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Euphorbia lactea

di Carlotta Centonze

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ingrid poggia pigramente la penna nel taccuino adagiato sulla sua pancia, mentre il dondolio scricchiolante del gonfiabile su cui sta sdraiata la trasporta alla deriva, dall’altro lato della piscina.

Pensa fra sé che scrivere non è stata una buona idea. Preferisce di gran lunga lo spazio vuoto in cui distende il pensiero, intontita dal caldo gracidare delle cicale. Con lo sguardo misura la piscina scrostata e disegna i confini di un’isola immaginaria. Stare là significa non starne fuori, fuori c’è un orizzonte impossibile da guardare. Per stare fuori deve varcare una soglia che non ha ancora voglia di varcare. I bambini giocano silenziosi ai piedi del suo lettino, scolorito come tutti quelli messi a disposizione dal condominio. Accarezza lieve l’acqua, prova a solcare tutti i tragitti possibili con cui percorrere la superficie della piscina e solo alla fine si concede un balzo romantico: alza gli occhi e li fissa sul grande albero di magnolia, unendosi ai mille piccoli specchi di luce riflessi sulle foglie carnose, in una tremolante danza di flutti.

Scrivere anche solo una frase dopo aver rinunciato mesi prima all’idea di farlo potrebbe essere un errore fatale. Sono tre mesi che abita sull’isola con il marito e i due figli – cioè quella che qualcuno chiamerebbe famiglia, un’espressione che comprende formalmente ma di cui non riesce ancora ad appropriarsi. È inciampata in quella famiglia come saltando in un fosso, o meglio lasciandosi trascinare dalla corrente. Non che non avesse desiderato diventare madre, soltanto che quando era diventata reale la possibilità che questo accadesse, aveva pensato ai suoi genitori, alla loro casa confortevole sull’oceano, e aveva sentito di non essere che un ostacolo alla riproduzione di quel modello di vita, un anello mancante nella catena generazionale. Che fosse riuscita a procreare oppure no, la sua era un’esistenza condannata alla sterilità.

«Dopo di me non ci sarà niente» diceva al marito, che scambiava la premonizione con la paura. Per scongiurare queste previsioni inquiete avevano concepito due figli, gemelli omozigoti, da cui si era fatta abitare con la consueta mansuetudine, sapendo tuttavia che erano ospiti del suo corpo come animali che vivono nel tronco di un albero. Lei allora faceva l’albero, piegava i suoi rami legnosi verso il marito e canticchiava piccole canzoni per misurare il tempo che le restava dell’esistenza vegetale.

Quando il marito l’aveva vista stare insieme ai figli per la prima volta dopo il parto, aspettandosi di emozionarsi e commuoversi, qualcosa nello sguardo di lei lo aveva turbato. Quello che gli stava davanti aveva l’aria di una messa in scena: l’imitazione dell’attenzione materna, l’imitazione della dolcezza. Dietro agli occhi di Ingrid stavano due spazi dilatati e sconosciuti in cui aveva sentito di averla persa per sempre.

La piscina è al centro dell’isola, che a sua volta si trova al centro di un’insenatura in cui il Mediterraneo è per lo più calmo e scuro. Attraversare il mare in traghetto e la campagna in macchina la sera in cui erano arrivati le aveva fatto prendere coscienza della natura definitiva del loro isolamento. L’odore vivo dei cespugli di mirto, della salvia selvatica, del legno d’ulivo bruciato e della terra ferrosa, mischiato a una nota onnipresente di affumicato e di zolfo che veniva dal vulcano, le solleticavano il naso e la irritavano come una falsa promessa. Non ci sarebbe stato spazio per i sensi in quella loro missione. Erano giunti sull’isola perché il marito doveva studiare una particolare varietà di pianta – detta Euphorbia lactea – che somigliava a uno scheletro lattiginoso e cresceva sul vulcano. Avrebbe passato gran parte delle giornate fino al tramonto nel centro di osservazione, sperando di concludere il lavoro nel corso di un’estate. Ma, come presagiva Ingrid annusando quegli odori nella notte e ricordando che la vita la aspettava sempre sul limitare delle cose, un’estate non sarebbe bastata. Quel primo viaggio era stato anche l’ultimo incontro con l’isola, che nella sua lussuria selvatica non poteva che apparire pericolosa a una donna cresciuta nella civiltà, in un grigio agglomerato urbano del Nord Europa. I fari della macchina squarciavano il buio, delineando la sagoma prima di un cinghiale, poi di quel che sembrava un capriolo, stregato dalla luce. Una volta giunti all’ingresso del comprensorio dove avrebbero vissuto, l’isola si era rinchiusa dietro di loro come un blob scuro di tenebra.

Il comprensorio è abitato da ex diplomatici, consoli, impiegati di ambasciata o dirigenti dell’esercito con le loro famiglie, le cui mogli sono casalinghe, insegnanti di inglese o francese o ancora manager di organismi internazionali. Ci sono anche dei pensionati, che, avendo fatto fortuna in una buona congiuntura economica e avendo potuto gestire il proprio patrimonio in Svizzera o in Lussemburgo, si godono i propri soldi sull’isola.

Ingrid non ha fatto amicizia con nessuno, nonostante le premure del marito che spesso le ripete quanto farebbe bene ai bambini avere degli amici. Ci avevano provato invitando a cena una giovane coppia, lei avvocato e lui collega del marito. Dopo qualche drink sull’ampia terrazza con vista piscina, si erano accorti che i gemelli stavano insegnando alla figlia come far prendere fuoco alla lanugine seminale degli alberi. La madre della bambina, isterica, li aveva sgridati, rimproverando Ingrid per le pessime maniere dei figli. La cena era proseguita in un clima di disapprovazione reciproca. Ingrid non aveva più voluto vederli, e neanche loro avevano mai ricambiato l’invito.

Forse depresso dall’assenza di vita sociale della famiglia, il marito passa spesso anche le notti in osservatorio. Ingrid ormai è abituata a mettersi a letto da sola, lasciando la porta a vetri socchiusa per far passare un po’ d’aria. Spesso le capita di svegliarsi sentendosi spiata e trovando suo figlio in silenzio seduto sul bordo del letto che la guarda. Nel dormiveglia le ci vuole un po’ per capire di quale dei due gemelli si tratta.

Da quando erano usciti dal suo corpo aveva subito intuito che sarebbero stati un’entità a sé, separati da lei dalla notte dei tempi. I loro volti minuscoli avevano fatto capolino portandosi dietro una sorta di ronzio: l’assenza del pianto. Le teste coperte da una peluria quasi iridescente si guardavano intorno con aria curiosa e calma, come se non fosse stata la prima volta che venivano al mondo. Per Ingrid era chiaro che non sarebbero mai appartenuti a lei. Quello che non si aspettava era che i gemelli fossero estranei anche a tutte le altre persone.

Se ne stanno in disparte quando trascorrono il pomeriggio in piscina, due gracili albini dalla pelle dorata che comunicano tra loro a rapide occhiate. Ogni tanto le portano ai piedi una lucertola, un uccellino, spaventando le ragazzine armate di braccioli che scappano inorridite. Quando le hanno portato un cucciolo di gatto morto e senza occhi, già mangiati dagli insetti, ha chiarito una volta per tutte che non gradisce quelle offerte. Per un po’ hanno smesso, ma da qualche tempo hanno ricominciato.

Il sole le batte sugli occhi chiusi. Ingrid sente una voce femminile rivolgersi a lei ed è pronta a ricevere l’ennesima lamentela di qualche mamma scocciatrice sull’educazione dei suoi figli. Apre gli occhi e le mille luci arancioni e verdi che compongono il buio delle sue palpebre si dissolvono lasciando il posto a una figura sinuosa e abbronzata. Una donna molto attraente le chiede se si sono già incontrate prima, magari a qualche festa di condominio, lasciando cadere la domanda in un silenzio carico di sottintesi. Risponde che senza dubbio non si conoscono. La guarda sfilare via sulla passerella della piscina e ripiombando nel buio delle palpebre chiuse ripensa al fare ammiccante della donna, forse avrebbe dovuto essere più cordiale. Pensa a suo marito e al modo gentile con cui l’aveva avvicinata la prima sera che l’aveva vista nuda. La sua incrollabile, estenuante gentilezza la travolge ancora.

Quella notte si alza in preda a una sete dolorosa, spesso dimentica di bere per tutto il giorno per poi trovarsi a tracannare una bottiglia intera. La porta a vetri è rimasta stranamente chiusa, e una volta tornata dalla cucina va ad aprirla. Mentre fa scorrere il vetro, si accorge di un baluginare sinistro proveniente dalla piscina. Strizza gli occhi e le pare di distinguere dei corpi che brillano nel buio. Un gruppo di persone, completamente nude, si rincorrono, ballano, muovendosi come al rallentatore. Alcuni hanno seni pesantissimi, altri lunghi peni penzolanti, altri ancora natiche piccole e luminescenti. Turbata dalla visione, si butta di nuovo nel letto, anche quella notte vuoto.

Le sembra di attraversare da giorni un deserto rosso di fuoco, i piedi procedono senza che li possa controllare, e mentre avanza sente la polvere stratificarsi sul suo corpo nudo. Alla fine del deserto sta la piscina, che ha perso la sua solita incuria e invece è un unico, lucidissimo blocco di acqua perfettamente blu.

Una fila di persone la aspettano e lei capisce subito cosa fare. Si sdraia sul lettino al centro del gruppo, chiude gli occhi e dischiude le gambe, offrendo il suo sesso. Una alla volta, tutte le persone presenti si chinano a bere in mezzo alle sue cosce come da una fonte sacra, provocandole un piacere vicino al disgusto. Indietro nella fila, socchiudendo gli occhi, le sembra di vedere suo marito in rispettosa attesa del suo turno.

Una leggera brezza viene dalla porta finestra e riempie la stanza di una fragranza lunare. A Ingrid sembra di riemergere da una materia vischiosa e scura quando sente il marito rientrare. Si infila dolcemente nel letto e, credendola addormentata, le sussurra all’orecchio «Amore mio, stanotte sei stata bravissima». Senza capire il senso delle sue parole né in che direzione sia orientato il letto nella stanza, si rimette a dormire, girandosi con uno scatto deciso dal lato opposto al marito.

Ingrid si sveglia di soprassalto per l’odore di bruciato. Sa che gli incendi sono all’ordine del giorno sull’isola. Quell’odore di legna bruciata le ricorda le prime tastatine sotto la maglietta e la lingua in bocca davanti a un falò di tanti anni fa. La sua familiarità lo rende ancora più allarmante e aprendo gli occhi si sorprende di vedere suo figlio che silenziosamente le fa cenno di seguirlo. Dalla terrazza illuminata dal pallore lunare si affacciano sulla piscina e Ingrid ha un sussulto. La lava sta fluendo nella piscina, scoppiettando di tanto in tanto e investendo di una spessa luce arancione tutto intorno. Il magma lambisce la passerella di legno che stranamente non prende fuoco, ma sfrigola inscalfita. Mentre in preda al panico cerca di capire da dove scorre la lava, Ingrid vede l’altro gemello in piedi di fronte alla piscina, incantato dall’orrendo ribollire. Ha l’aria di chi, dopo aver tanto pregato perché venga la pioggia a irrigare i campi, guarda ora il temporale come se ne fosse personalmente l’artefice. Ingrid si ritrae dalla balaustra, sottraendosi all’ennesimo regalo dei gemelli. Reprime l’istinto di urlare per svegliare il marito, attraversa il corridoio e si chiude alle spalle la porta d’ingresso. Scende le scale del condominio, percorre la passerella di legno intravedendo con la coda dell’occhio il bagliore vivo della piscina, poi si dirige verso il cancello del parco, lo varca e viene ingoiata di nuovo dal blob nero delle tenebre.

Cammina sulla terra rossa, attraversando la notte col corpo ritornato leggero. Sente a ogni passo il riaffiorare delle domande che col pensiero aveva allargato e disteso fino a perderle nella piscina. La paura è il sentimento a partire da cui rinnova i voti con sé stessa, la spinge a procedere ignorando i cespugli che la graffiano e i sassi su cui incespica. La terra esala un alito caldo che si alza sulle gambe e sul pube. La campagna respira con lei e Ingrid inala gli odori da cui si era sentita tradita perdonandoli disperatamente, sono l’unico segno vitale che percepisce nel buio oltre al rumore dei suoi passi. A un tratto si sente di essere seguita. Voltandosi distingue in fondo alla strada una sagoma brillare. Pensa subito alle figure che danzavano in piscina, d’istinto le viene da coprirsi il petto. Un cervo bianco dalle corna intrecciate come piante vulcaniche la fissa negli occhi, sbarrando la strada. Con un brivido Ingrid capisce che non c’è modo di liberarsi dell’isola.

NdR: L’immagine: rayografia di Anaïs Tondeur, a partire da una pianta di lino (Linum strictum) contaminata, nell’ambito del progetto Chernobyl Herbarium (2011-), per gentilissima concessione dell’autrice (© Anaïs Tondeur)

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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