La Mattonella

Foto di Sameera Madusanka da Pixabay

di Silvano Panella

Osservo gli oggetti che nel corso degli anni ho disposto all’interno dell’armadio a vetri. Sono cimeli, quel che rimane delle mie avventure. C’è la chiave recuperata dalla cantina di un immenso palazzo pieno di legna e prossimo a un incendio devastante, il dado sottratto a una scellerata gilda d’uomini poco propensi a prestare quelle opere caritatevoli delle quali fantasticavano a voce, il campanellino raccolto nella neve mentre risalivo la montagna assieme a un necromante, la mattonella a motivi floreali che una donna mi regalò in India dopo avermi salvato dalla giungla. Mi ero perso…

Foglie color del sangue ossidato per esposizione all’aria aperta, perduto da chissà quale preda sacrificale, la tigre decide di punire chi, come me, si addentra troppo nel suo territorio, gli uccelli si danno il cambio e vocalizzano canti più cadenzati e querimoniosi, i petali si tingono d’ambra liquefatta, la giungla al tramonto è molto bella e molto pericolosa. Il caldo umido, la vegetazione fittissima, la fatica, il disorientamento, l’impressione d’essere già passato di qui, d’aver già carezzato queste volute di petali, foglie, rami, l’impressione d’essere prossimo alla fine per sbranamento, morso di serpente, puntura d’insetto, oppure a causa d’una freccia, o battendo la testa al culmine d’uno scivolone. Perché non ho preso l’altra pista? Perché non ho più acqua nella borraccia? Dubbi, divagazioni. Sii maturo, non compiangerti, mi ripetevo.

Fermo a tendere i sensi all’eventuale assalto d’un grande predatore, cosa che mi rendeva vulnerabile alle arrampicate di formicolanti animaletti, sentii un frusciare di fronde. Alzai lo sguardo. Era una scimmia. La seguii, magari si stava mettendo al riparo. Scelta saggia, ma appena mi scorse cambiò direzione e non la seguii più – le scimmie non sanno resistere agli scherzi, avrebbe potuto accompagnarmi in un burrone oppure nelle sabbie mobili. Un nuovo fruscio, differente, morbido, un movimento ad altezza umana, un drappo decorato, linee sinuose diramate su una superficie ondeggiante. Il viso nascosto dai capelli, braccia piegate a sorreggere una cesta. Seguii la donna, una portatrice di bacche e noci. Non disse nulla, mi guardò soltanto due volte, la prima per capire a quale specie appartenessi, la seconda per dimostrarmi d’essere conscia che le stessi dietro. Arrivammo in una radura quasi del tutto occupata da una fabbrica ottocentesca, un passato coloniale di soprusi e imposizioni, un eterno presente di eclettismo architettonico – i nostri predecessori si adoperavano per rendere bello e durevole ogni edificio, erano convinti che bellezza e durevolezza fossero sinonimi. Una fabbrica di mattonelle un po’ diruta ma ancora funzionante, sbuffi grigi dai comignoli, sacchi di argille e di coloranti, i forni, il calore, odori pungenti, uomini al lavoro. C’erano anche le famiglie. Un ragazzo mi venne incontro con una brocca d’acqua a decori verdi, fiori che si mimetizzavano tra le loro foglie, eventualità controproducente ma vera. Mi dissetai a mancafiato. Incuriositi dalla mia apparizione, gli abitanti si avvicinarono per esaminarmi, alcuni sospettosi, altri sorridevano. La giungla si abbuiò, le lanterne a olio presero a illuminare la fabbrica e le case al suo interno.

La mattonella è stata creata, cotta pochi anni fa, nella fabbrica indiana, è passata di mano in mano prima di finire impilata, è passata di mano in mano prima di finire a me, in dono. I motivi della mattonella non venivano ricopiati sui loro vestiti. Peccato. Nella radura, nella fabbrica uomini e ragazzi indossavano le magliette che si indossano nei nostri paesi. Magliette, simboli della serialità, macchie squadrate, stampate, vestiti di facile taglio, comodi. La comodità ci fa essere sbadati. Abbiamo la mattonella e quella ci basta, la fissiamo a parete assieme alle altre e questo ci basta, la scegliamo una volta e poi la sottintendiamo. Siamo arrendevoli. Gli anziani e le donne indossavano vestiti tradizionali. Forse perché gli anziani rivivono la loro giovinezza tramite scelte antiquate rispetto al presente e rispetto al loro stesso passato, le donne bramano gli abiti delle loro antenate perché li associano a quei gioiosi momenti di festa in costume che vissero da giovani. I riccioli terminano arrotondati, precisi, senza gocciolature, sbavature, senza indecisioni, senza concedere appigli alla sbadataggine.

La donna che mi aveva condotto alla radura mi chiamò nella sua casa. Conobbi suo marito, le mani imbiancate di polvere, l’espressione persa nel lavoro, un cenno di intesa e tornò nel laboratorio. Indossava una tunica bruna imbiancata come le sue mani. Durante il lavoro vestiva in modo tradizionale, magari perché reputava importante la creazione dell’opera. Sbirciai le mattonelle impilate. Bei disegni floreali, monocolore, essenziali. Il lavoro era concluso, sì, ma gli uomini, prima di spostarsi nelle adiacenti case, desideravano mettere ordine. Erano molto meticolosi. La cena su una bassa tavola, stufato di carni e bacche. Per la notte mi sistemai su una stuoia. Credevo fosse scomoda e invece dormii bene, i versi cadenzati degli uccelli mi piacevano e sognai una tigre che ci tollerava perché non cacciavamo le sue prede.

Mi svegliai ben riposato, ottimista, il Sole splendeva sulla fabbrica e riusciva a rendere ameno lo squallore degli elementi forzati, superflui, rifiutati – bottiglie e buste di plastica, lamiere ondulate, tappi, scatoloni, cavi, etichette, volantini, blocchi di cemento per le piccole riparazioni a facciavista. Al mattino siamo distratti dal buonumore e dalla prima luce, di giorno ci distraggono i nostri impegni, la sera l’oscurità protegge tutte le cose, andiamo a dormire e dimentichiamo. Ecco i motivi della persistenza dello squallore. Preferisco la giungla, così abile a fingersi eterna, a eliminare ogni traccia di forzatura, ogni brano superfluo attraverso l’inghiottimento, attraverso la decomposizione. Salutai gli abitanti della radura e mi inoltrai nella vegetazione. Non mi persi. Questa mattonella attira le dita, le sfrego volentieri per seguire i meandri, per adombrare lo sfondo. La giungla e la sua terra. La fabbrica è sul retro, sagomata in un marchio d’orgoglio.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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