel giorno a lavorare non ci era andato, aveva fatto sega come ai tempi della scuola. Era un cinquantenne con una vita minuziosamente e faticosamente costruita ma mai desiderata davvero, una nostalgia cronica e soffocante, un viso cupo reso ancora più ombroso dalla coppola calata sulla testa.
Sono quasi sicuro, le aveva detto lui a un certo punto, che se mi incammino verso laggiù, dove la vegetazione s’infittisce e dove non arriva più nemmeno l’eco di quello che è stato, è, e sarebbe potuto essere, sono sicuro, sì, che passo dopo passo perderò automaticamente e progressivamente di sostanza, di consistenza, fino a scomparire del tutto senza emettere alcun suono, neanche un sussulto, e senza provocare nessun mutamento sostanziale nel luogo che accoglie i miei passi, solo un momentaneo piegarsi degli steli d’erba che torneranno prontamente ad ergersi, cancellando ogni segno del passaggio, chiudendo ogni spiraglio di indagine, sancendo così definitivamente la compiuta transizione verso la fine dell’universo.
Così sono passati i mesi. Io e Anna abbiamo chiuso. Cioè, lei ha chiuso, io non sarei stato in grado di mettere in atto alcuna forma di risolutezza. Ad ogni modo, così è la vita. Domenico spugna è sparito: in effetti eravamo due rotaie che portano in spalla il mondo intero, come se fosse il loro treno: questa è comunicazione? Dai miei ex colleghi neanche un messaggio di saluto, proprio come previsto. I miei genitori erano già morti, e ho controllato al cimitero, non sono resuscitati. Ieri sera ci ho bevuto su, sopra tutto questo, insieme al centopiedi, alla mantide, alla cavalletta e al resto della compagnia. Avevamo della vodka alla pesca e dell’erba, ridevamo, per un attimo sembravamo tornati tutti quindicenni.
Oggi ho incontrato il dottor Rutelini, era molto soddisfatto. Ero sicuro, mi ha detto, sicuro che le cose avrebbero preso la piega giusta. Quando ho stretto con la mia mano la sua zampa di enorme scarabeo, ho provato un profondo senso di gratitudine.