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La sostanza degli arti mancanti

Foto di Justus da Pixabay

di Elena Nieddu

Il Ponte crollò mentre stavano costruendo la mia casa.

In quel tempo, quasi ogni giorno, l’architetto e io andavamo a scegliere cose nei capannoni della valle, parallelepipedi prefabbricati, piatti e larghi, cresciuti negli anni lungo il greto del torrente, abbracciati da strade che nessuno si sarebbe mai sognato di percorrere a piedi.

Migravamo da un posto all’altro passando in rassegna mattonelle, parquet, vernici, lampade. Concludevamo il tour nel magazzino più grande, quello dove si vendevano certi mobili nordici, con linee pulite, adatti a vite a basso voltaggio.

Il negozio, un capannone blu e giallo, si trovava accanto al Ponte. Lo visitavamo come se fosse stato un museo, dissipando energia nei singoli ambienti ricostruiti a immagine e somiglianza di abitazioni plausibili. Ci fermavamo a metà percorso per mangiare un boccone; assaporavamo polpette e purea, mentre ascoltavamo le macchine che sfrecciavano sulle tre lettere “A” del Ponte prima di sparire nella galleria che le avrebbe sputate altrove, lontano.

Lo facemmo anche il giorno prima che il Ponte crollasse. Era una domenica di sole, sotto Ferragosto. La gente affollava le spiagge, lasciandosi percorrere da un brivido afoso e umido. Noi, invece, ci godevamo l’aria condizionata, molleggiando stancamente fra le camerette, i soggiorni pieni di imperfezioni create ad arte per far sembrare più veri gli ambienti. Quelle tracce di vite immaginate mi facevano desiderare una vita vera, con scatole di plastica traboccanti di pelouche, vassoi pieni di biscotti, giornali spiegazzati lasciati lì a ingiallire. Invece, la casa che stavamo costruendo sarebbe stata bella, enorme e vuota. Un’occasione sprecata. Così pensavo, mentre sul Ponte le onde di auto si srotolavano pigramente e si frangevano morbide nel tunnel e la loro eco, amplificata, vibrava nei timpani assieme al chiacchiericcio dei pochi clienti.

Mi sembrava di sentirla ancora, l’eco delle auto, quando tornai al negozio per ordinare la cucina nuova. Una delle tre “A” del Ponte si era inginocchiata sul letto del torrente, arresa al suo stesso peso, ma il rumore del traffico fluttuava ancora nell’aria. La seconda “A”, sospesa sul vuoto, sembrava una cavalletta con il muso di una salamandra, dotata di più lingue biforcute, pezzi di guard-rail e cavi elettrici, mentre la terza manteneva, con la sua fermezza, una parvenza di normalità. Dal ristorante del negozio non si vedevano i pezzi esanimi di asfalto grigio venato di giallo e bianco, tranne che da un’unica posizione, in fondo alla sala. Il posto era occupato da un ragazzo sui trent’anni, che guardava fisso davanti a sé. Sulla sedia accanto, aveva appoggiato un grosso casco nero, assieme a uno zainetto. Dava le spalle al centro del locale, semivuoto, fissando il Ponte, in direzione contraria rispetto a tutti gli altri avventori, accomodatisi in modo tale da evitare quella vista.

Da lontano, l’architetto e io guardavamo il ragazzo, ben sapendo che avremmo dovuto chiamarlo uomo. Osservavamo la sua schiena eretta, la nuca di carne bianca e i capelli castani tagliati molto corti, e il gomito destro che sporgeva dalla silhouette, ritmicamente, a brevi intervalli. Quando ebbe finito il pranzo, la figura restò immobile; il profilo della testa, buio, contro la luce abbagliante della vetrata.

«Guarda quello», disse l’architetto, infilzando un dolce ai frutti rossi.

Mi voltai proprio mentre il ragazzo si stava alzando. Gli occhi azzurri, grandi e vuoti, si allargarono tutt’attorno, senza vedermi. La bocca statica, inerme, era quella di un efebo. La malinconia che gli piegava le guance era familiare: pensai di conoscerla, ancor meglio della mia.

Tornai nel negozio da sola, dopo un paio di giorni. Le lingue biforcute pendevano sempre dal Ponte. Nel greto del torrente erano iniziati i lavori. Il ragazzo era ancora là. Oltre la sua sagoma, al di là dei vetri, gli occhi azzurri fotografavano qualcosa che io non vedevo. Le immagini innescavano pensieri che non potevo indovinare. Cominciai a fantasticare di interrogarlo; di sedermi al tavolo di fronte a lui, lateralmente, per non dargli fastidio, appoggiare il vassoio del pranzo in modo da farlo confinare con il suo, solo per un angolo, un minuscolo punto di plastica. Attaccare discorso e ascoltare le sue rivelazioni. Rimanere lì a parlare per tutto il pomeriggio, sotto le luci a led, cercando di capire se la nostra, la sua tristezza, fossero davvero un male incurabile.

Bastò molto meno. Fu sufficiente sedermi e guardarlo, come a un tavolo di dissezione. Vedevo l’umore bianco della sua iride accordarsi al candore della camicia estiva e illuminare il profilo di un bagliore glaciale. Ruotò il viso dalla mia parte e incominciò a raccontare. La voce uscì da un tempo lontano, increspata dal lungo silenzio.

«Ero là sopra, la sera prima» disse, indicando con il mento il relitto del Ponte. «Alle due di notte. C’era qualcuno accanto a me. Il vino, il caldo, il sonno. Temevo di sbagliare strada, come era accaduto a mio padre». In fondo al Ponte, raccontò, c’era uno svincolo complicato: era facile mancare l’uscita giusta. Bastava un attimo di distrazione e ci si ritrovava in stallo, lambiti dal flusso delle auto, protetti solo dalle linee bianche spartitraffico, senza riuscire più ad andare avanti, né indietro. Seduto sul sedile posteriore di una Fiat 127 verdognola, il ragazzo, che all’epoca era soltanto un bambino, aveva vissuto con vergogna l’arrivo della polizia stradale e osservato il rossore crescente sulle guance del genitore. Da quel momento, quando percorreva il Ponte non aveva altro pensiero che il non sbagliare, non sbagliare, e anche nella vita era sempre stato ossessionato da quella direttiva: non sbagliare.

Invece, aveva sbagliato tutto. Non era stato attento. Nemmeno la sera prima che il Ponte crollasse aveva prestato attenzione: «Avrei potuto sentire qualcosa, salvare delle vite». Rimasi in silenzio, dubbiosa. «I presagi ci sono sempre, siamo noi a non saperli leggere». Si fermò per bere un sorso d’acqua da un bicchiere di plastica e continuò. «Alla mia vita è accaduta la stessa cosa» disse «avrei dovuto capire che stava crollando». Un sogno, mi disse, lo aveva avuto anche lui. «Quello più banale: una famiglia, dei figli. Sarebbe bastato così poco: guardarlo tutti i giorni. Fare qualcosa per lui. Dedicargli delle attenzioni. Riconoscere la sua grandezza. Invece, l’ho lasciato andare».

«Mi avevi già notato, vero? Lo so, sembro un po’ strano. Anche loro lo pensano. Le signore al bancone, ridono di me. Dell’uomo che guarda le macerie. Pensano che abbia una rotella fuori posto, o che sia un voyeur, un turista del dolore. Da piccolo amavo le rovine. Mi piaceva aggirarmi fra le pietre che avevano retto civiltà magnifiche. Per mano a mio padre, ascoltavo le storie raccontate dalle guide e inventavo mondi nei quali ero un uomo potente. Ma, un giorno, improvvisamente, scoppiai in lacrime. Mio padre lo ricorda ancora: eravamo in Scozia, tra le rovine del castello di Urquhart. Mentre le acque del lago si agitavano, sentii per la prima volta il lamento delle pietre. Vidi ribollire in me il dolore, tutto quel dolore, in un essere così piccolo. Mi accompagnarono fuori dal percorso, ma continuai a piangere, senza più voce, tra le gocce di pioggia». Specchi di una tristezza adulta, pensai. Presagi. «Quel giorno, decisi che avrei costruito: ponti, strade, case, castelli». La curiosità, venata di desiderio, che pure sentivo nascere, era paralizzata da quella disperazione compressa. Qualunque sentimento debba aver provato, mi dissi, lo ha menomato per sempre.

«Ti chiederai cosa c’entri tutto questo con me» disse. «Vedi, i mobili della nostra casa – rossi, turchese e bianchi – Marianna e io li avevamo comperati qui. Questo ci rende uguali a molte altre coppie di questa e di mille altre città. Ma noi siamo nati qui, ci siamo conosciuti proprio a questo tavolo. Era seduta dove sei tu, adesso, di fronte a me, un po’ di lato. Venivo qui per guardare il Ponte, per dirmi: un giorno ne costruirò uno anche io. Sai come succede, no? Una chiacchiera, un’altra. Una battuta, un po’ di sarcasmo sulla gente qui attorno. Come gli studenti che la sera si preparano una pasta aglio e olio e pensano di avere il mondo in mano. O la coppia di anziani che si sente ancora giovane, nella cucina giallo limone, in una casa pagata per tutta una vita e ora cadente».

Rimase a lungo in silenzio. Puntò i gomiti sul tavolo e affondò il mento tra le mani. Ne approfittai, per stendere un avambraccio sul tavolo, parallelo al vassoio. Il mio corpo si allungava verso di lui. Sembrò non accorgersene.

«Ho divagato» aggiunse, come risvegliandosi «capita spesso a chi non parla mai con nessuno».

«Che cosa è successo, poi?».

«Che cosa vuoi che sia successo?» rispose «abbiamo iniziato a vederci, finché lei non è venuta ad abitare da me. Ha voluto cambiare tutti i mobili: una nuova vita, diceva. Solo che i mobili nuovi non sono bastati».

Giorno dopo giorno, sono passati gli anni, mi raccontò.
Strisciando, la vita si infilò tra di loro.

La casa arredata di fresco, pian piano, ingiallì e annerì. I mobili colorati diventarono la cinica allusione all’assenza di un bambino. Uno strano disordine, disse, aleggiava dappertutto, come le ragnatele di polvere sugli angoli del soffitto. Le parole scomparvero dalle loro cene, così come i baci della buonanotte, rintanatisi in chissà quale inferno freddo.

«Mi aveva derubato dei miei sogni» disse il ragazzo «iniziai a disprezzarla».

Mi accorsi che la sua voce era diventata più profonda. Guardò fuori dalla finestra, verso il Ponte, verso il greto del torrente dove le ruspe gigantesche cercavano, appianavano, scavavano, livellavano. «Lei è qui» disse infine «come uno spirito buono. L’ultima volta la vidi sulla porta di casa nostra, con una borsa sulle spalle e un tappetino viola da yoga. Mi salutò sulla porta, scese di corsa i gradini che dividevano il “dentro” dal “fuori”, che separavano la mia Marianna dalla Marianna di tutti. In quel presente lei era: viva, carne ardente, polmoni, fiato di spezie, voce. Lei sapeva, io no, che ci saremmo persi».

Osservò lo spazio attorno a sé. Gli occhi, sgranati, sembravano dipinti.

«La vidi scendere quei gradini senza provare alcun sentimento. Chiusi la porta con forza, ma il rumore venne quasi coperto dalla suoneria del mio telefono cellulare, proveniente dalla stanza accanto. Mi precipitai a rispondere. Dopo anni che chiedevo una promozione, mi veniva offerto di aprire una sede all’estero. Prendere o lasciare. “Subito”, disse il mio capo. “Prendo”, risposi”.

Passarono le settimane, colarono i mesi, raccontò. «Di lei, dei suoi pensieri, non seppi più nulla. Una sera, un comune amico mi mandò una fotografia di una festa di compleanno. C’era lei, in mezzo a tanta gente. Era di spalle, aveva i capelli rasati. Non so neanche perché, le mandai un sms: “Cambiato look?”. Mi rispose con una faccina sorridente».
«Volavo avanti e indietro» continuò «su quegli aerei mi trasformavo. Cercavo un altro me, diverso da questo che ha le mie mani e i miei occhi ed è solo».

Nella sala eravamo rimasti noi due. Il tempo del pranzo era passato. I tavoli odoravano di detersivo e si preparavano ad accogliere singole tazzine di caffè.

«Vedo me stesso all’aeroporto di Manchester, o forse di Buenos Aires, con un computer portatile sulle ginocchia, mentre lavoro. Voglio ignorare Marianna e fare finta che mai sia esistita. Mi vedo nel cielo, sulle nuvole senza meta, senza un indirizzo in tasca, a parte quello di un hotel. Avanti così per mesi. Finché un giorno, lassù nell’atmosfera, sento una morsa che mi chiude il petto. Era lei, Marianna. Era accanto a me. Potevo sentirla, anche dopo averla tagliata via da me».

«L’aereo non fa neanche in tempo ad atterrare, che sono già al portellone, con il cellulare in mano. La Butte e Notre Dame mi guardano da poster troppo belli per essere realistici, mentre corro, più in fretta che posso. Mi fermo davanti al nastro pieno di valigie colorate per accendere il cellulare, che ad agganciare la linea impiega un’eternità. Intanto, l’impazienza cresce: so di doverle mandare quel messaggio. Vorrei dirle: torniamo assieme. Invece scrivo: stai bene? Il messaggio parte, vola, viaggia, atterra, viene letto. Nessuna risposta».

«Così arriva la vigilia di Ferragosto. Mi sveglio in una stanza che non riconosco subito. Non c’è luce, sembra il giorno dei morti. La pioggia insistente, fuori dai vetri, velati da una patina di polvere. Il lenzuolo prende una curva dolce, una parabola: non sono solo. Accanto a me, sulla destra, una cascata di capelli scuri in morbide volute. Sulla sinistra, su un tavolino quadrato, come quelli che vendono qui a pochi euro, il mio orologio dorme acciambellato, vicino al cellulare. Mentre lo sto guardando, il telefono si mette a vibrare. La scritta bianca sul nero dello sfondo traccia un nome che credevo di avere dimenticato, quello della madre di Marianna. Incredulo, striscio con il dito sul vetro gelido per rispondere, incollo l’orecchio a quella lastra liscia e indifferente. Mi concentro per ascoltare quelle parole, così come la sera prima sul Ponte cercavo di non sbagliare strada. Ascolto, con la guancia che diventa calda finché, a un certo punto, non riesco a sentire più niente, perché centomila sirene suonano all’unisono, diventando più deboli man mano che si allontanano. La donna accanto a me si è svegliata, è seduta sul letto, il lenzuolo le incornicia i fianchi. Mostra lo schermo acceso del suo telefono. Ha i capelli bagnati e le labbra livide. Dice soltanto: “È crollato il Ponte”».

Un silenzio vero cadde fra di noi, inquinato dal clangore di pentole dalla cucina. Guardai il viso del ragazzo, aspettando le lacrime. Invece lui chinò la testa. Allungò le braccia sul tavolo davanti a sé, arreso. Svuotò i polsi di ogni forza e restò immobile, le mani chiuse. Nell’incavo del palmo destro sentii un’onda di elettricità: un istinto antico. Ne ascoltai attentamente le vibrazioni, valutandone la sostanza. Infine, assecondai le dita, che si spinsero in avanti, impavide, attraverso un deserto d’aria.

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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