Les nouveaux réalistes: Cristina Pasqua

Il buco

di

Cristina Pasqua

Spense la luce vicino al letto, e lo vide. Parlava di vuoto. Sciorinava promesse. Non ci aveva mai fatto caso prima. Discosto dal muro, pure se di poco, per la prima volta notò il pannello. Si capiva subito che non sarebbe stato difficile da staccare. Aveva lo stesso odore della vernice delle pareti, ma la resa della pittura era diversa, come diverso era il materiale. Era bianco sporco, insozzato di polvere, tempo e inverno.

Iole fece scorrere l’indice sul sottile bordo scheggiato, poi lo afferrò con la punta delle dita alle estremità e tirò forte verso di sé. Il mastice teneva ancora, opponeva una resistenza muta, difficile da governare. A guadare bene, a tirare e tirare ancora, a opporre resistenza erano proprio le aderenze coriacee e filamentose della colla. Dietro, c’era solo muro, una porzione di parete identica alle altre, stessa tinta, solo più pulita, nessuna ragnatela o traccia di morte violenta di certi insetti.

Villa Gloria era la casa che abitavano l’estate. Attraversato l’anno, si era ripromessa di non tornarci più, aveva deciso che sarebbe stata la sua ultima vacanza lì. Viaggiare in treno, in aereo, in nave, partire, prenotare una camera in una pensione lungomare, una cabina, un ombrellone e una sdraio in uno stabilimento sull’Adriatico, a questo pensava mentre accendeva la luce e l’elettricità faceva vibrare la stanza di giallo.

Raggiunse la finestra, scostò le ante e lasciò entrare la notte. La pineta, oltre il giardino, le strinse la gola di resina. Dopo essersi persa tra gli oleandri e le siepi di lentisco, nel lamentoso tormento delle cicale, tornò al pannello con uno sguardo distante. L’unica cosa che giustificava la sua presenza di compensato era il buco. C’era un buco sulla parete, proprio nel mezzo. Un piccolo buco sgretolato d’intonaco, affacciato sul cemento. Ginocchioni sul materasso, le spalle alla salsedine, con il mare che rovistava gli scogli, ci infilò l’indice dentro e iniziò a scavare.

Seguirono notti senza sonno. Al mattino, rimetteva il pannello al suo posto facendo attenzione a non lasciare tracce, a sprimacciare a dovere il cuscino, a tirare lenzuola e federe evitando di lasciare pieghe. A nessuno doveva venire in mente, meno che mai a sua madre, di spostare l’anima di ferro dal muro e scoprire lo scavo.

Iole si era fatta crescere le unghie per tutta la vacanza. Indisturbate da limetta e forbicine, erano adunche e sgraziate. Con lucida determinazione aveva deciso di smettere di mordersi e staccare le pellicine. All’inizio scavò a mani nude. Quando una chiazza di mattino allagò il pavimento, prese un batuffolo d’ovatta, aprì il flacone dell’alcol e si disinfettò le nocche.

Venne il tempo della matita, sostituita poi dalla lama di un vecchio coltello, di quelli arrugginiti dimenticati nel fondo di un cassetto. Fino a che non aprì il mobile nel sottoscala e trovò il malepeggio di suo nonno. In poco meno di una settimana ambedue le mani entravano nel buco. Sparivano al suo interno fino al polso. Nell’oscurità collosa, illuminata solo dal lampione in fondo al parco, ogni notte demoliva il muro della sua stanza, la stessa parete che dall’altro lato correva lungo il corridoio fino alla stanza da bagno.

Intanto vagheggiava vacanze lontane, un impiego remunerativo, le piste bianche, gli alberi piegati di neve e un paio nuovo di sci, i gesti galanti di Alberto, il cugino di Adele, una soffitta al quinto piano, le tegole lucide di pioggia e le guglie lontane, e ancora il profumo bianco del pane e della neve d’inverno, l’aria fragile di cristallo e le assi scure del rifugio, uno chalet odoroso di grappa e cenere.

Sapendo di incorrere nelle ire di sua madre e del nonno, che quella casa l’aveva tirata su spezzandosi le reni, all’alba, prima di coricarsi, eliminava le tracce del suo passaggio con attenzione maniacale. Di notte, davanti al buco, largo oramai quasi come tutto il pannello che lo occultava, si rese conto di quanto fossero misere le sue aspettative. Quanto poco futuro riusciva a masticare, l’ordinario in agguato dietro la porta. Rimise a posto il compensato e, con il retrogusto della delusione, tornò a dormire. Si svegliò presto, aveva dimenticato gli scuri aperti e quando i primi raggi del sole le scarabocchiarono gli occhi già non vedeva l’ora che l’oscurità si mangiasse il giorno per ricominciare da capo.

«Perché?» chiese sua madre in cucina.

Iole rimase in silenzio, mentre il caffè anneriva il fondo della tazza.

«Erano della zia Luisa. Sarebbe felice di vederli sulle tue mani» continuò, in attesa di risposta.

«Sì, lo credo anch’io» rispose secca, prima di bere un sorso. I guanti erano lunghi e avorio, dai polsi e fino al gomito si rincorrevano minuscoli bottoncini rivestiti in tessuto. Li aveva trovati nel buco, sembravano nuovi, si erano perfettamente conservati nel cellophane trasparente.

Il nonno infilò il naso nella tazzina e restò in silenzio.

La notte successiva si ritrovò in mano il tacco di una scarpa. Era sporco di terra, non troppo alto, forse di un mocassino, non era appropriato a una décolleté. Frugando ancora, si passò tra le dita una treccia di capelli. E denti. Ne contò almeno dieci, li lavò per bene e li fece sparire in una scatolina di latta.

La mattina dopo, a colazione, aveva gli occhi cerchiati e indosso un vestito che non era il suo. Il nonno perse colore, la faccia gli diventò di gesso. Rimase in silenzio per qualche tempo, come se nascondesse un rimpianto o una colpa, poi si alzò e senza dire una parola abbandonò la cucina. Sua madre si limitò a distogliere lo sguardo. Iole poggiò la scatolina sul piano di formica e la spinse fino al bordo del tavolo. Con un gesto calcolato la fece cadere. I denti della zia Luisa si sparpagliarono qua e là sul pavimento.

Andò avanti così, fino a che non arrivò la notte in cui Iole chiuse il buco. Il giorno dopo lasciò la casa. Il nonno si offrì di accompagnarla alla corriera, ma lei preferì andare da sola. Camminò senza ripensamenti fino al cancello, poi si voltò. Sua madre era affacciata alla finestra di quella che era stata la sua camera durante la vacanza breve, la stessa stanza dove, in un tempo lontano e dimenticato, aveva dormito la zia Luisa.

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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