La stanza di Élise

 

ph. Alec Soth, “Susanne’s View”, London, 2018. Dalla serie “I Know How Furiously Your Heart Is Beating”. Courtesy of Fraenkel Gallery

 

di Michaël Uras
traduzione di Giuseppe Girimonti Greco e Federico Musardo

[Questo racconto è apparso in francese in un volume promosso dall’Unicef dal titolo Un Arc-en-ciel d’émotions, edizioni Le Livre de poche, 2022. La traduzione è inedita].

Élise ha una stanza. E fin qui, mi direte, niente di strano. Avere una stanza, nel nostro paese, è una cosa tutto sommato banalissima. Solo che la stanza di Élise non è una semplice stanza. Innanzitutto, ci passa la maggior parte del suo tempo. È un po’ come una boccia di vetro per un pesce rosso. E sia chiaro che non ho nulla contro i pesci rossi. Anzi. Élise non la lascia mai: le sue giornate passano l’una dopo l’altra e lei è sempre là, stesa sul letto. Ma ci sono anche altre possibilità: Élise sul divano (visto che la sua stanza è abbastanza grande da contenerne uno). Élise per terra, mentre fa yoga. Élise alla finestra che guarda la strada disperatamente vuota. Élise al telefono. Sempre. Dappertutto. Insomma, la stanza di Élise è un posto molto gradevole, morbido e accogliente. Se ci entri, poi non vuoi più uscirne. Anche se magari Élise non c’è. Élise rappresenta una specie di valore aggiunto, ma la stanza potrebbe benissimo vivere senza di lei. Le pareti sono crudeli e più longeve degli esseri viventi. È così. Le pareti della stanza di Élise hanno conosciuto altri abitanti e li hanno presto dimenticati. E si dimenticheranno anche di Élise, quando deciderà di andarsene. È così. Ma non bisogna rattristarsene.

Stamattina Élise è uscita molto presto. Andava di fretta. Per un po’ ha fatto su e giù nella sua stanza, a tutta velocità. Poi è schizzata via. Andava proprio di fretta. Non guardava nessuno. Le persone frenetiche sono esasperanti. Somigliano a quegli uccelli che sbattono forte le ali senza mai riuscire a spiccare il volo. Mi sembra un’immagine perfetta della frustrazione. Non si è neppure presa la briga di ripiegare per bene il pigiama, un coso con un cappuccio di lana che va bene per quando fa veramente freddo. O per quando si è molto tristi e ci si vuole nascondere dal mondo. Prima Élise se lo metteva di rado, poi ha iniziato a metterselo sempre. Eppure non era tanto freddolosa. Uscendo, si è infilata, controvoglia, il suo parka blu. Troppo blu, troppo pesante, eppure così piacevole da toccare.

Quando è uscita dalla stanza a tutta velocità, sua madre le ha gridato «Mi raccomando, non ti dimenticare niente!». Ma Élise non dimentica mai niente. È meticolosa. Certi adolescenti non hanno testa. Così dice sua madre. Ma si sbaglia. Élise la testa ce l’ha. E ha anche lunghi capelli castani, sempre in ordine. Occhi verde smeraldo. Una pelle vellutata. Il grido di sua madre ha rimbombato per tutta la casa. Una vera leonessa! Si direbbe che gridare le piaccia. E che a Élise piaccia far gridare sua madre attardandosi un po’, la mattina, dopo aver tenuto per tutta la notte quel cappuccio così morbido sulla sua testa così bella.
A volte sembra quasi che gli esseri umani si urlino addosso per dirsi che si vogliono bene senza dirlo davvero. È così. Vogliono dire qualcosa ma non ci riescono, non hanno il coraggio di dirlo. Perciò fanno in un altro modo. Prendono un’altra strada. Si sfiorano, si urtano. Ma a volte si perdono. Élise si è precipitata giù per le scale perché sua madre la stava aspettando in macchina. Con il motore acceso. Di certo non se ne sarebbe andata senza di lei. Uno mica abbandona così la sua progenie. Ci tiene!

Élise è risalita di corsa, si era dimenticata il berretto. Non è sempre così meticolosa, Élise! Dov’è il berretto? Ora sua madre sta suonando il clacson. Il rumore di un clacson è il peggior rumore dell’universo. Tutti gli uccelli del quartiere si sono dileguati. Uno sbatter d’ali pazzesco. Tutti gli animali si sono spaventati. Ed Élise non trova il berretto. Butta tutto all’aria, alza una cartellina, niente da fare. Sposta la poltrona. È lì sotto? No! Apre l’armadio, niente neanche lì. Fruga tra i suoi vestiti piegati. Piegati con tanta cura dalla donna che adesso sta suonando il clacson nel garage. Si può suonare forte il clacson e al tempo stesso voler bene a qualcuno con altrettanta forza. È solo un altro modo di dire ti voglio bene, piuttosto particolare.
Il berretto è sotto il cuscino! Ma Élise non l’aveva mica messo lì. Forse si era voluto nascondere. C’era troppo rumore in casa, troppa confusione! Chi è il colpevole? Chi è stato a nascondere il suo morbido berretto? Élise non ha tempo per pensarci. Non ora. Risolverà il mistero al suo ritorno. Nel frattempo pensa soltanto a sistemarsi in testa il berretto che la sua migliore amica le ha regalato per il compleanno, un mese prima della sua scomparsa. Emma. Un berretto bianco. Ben calato sulle orecchie perché fuori fa un freddo tremendo. La neve ha ricoperto la casa e tutte le vie dei dintorni. La notte è stata calma, immobile, senza vita. Tutti si sono messi al riparo. Fuori non c’era neanche un gatto. In quel momento uscire così presto senza berretto bianco sarebbe stata una follia.
Parka blu, berretto bianco. Emma, quando la vede conciata così la chiama Puffo… lo trovano divertente. Ridono e si prendono in giro chiamandosi Gargamella e Birba…
Battute che possono capire soltanto loro. Sfioramenti di parole. E di mani.

In casa, adesso che non ci sono più né Élise né sua madre, torna la calma. È un’oasi di pace in cui è un piacere stendersi vicino al caminetto spento. Nessuno più ci mette un ciocco per tenere acceso il fuoco. Nessuno. Fuori, la neve non la smette più di posarsi sulla strada. E le finestre tempestate dai fiocchi lasciano passare appena un filo di luce. Tutto è addormentato.
In macchina, Élise e sua madre stanno di sicuro parlando ad alta voce. Parlano sempre ad alta voce perché la mamma di Élise ha la brutta abitudine di ascoltare la musica ad altissimo volume. E quindi, per riuscire a sentirsi al di sopra della musica, devono per forza parlare ad alta voce. Le persone che ascoltano la musica a tutto volume evidentemente hanno problemi di udito. O forse, chissà, vogliono coprire il rumore del mondo, evitare di sentirlo, fare come se non esistesse. Le case hanno bisogno del vuoto, di un vuoto che non contempli la presenza di esseri umani. E la casa di Élise dev’essere ben contenta di vederli uscire. Non solo la casa, peraltro. Anche gli insetti e tutto il resto. Ma la loro assenza ahimè non dura a lungo.

Tant’è vero che, a pochi minuti di distanza dalla partenza delle sue abitanti, la porta d’ingresso si apre. Un attimo prima, l’armeggiare di una chiave esitante si era fatto sentire nella casa vuota. Destra. Sinistra. Dopodiché la maniglia, che cigola da mesi, si è come svegliata. Il padre di Élise sembra esplorare un pianeta sconosciuto. Guarda il tappeto, i mobili del salotto e tutti gli oggetti come se non li avesse mai visti. Si ferma davanti a una foto di Élise. Élise e il cane. Un cane che una sera si è presentato alla porta di casa e che i genitori di Élise hanno fatto entrare… proprio loro che in quella casa non fanno mai entrare niente e nessuno, neanche un pacco regalo. Il cane si è sistemato lì da loro e nessuno è mai venuto a reclamarlo. Bisogna dire che il suo aspetto non era dei più allettanti. Il pelo sembrava eternamente bagnato, quando te lo trovavi di fronte avevi l’impressione che fosse appena uscito dalla lavatrice. Zero stile, ’sto cane. Ma Élise gli era affezionata. Molto. Le cose stanno così. Per fortuna un bel giorno il cane se n’è andato, senza dare spiegazioni. Un cane randagio alla fine torna sempre in mezzo alla strada. Proprio come i salmoni che tornano sempre là dove sono nati.

Il papà di Élise prende la foto tra le mani, non vuole rischiare di farla cadere. Preme forte sui bordi della cornice. Poi rimette a posto la foto. Ed Élise. E il cane.
Sale nella stanza della figlia. Lei non c’è. Ma evidentemente lui lo sa, visto che non la chiama come fa di solito. Niente “tesoro”. Né “passerotto”, espressione che Élise rifiuta categoricamente. E non ha tutti i torti. Che piacere c’è nel farsi chiamare così? “passerotto” non è un soprannome che possa far impazzire una ragazza…
È lì in piedi nel mondo di Élise, nel suo minuscolo universo, e guarda ogni cosa con calma, come se volesse portarsi via tutto quanto con gli occhi. Il manifesto del concerto al quale sono andati insieme un anno prima. Era un cantante che non sa cantare e la cui musica riempie la boccia di Élise almeno una volta al giorno. Probabilmente adesso il padre di Élise sta pensando a quella serata memorabile. Erano rientrati tardissimo dal concerto. Élise aveva continuato a canticchiare per un’ora, persino sotto le coperte. Canta meglio di quel cantante, e suo padre gliel’aveva detto l’indomani a colazione. Discussione non facile perché Élise lo adora…
Eppure, di fronte al manifesto, il padre resta in silenzio. Ne accarezza la carta, come se volesse recuperare un pezzetto di Élise. Gli esseri umani a volte fanno cose strane. Meglio lasciarli fare e tenersi a distanza. La mano del papà di Élise è ancora sul manifesto quando suona il campanello. Lui sobbalza. E anche i ragni. Si precipita verso la finestra per vedere chi lo disturba. La persona che sta suonando evidentemente non sa come funziona un campanello, perché il rumore non cessa. Il suonatore, o la suonatrice, tiene il dito premuto. Il papà di Élise si immobilizza come una preda che si finge morta per ingannare il suo predatore. “Non ci sono, non esisto…”.
È come congelato, il povero papà. Fermo alla finestra, quest’omone è lì che prega affinché il suono del campanello gli dia tregua. Lo stesso vale per i ragni e gli altri insetti. E a un certo punto il suono si dilegua nel nulla da cui proveniva. Il papà di Élise, scampato il pericolo, ricomincia a muoversi. Si siede piano sul letto di Élise, come se lei stesse dormendo e lui non volesse svegliarla. Fa sempre così quando sua figlia è malata e lui, di notte, viene a vedere se sta meglio. Si accoccola sul letto, quasi come un gatto. Quasi. Apre il comodino della figlia. Vietato! Vietato! Élise ha categoricamente vietato a chiunque di aprire il cassetto del suo comodino.
Un giorno la madre ha sbirciato tra i suoi piccoli segreti e quella sera è stata un susseguirsi di urla e scenate. “Questa è la mia stanza! Ho diritto alla mia privacy”.
Élise se ne accorge subito quando toccano le sue cose. Anche stavolta se ne accorgerà. Suo papà tira fuori una cartolina dal cassetto e legge ad alta voce la scritta. “Arzachena”. I membri della famiglia hanno pronunciato spesso questa parola prima delle vacanze estive. E anche dopo. “Arzachena”. Era la loro vacanza. E di nessun altro. La vicina si era offerta di venire in casa a intervalli regolari. C’erano tante cose da tenere d’occhio, la posta da ritirare, le piante da innaffiare… era gentile, la vicina, premurosa e seria. Puntuale. E anche dolce. Una voce leggera come una foglia trasportata da una brezza soave.
Il papà di Élise ripone con cura la cartolina e richiude il cassetto. Poi tira fuori una lettera dalla tasca del suo lungo cappotto e la infila sotto il cuscino per evitare che la si possa vedere subito. Non sarà mica facile trovarla. A meno che non lo si sia visto nasconderla. Ma Élise non l’ha visto. Élise sotto la neve, con il berretto calato fino agli occhi. La lettera ha preso il posto del berretto. In una casa come questa non ci sono poi tanti nascondigli.

Il papà di Élise inspira profondamente il profumo del cuscino di sua figlia. Un profumo piacevole come un minuscolo raggio di sole in un giorno di tempesta. Vorrebbe portarlo con sé. Adesso il suo respiro si è fatto più veloce. Nella sua cassa toracica è iniziata una specie di corsa. Guarda l’orologio e si dirige di nuovo verso la finestra. Dopo aver spiato per un attimo la neve che non la smette di cadere, esce dalla stanza. Sul pavimento si vedono ancora le impronte delle sue scarpe. La mamma di Élise gli rimprovera sistematicamente di sporcare il parquet e di renderlo scivoloso, e quindi pericoloso, per gli abitanti della casa. Come darle torto? Ma anche lui le rinfaccia diverse cose. Pari e patta. Élise si sottrae a quelle liti rifugiandosi nella sua stanza. La stanza di Élise.
Suo padre scende giù per le scale e apre la porta per andarsene. Ma, prima di dileguarsi, si volta e si posa l’indice sulle labbra. Silenzio… i ragni non diranno nulla della sua visita.
Un istante dopo, la casa torna a essere pacifica. È immersa nella neve e il suo cuore batte lento. Bisogna essere pazzi per uscire con un tempo del genere. Oppure avere qualcosa di importantissimo da fare. Per esempio andare a cercare da mangiare…
Dalla finestra ogni tanto si vede un passante che cammina svelto per la strada. A testa bassa e col cappello. Neanche un cane.

La quiete dura fino al ritorno di Élise e della sua mamma. Quest’ultima apre la porta a fatica, perché non ha le braccia libere. Regge un tronco d’albero. Élise la sta aiutando a portarlo dentro.
– Stai attenta al muro.
– Sì, mamma.
– Stai attenta alle spine.
– Sì, mamma.
Stai attenta, stai attenta, stai attenta… ma i ragazzi imparano anche dagli errori, che certe volte sono utili.
Le due donne piazzano l’albero in salotto. Sembrano felici. Felici di aver portato in casa un albero pieno di spine. Strana sensazione che spiega quella loro furtiva sortita sul far del giorno. Eppure in casa c’è già un alberello, senza foglie, senza spine, liscio e vellutato. Segue un delirio di gesti scomposti. Di colori. Di oggetti che vengono appesi all’albero senza che l’albero protesti. Gli alberi sono un po’ vigliacchi. Li si può conciare a proprio piacimento. Dopo aver fatto il suo dovere, Élise torna in camera sua e nota le orme che si fermano all’altezza del suo letto. D’istinto, tira via la coperta per sincerarsi che non ci sia nessuno, dopodiché alza il cuscino. La lettera è ancora lì. Élise apre la busta, ne estrae un foglio e inizia a piangere quasi all’istante. Sul parquet cadono lacrime salatissime, silenziose. Lacrime che modificano le tracce che suo padre ha lasciato sul pavimento. Élise si porta il foglio alle labbra.
“Ti voglio bene, papà” ripete più e più volte. “Ti voglio bene, papà”.
Poi abbassa la testa e si guarda accanto alla caviglia. “Ah, se tu potessi parlare… Mi stai fissando in silenzio… ma quindi l’hai visto? Ha aspettato che uscissimo per entrare, vero? Per fortuna ha ancora una copia delle chiavi di casa. Per fortuna. Se solo tu potessi parlare mi diresti quant’era bello. Mi diresti che cosa ha guardato dentro casa, gli oggetti che ha toccato, se ha detto qualcosa, se ha pronunciato il mio nome… ma tu non mi dirai niente. Sono proprio una sciocca.”

No, non sei sciocca, Élise, ma hai proprio ragione: non dirò niente, non parlerò… perché io non posso parlare. Su questo non c’è alcun dubbio. Né con te, né con nessun altro. Rimarrò un testimone muto. Muto come un pesce… O, meglio ancora, come un gatto! Che è poi ciò che sono.

 

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ornella tajani
ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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