Il fascino indiscreto degli scacchi

di Maurizio Corrado

Cos’hanno in comune Dante, Leonardo da Vinci, Napoleone, Voltaire e Duchamp? Un gioco. Uno dei pochi giochi che da più di cinque secoli ha le stesse regole e che spesso porta alla follia o, al contrario, salva dalla follia. Un gioco di guerra che ha le sue origini probabilmente in India, passa dalla Persia e il mondo arabo per arrivare in Europa e dove ciò che conta è esclusivamente l’abilità del giocatore. Cos’hanno di così unico gli scacchi per affascinare una mente come quella di Duchamp e fargli abbandonare l’arte a trentasei anni? Per qualche mese mi sono dedicato a esplorare questo mondo dal punto di vista della letteratura. Questo è il mio racconto.

 

Partiamo da due romanzi che iniziano con stessa scena: in una stanza di albergo di un paesino del Portogallo, Alexander Alekhine viene trovato morto in poltrona con indosso un cappotto davanti a una scacchiera. Alekhine, il cui vero nome è Aleksandr Aleksandrovič Alechin, è un campione mondiale di scacchi russo naturalizzato francese, il suo rivale storico è José Raul Capablanca, campione cubano, chiamato il Don Giovanni degli scacchi. A lui è dedicato il romanzo di Fabio Stassi La rivincita di Capablanca che esce nel 2008 e ha quindi il primato del tempo rispetto all’altro. All’inizio vediamo i due, giovani scacchisti già noti, contendersi una bella dama scommettendo su chi dei due riuscirà per primo a infilarsi fra le sue lenzuola. Da questa sfida risulterà vincitore Capablanca ma perderà il duello al gioco e per il resto della vita aspetterà una rivincita che Alekhine, nel frattempo diventato il suo peggior nemico, non vorrà mai concedergli. Lettura leggera e scorrevole. Tutt’altra atmosfera si respira in Teoria delle ombre, di Paolo Maurensig, scrittore consumato e profondo conoscitore del gioco a cui ha dedicato già diversi romanzi di cui conoscevo La variante di Lünenburg che inizia sempre con un omicidio di uno scacchista. Nella Teoria troviamo una scrittura densa, piena di echi, dedicata a Alekhine, figura controversa per le sue connivenze naziste che Maurensig affronta magistralmente verso la fine del testo, senza concedere nulla a soluzioni scontate e proponendo un’approfondimento del personaggio ricco di abili sfumature.

 

Di sfumature e sottigliezze è maestro Nabokov e non le lesina in La difesa di Luzin, la densità della scrittura aumenta dopo quella già forte di Maurensig, dalla metà del romanzo il punto di vista è quello di Luzin, una visione coerente nella sua quasi totale assenza di contatto con il reale e in quel quasi stanno i dettagli che lui interpreta come una trappola che qualcuno gli sta preparando e di cui si convince di accorgersi cercando le contro mosse fino a quando decide che l’unica soluzione è uscire dal gioco. Il personaggio è probabilmente ispirato a Curt von Bardeleben, uno dei migliori scacchisti tedeschi a cavallo del secolo, morto suicida nel ‘24. Nabokov lo scrive in russo nel ’29 e lo fa uscire  puntate nella rivista Sovremennye Zapiski, curata da emigrati russi. Nell’andamento lento e denso tipico della sua scrittura, oltre alla conoscenza personale del gioco, mi è sembrato di riconoscere una vita ordinata, la sua, in cui proprio questa sua meticolosa organizzazione esterna gli dà la possibilità di immergersi totalmente nei personaggi fino a conoscerli nel profondo e aderire empaticamente alle loro personalissime visioni del mondo, come nell’indimenticabile Humbert di Lolita.

 

Leggo Una sfida di Patrick Suskind nel viaggio in autobus dal mio quartiere fino al centro città. In un giardino di Parigi arriva un giovane bello e sconosciuto e si siede alla scacchiera con il vecchio imbattuto campione del quartiere. Tutti vedono in lui la possibilità di rivincita su quell’uomo che batte inesorabilmente tutti. Fa mosse azzardate, impossibili, gli spettatori sono in visibilio, il vecchio giocatore è intimorito, è arrivata la sua ora? Finalmente qualcuno riuscirà a batterlo? Speranza e timore si intrecciano mentre gli spettatori hanno un nuovo idolo. Ma non è così. Purtroppo il vecchio giocatore vince. Cosa ha abbagliato tutti? La speranza nella giovinezza? La possibilità di cambiamento?

 

Walter Tevis, La regina degli scacchi. Verso la metà mi dico, ok, capito, scrittura fluida, leggerissima, si capisce come mai ne hanno tratto una serie, è già pronta, lui sembra scrivere per Hollywood, solo sei romanzi ma due sono diventati film e uno una serie, mi dico può bastare, ma poi lo seguo fino alla fine e anzi dopo mi manca, come accade con certi romanzi lunghi. Lo conoscevo come autore di fantascienza, il suo L’uomo che cadde sulla terra, interpretato da David Bowie, è un cult per noi amanti del Duca bianco. Poi ricordo un pomeriggio in cui zappingando oziosamente mi blocco su di un film con Paul Newman e Tom Cruise ambientato nel mondo dei giocatori di biliardo, bellissimo, profondo, appassionante, solo alla fine scopro che la regia è di Martin Scorzese: Il colore dei soldi, che lui ha pubblicato nell’84, un anno dopo La regina degli scacchi. Il grande merito della serie è stato avvicinare al gioco molti ragazzi e di riflesso me, che ho ricominciato a giocare online per avere una scusa per stare in qualche maniera in contatto costante con mio figlio. Per il resto è una lettura piacevole, priva di approfondimenti psicologici se non suggeriti dai comportamenti della protagonista, prima bambina poi donna in un mondo prevalentemente maschile.

 

Se dovessi indicare un testo che racchiude in maniera completa tutte le implicazioni e le evocazioni che emanano dagli scacchi, direi con sicurezza che quel testo è il breve racconto di Paolo Maurensig L’ultima traversa. L’incompetente vulgata comune riserva spesso il primato a La novella degli scacchi di Stefan Zweig, ultimo racconto scritto prima del suicidio, mentre stava completando quel meraviglioso ritratto dell’Europa da fine Ottocento alla Seconda Guerra Mondiale che è Il mondo di ieri. Qui un campione tonto che ha nel gioco la sua unica rivincita sul mondo si trova sfidato da un misterioso personaggio che si scoprirà aver imparato il gioco come salvezza personale mentre era prigioniero della Gestapo. Nel racconto la lista degli elementi che orbitano intorno agli scacchi è pressochè completa: sacro, erotismo, sfida, pazzia, vizio, esclusività, ossessione, morte. Se lo trovate nelle edizioni Barbera, non leggete la sciagurata quarta di copertina che perversamente svela tutto.

 

Non facilissimo da trovare, finalmente mi arriva fra le mani Zugzwang, mossa obbligata, di Ronan Bennett. Prima, per una piccola confusione di nomi, inciampo in Alan Bennett, gustosissimo autore inglese noto per il suo teatro. Ronan invece è, per me che non lo conoscevo, una piacevole sorpresa: irlandese, impegnato politicamente e forse anche militarmente contro gli inglesi, dedica vita e scrittura alla lotta contro l’oppressione. Zugzwang esce a puntate sull’Observer nel 2006, poi in forma di romanzo diventa un successo internazionale e a ragione: scrittura fina, veloce, profonda, gira intorno al torneo di scacchi del 1914 a San Pietroburgo dove furono invitati i migliori giocatori del momento, fra cui nomi ormai noti anche a chi sta leggendo queste righe come Capablanca, Lasker, che vincerà, Alekine, Nimzowitsch. Mescolando realtà e finzione, Bennett costruisce un intrigo tutto russo con protagonista uno psicanalista che si trova ad avere come paziente uno dei campioni intorno al quale girerà una vicenda che vede coinvolti rivoluzionari bolscevichi, alte cariche dello stato, la figlia, un concertista, poliziotti e delinquenti vari. A tutto ciò si intreccia una partita a scacchi di cui seguiamo le mosse fino alla fine. Veramente gustoso, valido e appassionante.

 

Noiosissimo invece ho trovato Gli scacchi, la vita, di Garry Kasparov, che dopo la carriera di scacchista e campione del mondo dal 1985 al 2000, diventa uno dei maggiorti oppositori di Putin. Dice cose giuste, interessanti e valide partendo dalla sua carriera infinita come professionista del gioco, alternando con biografie di altri campioni, ma troppo, troppo, troppo prolisso, lo leggo velocemente saltando pagine intere. Rimane un grande rispetto per il giocatore e per l’uomo, ma come scrittore no, decisamente da preferire il suo breve e intenso Scacco matto, fra i manuali certamente uno dei migliori.

 

Gesualdo Bufalino aveva iniziato un romanzo dedicato a José Raul Capablanca, di cui rimangono solo poche pagine, Shah mat. L’ultima partita di Capablanca, contenute nel secondo volume delle Opere pubblicato da Bompiani. Il Don Giovanni degli scacchi è visto nell’ultimo giorno di vita, gironzola per le strade di New York e s’infila in un cinema dove danno un film ambientato a l’Havana. Da qui ricordi, nostalgie, fino a quando viene abbordato da una giovane francese che si porta a casa e con cui inizia a parlare fino a quando, ultima frase del testo, “qualcuno bussò alla porta.” Non sapremo mai chi era, non sapremo mai come Bufalino avesse in mente di proseguire nella rievocazione di uno dei più affascinanti scacchisti di tutti i tempi, sappiamo che fra i testi letterari dedicati al gioco questo è certamente da non perdere.

 

In Samuel Beckett, forte giocatore, gli scacchi compaiono alla fine di Murphy, e sono affidati al signor Endon, ospite di una casa di cura per malati mentali, imbattibile al gioco e completamente immerso nel prorio mondo. La partita fra lui e il protagonista viene riportata per intero. Anche qui scacchi e follia sono uniti. Per meglio dire, sono una soglia. L’unica finestra che ha la follia in comune con la realtà. L’unico modo di comunicare, una porta che viene aperta solo per lo spazio di una partita.

 

Da Murphy a Morphy il passo è breve, forse troppo per non immaginare una somiglianza cercata. Paul Morphy è da molti considerato il primo genio moderno degli scacchi e certamente la sua imbattibilità e la sua vita è entrata nella leggenda. Nato a New Orleans nel 1837, a lui è dedicato L’arcangelo degli scacchi, di Paolo Maurensig, che abbiamo imparato essere uno dei più prolifici ed esperti autori del gioco. Romanzo pacato scritto in prima persona, appare a chi un po’ conosce le dicerie sul protagonista come un tentativo, pienamente riuscito, di riportare Morphy nei confini di una persona quasi normale, ma il quasi è d’obbligo trattandosi di uno scacchista di livello mondiale. Dopo aver battuto chiunque in America, Morphy parte per l’Europa con un solo abbiettivo: misurarsi con l’inglese Howard Staunton, che oltre a curare un’opera completa degli scritti di Shakespeare, era considerato il miglior giocatore del tempo e colui che ha dato il nome alla tipologia di scacchi più usata dalla sua uscita, nel 1849, disegnata in realtà dal designer Nathaniel Cook. Staunton nella realtà eviterà accuratamente di incontrare l’americano, ma Mauresig ci regala una sfida immaginaria ma non troppo fra i due campioni.

 

Michail Tal’ e il suo modo sorprendente e gioioso di giocare e la sua vita è il protagonista di Il mago di riga, di Giorgio Fontana. Il romanzo si svolge intorno alla sua ultima partita di torneo, il 5 maggio 1992, pochi giorni prima della sua morte, è un continuo flash back che ripercorre tutta la vita di questo campione lettone, a 23 anni il più giovane campione del mondo prima di Kasparov. Ne risulta un ritratto che ce lo fa amare subito, amante delle bevute, delle donne, della vita in ogni forma vissuta senza risparmare nulla.

 

Scacchi e matematica è un accostamento che troviamo spesso. Ne L’assassino degli scacchi e altri misteri matematici, di Benoit Rittaud, fra gli altri racconti a sfondo giallo, troviamo il testo che dà il titolo alla raccolta, in cui viene affrontato il tema del computer, che rapporto ci può essere fra un umano e una memoria elettronica o, se preferite, un’intelligenza artificiale in grado di elaborare una quantità di mosse che un cervello umano non potrebbe mai affrontare? È la morte del gioco? L’uomo è destinato a soccombere? Già nel 1836 Poe aveva affrontato il tema della macchina giocatrice ne Il giocatore di scacchi di Maezel, risolvendolo tutto in favore dell’uomo nel senso che il racconto è una minuziosa dimostrazione di come la macchina in realtà sia manovrata da un essere umano. Sembra una prova generale per l’Auguste Dupin che comparirà nella Rue Morgue cinque anni più tardi. Il conflitto fra mente umana e macchina, fra uomo e computer, oggi si parlerebbe di AI, per quanto mi riguarda è quanto di più noioso e privo di interesse si possa immaginare. Non si tratta di stabilire, come sempre accade ogni volta che salta fuori un conflitto simile, di stabilire se sia più forte l’uno o l’altro. Di solito la macchina è dipinta come potente ma fredda e l’uomo come limitato ma con la grande arma della creatività. Essendo il gioco un conflitto psicologico, il confronto con una macchina diventa un ottimo allenamento, un esercizio per migliorare la capacità di gioco, in attesa di avere di fronte un essere in carne, ossa e memoria da affrontare. Un po’ come far l’amore con un robot.

 

Spesso gli scacchi vengono evocati nella narrativa gialla dove servono a dare sapore a sfide e morti inspiegabili senza di fatto entrare nel merito del gioco. Fra questi, uno degli esempi più riusciti è Sfida cruciale, dell’islandese Arnaldur Indridason. La vicenda si svolge nel 1972 durante la sfida fra l’americano Fischer e il russo Spassky in una Reykjavik diventata improvvisamente il centro del mondo. Siamo in piena guerra fredda e il valore dell’evento trascende completamente il puro gioco, divendo il simbolo della sfida fra le due superpotenze. La prosa di Indridason non è mai banale, riesce ad approfondire bene i personaggi, mentre i due sfidanti rimangono sullo sfondo, come comparse famose in una vicenda a loro sconosciuta. Chi riesce bene a cogliere l’essenza di quella sfida è invece Alessandro Barbaglia ne La mossa del matto, dove Fischer viene paragonato ad Achille e Spasskij a Ulisse.

 

Inevitabilmente, non può mancare in questa breve carrellata un passaggio su di uno degli scacchisti più anomali e conosciuti del Novecento: Marcel Duchamp. Ferruccio Pezzuto ce ne parla ne La Partita di Duchamp, non un romanzo ma una cronaca di vita e opere con un focus sul gioco. Nel 1923, a trentasei anni, Duchamp abbandona l’arte e si dedica pressochè esclusivamente agli scacchi. Aveva già fatto in tempo a precedere di diversi decenni tutto l’andamento e le piste seguite poi dall’arte del Novecento, dalla performance al concettuale. Per almeno dieci anni non fa altro, poi qui e là produce alcune opere, tra cui 25 scacchiere e diversi scacchi. La domanda è: come mai la mente di un artista così potente si dedica esclusivamente al gioco maledetto? Che rovesciata, diventa: cos’hanno gli scacchi di così pervasivo da soddisfare una mente come la sua scacciando ogni altro interesse? Abbiamo visto come l’esclusività sia una delle caratteristiche che appaiono spesso nello scacchista di alto livello fino a diventare un’ossessione. Marcel non diventerà mai un campione di livello mondiale, ma giocherà nella nazionale francese e soprattutto, c’era da aspettarselo, il suo gioco prende vie più concettuali, arrivando a pensare a una “partita a scacchi non competitiva; quella per intenderci in cui l’avversario è stato allontanato, evacuato per citare un’espressione a lui cara, poiché non ha rilevanza alcuna. È questo per Duchamp l’unico modo per ricondurre all’Uno il dualismo conflittuale Bianco/Nero, realizzando quel matrimonio alchemico Fratello-Sorella che caratterizzava l’aspirazione irrealizzata nel Grande Vetro.” Negli anni Venti, insieme alla nascita delle avanguardie artistiche, si produce anche negli scacchi una nuova tendenza, chiamata ipermodernismo che guarda ai surrealisti come modello. In assonanza con lo spirito del tempo nei loro scritti gli ipermodernisti, a cui Duchamp si avvicina, “annunciano di voler far esplodere la scacchiera, di voler liberare il dinamismo insito negli scacchi.”

 

Fin qui l’occidente. In Cina negli anni Ottanta esce Il re degli scacchi, di Acheng, considerato uno degli scritori di punta di quegli anni. Gli scacchi sono quelli cinesi, è diversa la scacchiera, sono diversi i pezzi, resta identica l’ossessione, l’esclusività, il giovane eroe solitario proveniente dal popolo che si dimostra invincibile. Molto interessante il tono della voce di Acheng, completamente differente da quello occidentale.

 

Abbiamo visto come la figura del giocatore di scacchi abbia alimentato non poco fantasia e capacità narrativa, voglio chiudere citando un breve saggio, uno dei pochi che ha affrontato il tema da un punto di vista psicanalitico, un testo degli anni Cinquanta di Reuben Fine, La psicologia del giocatore di scacchi, molto utile anche per i brevi ritratti che contiene dedicati ad alcuni dei più noti campioni. A questo punto la domanda è una sola: giochiamo?

 

 

 

 

 

 

 

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