Giallo
di Franco Santucci
Era entrata nella mia vita vestita di giallo, come uno scorpione dentro le ossa, come il veleno, l’antidoto, giallo come un’ellissi, come il barocco scomposto di una lingua intima, giallo, come essenze anticipatrici dell’abisso.
Mi fu chiaro fin da subito: giallo senape, percussioni nella testa, giallo margherita, ossessioni ridicole, giallo zolfo, come deflagrazione di un sogno sfuggente. Gialla la scintilla, l’assottigliarsi della miccia, giallo il cuore di polvere nella dinamite: il mondo era uno spazio di segnali in successione, come una strada a scorrimento disseminata di cartelli “rallentare”: compaiono a tratti, giallo, si lasciano leggere, giallo, esita il piede sull’acceleratore. Giallo freno, giallo corsa, giallo strisce.
Mi attaccavo al reale per sopperire alla lontananza, mi sommergevo di lavoro, preferibilmente manuale e condiviso, e gente, vino e birra unite al credito di bocche alcoliche: giallo limone come un mojito dall’ombrellino di menta, giallo chartreuse nel chiacchiericcio di un cosmopolitan, giallo cadmio dentro un negroni in un tumbler.
La ragazza dagli occhi azzurri e dai capelli ruggine, giallo lentiggini sul viso, mi parlava al bancone, senza essere ben conscia del peso della sua visione: arterie in rapida espansione, ragioni contrastanti il nonsenso, strade violente percorse di notte, giallo. La stessa sensazione, presumevo, che anche lei (giallo vestiti) poteva esperire: giallo dalle facciate di mattonelle consunte, giallo del vociare dozzinale nei corsi affollati, giallo di uomini dai tratti irregolari e dagli occhi appuntiti, da ingenerarle una nuova cromia. Gialla anch’essa e un altro cocktail scomparso d’un fiato, per tornare a casa dentro una gola caustica, gialla, come la battaglia di un santo con la sua aureola. Giallo il senso di corsa, giallo il battito, giallo l’oscurità della chiave nella toppa.
La notte, divinità antagonista, tremava nelle sue nuove foto in rete, nella paura di paesaggi come riflessi di specchi: giallo navone in capitelli derivativi alle porte di un teatro, giallo sabbia di vegetazioni elusive e greggi lungo i crinali dal lato opposto, giallo violino in palchi illuminati da braccia in sincrono (e giallo ombra di visi dietro l’obiettivo), mentre barche in distanza, giallo oceano, cadevano dall’orizzonte, metafora della mia presenza o del sonno, costruito ad arte su misture di erbe e chimica.
Nonostante tutto continuavamo a sentirci ancora, persi nel traffico di frequenze e semafori, di panchine al sole in parchi senza pretese, nei dehor di bar invasi da musiche di sottofondo, giallo citrino in canzoni da voci femminili malinconiche, troppo rassegnate per raggiungere le ottave giuste, quelle alte, e sfondare. Giallo cromo in telefonate disseminate di frasi ambigue, come quando mi confidò di non riuscire più a leggere e io le risposi che l’arte è solo un convincere gli altri di una propria ossessione. Giallo, come la risposta che le avrei dovuto dare, per poi confermarle che per me era lo stesso, che qualsiasi attività di intelletto mi veniva a fatica: giallo di un animale nella sua tana ad attendere, di una nevicata, la fine.
Mi confortavano i volti femminili lungo il corso: cercavo il legame contrario e unificante, capelli castani e ricci, gialli negli avvitamenti a boccoli, rime di gonne e maglie abbinate, labbra gialle come autostrade seriali, sopracciglia lavorate da orafi su fronti scoperte e sogni in evoluzione.
Giallo cuore, giallo sperma, giallo sangue, che mi pilotava su e giù lungo ciglia nere, così lunghe e curve da farci una giostra, e così vicine al mio viso da riempire ogni bicchiere di questo locale asfissiante. La ragazza mostrava l’oro di braccialetti e il suo orologio cromato, anelli d’argento e interesse, così mi avevano riferito, per la mia storia e il mio viso; interesse, il mio, ricambiato sul suo corpo, giallo crema, così delicato, nelle forme in linea con il gusto comune, e per il suo vestito bianco lungo, con un motivo floreale blu ripetuto, da ingentilire gli spigoli di un mobilio moderno. Giallo oro nel vino dal calice, nell’intesa alcolica di un rosso pieno, giallo segnale in un appartamento al quarto piano e lingue dal sapore misto, vitigni ignoti e tabacco uniti nel palato, giallo avorio di un fantasma dentro un incontro: giallo pantera, giallo preda, giallo agguato. Giallo letto, giallo sibili, giallo grida.
Giallo, nella crepa d’intonaco sul soffitto, nell’ubriaco urlare di strade a finestra aperta, giallo nel calore di un sonno infreddolito. Mi rifugiavo nella stanchezza e nel profumo materico di quel corpo, giallo miele di passaggio, prima di abbandonarmi ancora al pensiero dell’altra (giallo donna) e struggermi del nostro tempo breve: era stato come ballare su una musica sconosciuta, con il timore di sbagliare i passi, ma la certezza del danzare in sintonia.
La ragazza dalle ciglia lunghe scriveva messaggi deliziosi in frasi sorridenti e un profumo misto fra panni stesi al sole e litanie di una celebrazione intima e religiosa, un giallo dalia, a tratti, purtroppo palliativo.
Le avrei dovuto narrare del mio dibattimento, quello antico, in adolescenza, di quando la commessa dette per scontato la mia scelta sul giubbino bordeaux, più adulto, a dispetto dell’altro, giallo, dal tono acceso; mia madre presagiva il contrario nel suo sorriso, ma forse solo perché credeva fossi ancora il suo bambino, giallo paffuto.
Era più di un’avvisaglia, era un percorso sotterraneo, un giallo antimaterico dentro scelte confuse, fino all’esplosione, di diversa natura, su quel viso (giallo lontano) amplificato nei nostri corpi intensamente condivisi: giallo nelle sue gambe diagonali sulle mie spalle, giallo nel moto dei suoi fianchi possenti tra le mie mani (violenza di un temporale passato al nubifragio), giallo nel profumo subacqueo che dalle sue braccia si stendeva attorno al collo, giallo nell’aderire fondo della nostra pelle: giallo nel sangue, che si scambiava di posto.
La liberazione (non proprio) venne in una notte, dentro una delle tante immagini di fronte la stazione dall’entrata a portici: un bambino, pelle nera, occhi bianchi, era su un passeggino al fianco di una valigia enorme. Solo, senza una madre in vicinanza o a vista, con la poca gente che passava e frequentazioni dubbie, fin troppo tranquillo e misurato per una situazione così equivoca.
Passai anch’io. Giallo, come argomentazione sterile, come il ridicolo di emozioni in un trascorso indenne, giallo narciso di sconforto e inettitudine, nervi a pezzi di un giallo inutile. Mi rifugiai sul primo treno in partenza, uno qualunque (giallo borghese di una medesima ribellione), per sfuggire alla persecuzione, probabilmente autoimposta e decretare la fine a un qualcosa che sa di febbre e incomprensione e lotta contro l’aria.
Ma il finale possibile era solo uno, tanto da trasformare il treno su cui ero salito in un capannone ornato a festa per l’inaugurazione di un locale: il chiarore, dall’alto di un lucernaio in plexiglass, la colpiva in diagonale: giallo obliquo nelle sue labbra gioviali dalle fossette contigue, giallo nella montatura tondeggiante dei suoi occhiali da sole, nella sua collana d’oro sottile con un ciondolo dalle forme futuriste, giallo pastello in quel vestito a maniche corte con una linea di stoffa ondulata a coprire la mezzeria del braccio e un puerile fiocco sull’addome, giallo denso delle sue inflessioni verbali atipiche, del suo incarnato di navi da saccheggio e galee, giallo nel suo biondo, liscio e voluminoso, naturale e tinto di rinforzo, in caduta libera sulle clavicole, giallo (finalmente scoperto) dei suoi occhi marroni, come un teatro di sbagli pronto alla rappresentazione. Giallo, come un amore feroce e in punta di piedi. Giallo in altro giallo. Giallo come la luce, giallo come l’inferno. Giallo.