Dente da latte

Foto di succo da Pixabay

di Valeria Zangaro

A vederla non sembrava avesse mal di denti, mal di gengive, mal di qualcosa insomma. Niente di gonfio, niente di rotto. Solo un dolore sottile e costante che dal naso arrivava fino all’orecchio, e certe volte si irradiava fin giù alla gola; un dolore diramato, senza un centro preciso, o con un centro ogni volta diverso: una chiostra che pulsava continuamente di dolore. A tutto questo si sommavano le raccomandazioni di lui, che ogni volta le diceva cose come “lavati meglio i denti”, “vai dal dentista”, in un modo come se il mal di denti fosse un impiccio. Le raccomandazioni diventavano perciò rimproveri per i capricci di lei, per i rifiuti di lei a curarsi: non mangiare dolci, non bere cose troppo calde o troppo fredde, cose tiepide, tutto doveva essere tiepido.

Poi era arrivata quella mattina là, in cui aveva sputato il dentifricio, tutto arrossato, e insieme al dentifricio pure il dente. Allora lei lo aveva preso, sporco di sangue, lo aveva guardato, lo aveva lavato sotto l’acqua corrente. Il dente non era neanche marcio. Era un dente, per la conoscenza che ne aveva lei, normale, se non fosse stato che gli mancava la radice, e che dentro era vuoto, o per meglio dire svuotato, smangiucchiato, corroso dall’interno. Una parvenza di dente, eppure tanto ingombrante. Solo in quel momento se ne rendeva conto, come se quella sua assenza ne avesse reso più evidente la presenza, per effetto della quale tutti gli altri denti soffrivano, si stringevano, si facevano piccoli.

Infilò l’indice in bocca alla ricerca del vuoto lasciato dal dente. Ci arrivò malamente. Ci arrivò bene, invece, con la punta della lingua. Aprì più che riuscì la bocca affinché dallo specchio potesse osservare la lingua raggiungere il buco tutto insanguinato e che si richiuse quasi subito però. La gengiva in un attimo era liscia, immacolata, priva di qualsiasi indizio in grado di confermare che lì un tempo c’era stato un dente. «Mi è caduto un dente» disse, e lo disse senza inciampi fonetici in virtù di una lingua che appariva ora più agile, più libera di muoversi. Lo disse, ma più tra sé e sé, perché lui nemmeno c’era, era già uscito per andare al lavoro e come al solito non aveva buttato la spazzatura. L’aveva dimenticato. Questa cosa di dimenticare succedeva tutte le volte che a lui non andava di fare una cosa. Dimenticava di fare il caffè, di apparecchiare, dimenticava tutto ciò che a lei piaceva e a lui no. E le cose che piacevano a lui, come la pizza o il mare, diventavano pure quelle che piacevano a lei, per contatto, per vicinanza.

Alla caduta del secondo dente fu inevitabile: accettò il consiglio di lui e prese appuntamento dal dentista. Il dentista la controllò ma non notò niente. Disse che quei vuoti esistevano da sempre. Impossibile, disse lei, non vedeva che c’era tutto quello spazio, che le mancavano i denti? Non lo metteva in dubbio, disse lui, ma dalle radiografie non risultavano radici. La sua chiostra, pur se particolare nella conformazione, era così e basta.

«E se mi cadono altri denti?» domandò.

«Questo dipende da lei.»

Non era sicura di aver capito cosa intendesse il dentista, ma fece finta di sì e se ne andò. Una volta a casa a lui non disse niente di quanto successo, disse invece ciò che lui voleva sentirsi dire: che andava tutto bene, cosicché il problema, l’impiccio, potesse considerarsi risolto. E che il problema fosse risolto se ne convinse pure lei: il dolore era scomparso improvvisamente e altrettanto improvvisamente i denti rimasti si erano fatti più larghi e sembravano stare più comodi.

Quando cadde il terzo dente erano a cena con i genitori di lui e a cena lui disse: «Abbiamo deciso che a Capodanno venite da noi.» Non lo avevano deciso, per la verità, ne avevano parlato, sì, ma lei aveva espresso, o almeno così credeva, il desiderio di passarlo in montagna il Capodanno, il desiderio, almeno una volta tanto, di fare qualcosa che piaceva a lei. E invece aveva deciso lui per entrambi e lo aveva fatto in quel momento lì, perché a lui non piaceva la montagna. Avrebbe voluto dirglielo: hai deciso senza di me, ma il dolore si risvegliò improvviso, uno sfrigolio sotto le gengive, proprio mentre diede un morso al trancio della pizza. Masticò l’impasto finché la lingua non riconobbe una durezza e una forma già sentite. Lui intanto le sorrideva e lei ricambiava, annuiva senza sapere perché. Doveva sputare il dente e lo doveva fare subito. Lo fece alla domanda di lui: «Cosa prepariamo per Capodanno?»; a quella domanda lei si alzò, mugugnò qualcosa di simile a un «arrivo subito» e corse in bagno. Prona davanti al cesso sputò impasto e dente. Scaricò, si sciacquò le mani e tornò.

Quest’abitudine di perdere i denti un po’ la spaventava e un po’, doveva ammetterlo, la incuriosiva perché a ogni caduta la lingua sembrava più libera di muoversi, di essere sé stessa. Perciò il quarto dente lo aspettò. Così pure il quinto. Il sesto invece lo cercò. Lo pescò dal fondo della bocca, raggiunse il più indeciso, mosse avanti e indietro, come faceva da piccola, finché quello non si staccò. Con dolore. Un dolore acido e dolce, pruriginoso. Col dentifricio che le imbrattava la bocca, si era guardata allo specchio: ora aveva un sorriso contornato da una barba di pasta e sangue, un sorriso sul punto di diventare vuoto. Avrebbe voluto dirglielo a lui questa cosa della sua bocca che stava cambiando. E lì nel bagno si chiese quali altre parti del corpo avrebbero preso a cambiare, cosa di lei non ci sarebbe stato più, e se di lei non ci sarebbe stato più niente in che modo poteva considerarsi ancora lei.

Forse lo avrebbe fatto, forse glielo avrebbe detto del cambiamento, se non fosse stato per quel suo modo irruento di bussare alla porta del bagno e soprattutto per quella domanda, non quella in cui aveva detto: «Mia madre vuole sapere se deve portare qualcosa per il Cenone di domani», ma per la seconda, fatta dopo che lei non aveva risposto: «Allora?». Ad «allora» il dolore dalla lingua raggiunse gli occhi, che fu costretta a chiudere. «Ci sei?» insistette lui. Certo che c’era, non c’era altro posto dove poteva essere, dove doveva essere. Non certamente dove voleva, e cioè in montagna, tra la neve che attutisce ogni cosa, attutisce la parole, pure il dolore. Fece un respiro profondo alla ricerca dell’ultima oasi di calma. «Sì» disse solo, e tanto bastò a rinvigorire il dolore. «Sì cosa? Deve port…» con le parole di lui che presero a sbiadire diventava più nitido il punto d’origine, la fonte del dolore. Lo cercò con la pinzetta. Aprì la bocca: arrivò dietro al canino e tirò con più forza di quella necessaria: in un niente il centro del dolore sparì. Ricomparve un attimo dopo, però, da un’altra parte, alla domanda di lui: «Ha detto mia madre: va bene se portano la sogliola?». La sogliola che lei odiava, perché pulirla era una faticaccia, bisognava tirarle via la pelle cocciuta, con l’indice che ravanava nella bocca del pesce, nelle branchie.

In basso a sinistra: tirò. Per sicurezza tirò pure quello a fianco e quello a fianco ancora, tirò quelli di sopra speculari, tirò finché non ci fu più niente da tirare e la sua lingua si prese tutto lo spazio che le era mancato. Controllò la chiostra: liscissima. Prese le forbicine, consumate come lo erano le parole tra lui e lei, consumate da tutte le volte in cui lei aveva detto a lui di non usarle, le forbicine, perché quelle forbicine appartenevano a lei e a lei soltanto. Usò la punta, ancora affilata, per lacerare la gengiva lungo la linea che un tempo ospitava i denti, ritti, sull’attenti, sempre pronti a dire sì a ogni comando, mai ribelli. Denti che in fondo non le appartenevano più, che non erano più lei. Lacerò la carne proprio per questo: per vedere cosa c’era sotto. Per vedere se anche dentro era corrosa, smangiucchiata, come lo erano i denti che non erano più denti suoi. Lacerò e non c’era dolore. Lei era già oltre. Il palato duro pendeva ora molle come una seconda lingua ma senza vita. Infilò il dito in bocca e tirò come faceva con la pelle della sogliola. Tirò via la pelle del viso, del collo; lungo le spalle, all’altezza delle clavicole, si aiutò con le forbicine. Tagliò lungo le braccia, sotto le ascelle, tutto fino ai piedi, finché non ci fu più niente della sua vecchia pelle. Asciugò il sangue rappreso su tutto il corpo e si guardò. Le mani, le braccia, la pancia, le gambe, c’era una pelle più chiara a rivestirle, una pelle che dava forma nuova al suo corpo. Pure la bocca, dapprima leggermente pronunciata verso il basso e in un perenne broncio, cambiò, ed espressioni nuove si sostituirono a espressioni vecchie. Con la lingua, che ora era diversa, sentì i denti nuovi farsi largo lungo la gengiva. Denti frastagliati e ribelli, più duri di quelli vecchi, pieni. Passò la lingua lungo questa chiostra di denti nuovi, come ad accarezzarli, ad accarezzare la ricrescita, e sorrise.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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