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Per Anne Sexton, nell’anniversario della sua morte

di Rosaria Lo Russo

4 ottobre 1974 – 4 ottobre 2024. Oggi, cinquant’anni fa, moriva Anne Sexton, suicidandosi com’era vissuta, con ironia e strazio, sfarzosità sensuale e tenerezza infantile. Amava tentare platealmente il suicidio circa una volta all’anno e spesso vicino alla data del suo compleanno (il 9 novembre del 1974 avrebbe compiuto quarantasei anni). Ma quel 4 ottobre aveva dato un segnale chiaro che quell’ennesimo tentativo sarebbe riuscito, lasciando gli imprescindibili pacchetto di sigarette e accendino nello studio della sua ultima di una lunga serie di psichiatri e psichiatre. Poi, come è noto, si era denudata, rivestita di una pelliccia lisa ma ancora avvolgente di sua madre Mary Gray, si era seduta al posto del guidatore della sua lunga auto americanissima parcheggiata nel box auto come si usa in tutte le case bene dei suburbs yankee, aveva acceso il motore e respirato il gas. Quando la vide per l’ultima volta l’ex marito accarezzò la sua “Princess Anne”, la Bella Addormentata dell’omonima riscrittura autobiografica della fiaba dei Grimm, che potete leggere in Trasformazioni. Ma lei si sentiva piuttosto “un’ebreuccia nel suo campo di sterminio” (come aveva scritto in Al Sor Decesso che se ne sta sull’uscio), campo di sterminio la sua casa borghese WASP, come per tante casalinghe disperate suo alter ego, un alter ego svuotato ormai, oltre che di senso, di tutti gli affetti dopo il divorzio da Kayo e l’allontanamento delle figlie. Una morte annunciata, come tanti suicidi di poetesse, per inadeguatezza alle aspettative sociali che gravavano sulle donne: la moglie-e-madre fallita toglieva il disturbo, allontanava l’ingombro della sua folle testa poetante di casalinga giullaresca, dove però si sentiva “rinchiusa” come in una “casa sbagliata”, aveva scritto nella “preghiera” Per l’anno della demenza. Quindi una morte-denuncia, come quella di Amelia Rosselli, di Sylvia Plath, tutte donne e poete suicidate dalla Storia (quella di tutti più quella particolare delle donne). Sylvia Plath e Amelia Rosselli, poete infuriate come Sexton, hanno da tempo ricevuto la corretta consacrazione, l’assunzione al ‘canone’, anche in Italia, divenendo finalmente e giustamente classici del secondo Novecento. Sexton ancora no, resta un fenomeno umano e letterario e come tutti i fenomeni è guardata ancora, forse, con un residuo sospetto, come succedeva quando, con il mio co-traduttore di sempre, Thomas Kirk, iniziammo a tradurre i suoi testi trent’anni fa e a cercare un editore ‘coraggioso’. Nel cinquantesimo anniversario della morte di Anne Sexton auspico che i lettori e le lettrici in italiano possano avere quanto prima tutta la sua poesia, la sua attualissima poesia, raccolta in un’opera completa. Che diventi un classico contemporaneo e non più, o non solo, una meteora di diversità femminile eccitante ma temibile, ancora troppo temibile.

 

 

Al Sor Decesso che se ne sta sull’uscio

L’ora si abbuia. L’ora che era lunga
si accorcia l’ora occhialuta e stralunata,
si acconcia la sottana, canta una canzone sdolcinata,
flirta coi ragazzi e gli dà uno strappo,
che nazimamma, l’ora, di crauti e birra,
o me vecchia adolescente, presto si abbuierà.

Ma mi ricordo com’era giovane un tempo
quando giocava a strega maialetta col cerchietto
e ballava con sei maschi tremendi il jango,
quando faceva scappare i polli dal bacchetto
e prometteva di sposarsi Tizio e Caio,
ma non ci pensava poi manco per niente
di ritornar la sera presto al suo pollaio.

Ci fu un tempo che il tempo aveva tempo
e il mare mi lavava con delicata brezza.
Non esiste il terrore quando si nuota nudi
o si va forte in motoscafo e si lancia la lenza.
Ci fu un tempo che col singhiozzo il fiato trattenevo
ma in quell’istante il Sor Decesso non lo incontravo.

C’hai tante maschere, Sor Decesso, grande attore.
Una volta ti eri impomatato un po’ alla Valentino
col gin di mio padre in saccoccia di straforo.
E anche se il mio vitino di vespa stava appeso all’uncino
del tuo lungo braccio bianco, per vertigini cretina,
mai e poi mai, no, non mi ghermiva
il tuo fascino di canaglia truffaldina.

Poi Sor Decesso tu mi hai teso un’esca,
così mi han detto, alla prima défaillance,
spronando la suicidina a festeggiar la sua
nella gran pupazzata grande entrée.
Ne uscivo impasticcata gridando adieu:
un’ebreuccia nel suo campo di sterminio.

Ora la tua birrosa trippa straripa, Dottor Balanzone.
Mentre scorreggi ti saltano i bottoni sul panzone.
Come posso giacermi con te, mio comico Florindo,
che sei così di mezz’età e tanto basso ceto.
Allora tu m’imbusti e tu mi pressi,
perbenino, come una farfalla, tu mi pressi
e per sempre la mia faccia pressata starà
accanto a quelle di Mussolini e il Papa.

Sor Decesso, quando andasti ai forni fu corto,
e cortese altrettanto fosti con l’affogato,
e più carino di tutti col bimbo mio dell’aborto
e fosti così e così anche coi crocefissi tutti.
Ma quando vieni alla mia morte fa’ che sia uno slow,
l’ultima pantomima, l’ultimo porno show,
perché devo ancora una volta provare
prima di potermi davvero spaparanzare
nella mia nera cassapanca nuziale.

 

 

For Mr. Death Who Stands With His Door Open

Time grows dim. Time that was so long
grows short, time, all goggle-eyed,
wiggling her skirts, singing her torch song,
giving the boys a buzz and a ride,
that Nazi Mama with her beer and sauerkraut.
Time, old gal of mine, will soon dim out.

May I say how young she was back then,
playing piggley-witch and hoola-hoop,
dancing the jango with six awful men,
letting the chickens out of the coop,
promising to marry Jack and Jerome,
and never bothering, never, never,
to come back home.

Time was when time had time enough
and the sea washed me daily in its delicate brine.
There is no terror when you swim in the buff
or speed up the boat and hung out a line.
Time was when I could hiccup and hold my breath
and not in that instant meet Mr. Death.

Mr. Death, you actor, you have many masks.
Once you were sleek, a kind of Valentino
with my father’s bathtub gin in your flask.
With my cinched-in waist and my dumb vertigo
at the crook of your long white arm
and yet you never bent me back, never, never,
into your blackguard charm.

Next, Mr. Death, you held out the bait
during my first decline, as they say,
telling that suicide baby to celebrate
her own going in her own puppet play.
I went out popping pills and crying adieu
in my own death camp with my own little Jew.

Now your beer belly hangs out like Fatso.
You are popping your buttons and expelling gas.
How can I lie down with you, my comical beau
when you are so middle-aged and lower-class.
Yet you’ll press me down in your envelope;
pressed as neat as a butterfly, forever, forever,
beside Mussolini and the Pope.

Mr. Death, when you came to the ovens it was short
and to the drowning man you were likewise kind,
and the nicest of all to the baby I had to abort
and middling you were to all the crucified combined.
But when it comes to my death let it be slow,
let it be pantomime, this last peep show,
so that I may squat at the edge trying on
my black necessary trousseau.
(da The Death’s Notebooks, 1974)

 

 

 

 

 

 

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Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
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