Il branco

Foto di andreas N da Pixabay

di Marco Angelini

A casa ho fatto le cose per bene per mantenerla come l’hai lasciata. Dopo il lavoro ho trascorso il più del tempo in officina e mi sono preso cura di Tobi.

Con il nostro giardino ho fatto il possibile. I gelsomini hanno resistito, le rose bianche invece sono morte e le ho sostituite. Quando cresceranno non si noterà la differenza.

Il problema dei cinghiali è peggiorato. Mi hanno sempre fatto paura. Pensavo che prima o poi sarebbero scesi dalle colline tutti quanti insieme e che allora non avremmo avuto scampo.

Nel quartiere hanno creato un comitato. E c’è stata la sera della figuraccia: la prima maglia di una catena di eventi.

Avevamo completato il giro del parchetto e iniziava la discesa. Tobi tirava per stare dietro alla barboncina bianca che abitava all’incrocio. La donna dei papaveri – quella che li semina per file di colori diversi – raccontava che sua figlia aveva iniziato a insegnare yoga in un centro benessere e le altre dicevano quanto sarebbe stato divertente se ci fossero andate tutte insieme. Quella che aveva il giardino invaso dai gerani ci rivelò che suo figlio avrebbe adottato un bimbo o una bimba, non lo sapevano ancora. Allora pensai che io e te non avevamo mai avuto figli e avevamo deciso di escludere l’adozione.

Ogni sera le donne facevano a turno coi discorsi, sembrava che ognuna sapesse quando le toccava raccontare qualcosa, che fosse una novità o una notizia risaputa. Il mio turno non veniva mai e se, raramente, accennavano a te, si voltavano a guardarmi. Io allora mi limitavo a dire “Eggià” e poi riprendevamo a camminare.

Stavo sereno in mezzo a tante donne perché non sei mai stata gelosa. E poi eri la più bella, anche quando ti eri tagliata i capelli cortissimi fino a non vederli più, che era diverso da non averli più.

Appena abbiamo svoltato su per la via che portava ai terreni comunali e alla casa dei bassotti – di solito erano loro a staccarsi dal gruppo per primi – ci siamo trovati di fronte due cinghiali. Stavano proprio in mezzo alla strada. Un terzo, ancora più grosso, è sceso dai monti dove ce n’erano chissà quanti altri e li ha raggiunti. I bassotti hanno abbaiato per primi e tiravano per andare incontro a quelle bestie. La barboncina ha urinato. Tobi è rimasto fermo, emetteva un ringhio che lo faceva tremare tutto. Poi anche gli altri cani hanno abbaiato e le donne hanno gridato: “Oddio, oddio!”. Una ha suggerito: “Prendete in braccio i cani!”. Ma non abbiamo fatto a tempo. I bassotti hanno raggiunto il segugio e le loro padrone si sono trovate coi guinzagli incrociati, quando ho avuto l’impressione che i cinghiali si muovessero verso di noi.

Sono fuggito. Ho tirato forte il collare e ho trascinato Tobi per un paio di metri, poi finalmente ha corso anche lui. Mi ha raggiunto e non so chi dei due avesse più paura. Se fosse stato ferito dai cinghiali, o peggio, non me lo sarei perdonato. Non m’importava se avevo lasciato le donne nei guai.

Abbiamo corso fino a casa lungo la strada deserta. Quando siamo entrati nel giardino ho chiuso il cancelletto e poi l’ho scosso prima con la destra e poi con la sinistra – come facevo ogni volta – per accertarmi che tenesse bene. Ma non so come, ero affannato e girava tutto, voltandomi sono inciampato nel guinzaglio di Tobi e sono finito steso per terra.

Mi sono tirato su e non ho visto nessuno per strada o affacciato alle finestre. Le luci di casa erano spente, a parte quella della cucina: dalla tua morte l’ho tenuta accesa notte e giorno.

Per farmi perdonare, ho cucinato la zuppa come piace a te – con il nostro rosmarino – e sono rimasto sveglio per farti gustare un vecchio film fino alla fine.

Da quella sera prima di dormire guardo la collina e mi sembra di sentire i cinghiali che grufolano, sempre più numerosi.

Il giorno dopo sono andato in lavanderia: non era giornata di lavaggio, ma con quei pantaloni e la felpa sporchi di fango ho dovuto anticipare. L’avresti fatto anche tu.

La seconda lavatrice da sinistra era libera, quella che usavo il venerdì. Le facce però erano diverse dalle solite. Una donna inseriva un piumone nell’asciugatrice, un ragazzino leggeva un fumetto e mi sono chiesto perché non fosse a scuola.

Ricordo che avevo due gettoni e non bastavano. Ho tirato fuori una banconota e sono andato alla macchinetta per cambiarla. Due uomini stavano seduti vicini e parlavano. Il più grasso portava un berretto con la visiera e gli occhiali scuri. Ha aspettato fino all’ultimo per tirare a sé le gambe e lasciarmi passare. Ha detto: “Ehi”. L’altro ha riso. Aveva una giacca verde senza maniche piena di tasche e la barba folta. Io ho raggiunto la macchinetta e ho cambiato una banconota. Poi ho pensato che avrei potuto sbagliare qualcosa e non volevo proprio tornare a casa con i pantaloni e la felpa sporchi. Non volevo neanche far spostare di nuovo le gambe all’uomo grasso, così ho cambiato una seconda banconota, ma questa volta con l’altra mano.

L’uomo con la barba se la lisciava e ne allungava la punta con le dita. Ha chiesto all’altro: “Com’è andata ieri la caccia?”

“Alla grande” ha risposto quello col cappello e ha raddrizzato la schiena.

“Ho inaugurato il fucile nuovo” ha detto e avrei voluto che non raccontasse altro, perché a te non piaceva la caccia e detestavi i cacciatori. “Eravamo andati per fagiani. C’è sempre una certa competizione con mio cugino, ma ne avevo già tirati giù un paio mentre lui era a secco e il cane rispondeva bene.”

L’uomo con la barba si è alzato e ha camminato fino alla porta, ha allungato il collo fuori e si è scusato: “Controllo la macchina” ha detto. L’altro ha ripreso: “Superavo mio cugino per tre a zero o tre a uno e salivamo il crinale per tornare verso l’auto. Quando siamo sbucati sulla strada, saremmo stati a duecento metri dal parcheggio, mi sono trovato un cinghiale proprio davanti, che mi guardava. Appena ho visto che dietro aveva i cuccioli, ho capito. Ma il tempo di imbracciare il fucile e già mi caricava! Cento chili, anche centoventi, che mi correvano dritti addosso. Il primo colpo le ha fatto partire di netto la zampa anteriore e un pezzo di petto, bam!” L’uomo si è tolto gli occhiali e si è portato la mano sul davanti, sopra il cuore.

Ho inserito il gettone con la mano destra e fatto partire la lavatrice con l’altra. Non ero sicuro di essere stato attento durante tutti i passaggi.

“E tuo cugino?” ha chiesto l’uomo con la barba mentre tornava alla porta per guardare in strada.

Io mi ero seduto e fissavo gli abiti che giravano in senso orario nel cestello. Non li lasciavo incustoditi – altri lo facevano, io mai – neanche quando li mettevo nella asciugatrice. Anche quella girava in senso orario.

“Ha continuato a caricarmi, roba da non credere, con una zampa in meno e un pezzo di petto che le penzolava come se indossasse un medaglione.”

Avrei voluto che quell’uomo la smettesse. Avevo la scena proprio davanti – e se ce l’avevo io, ce l’avevi anche tu –: la strada fra gli alberi, il cinghiale ferito e il cacciatore con il fucile in mano, tra me e lo sportello della lavatrice. Amavi gli animali e le piante. Volevo che quell’uomo la smettesse di raccontare.

“Ormai stava in piedi appena. Ho acchiappato un piccolo per non farlo scappare e me lo sono premuto sotto al ginocchio. Per poco non sono riuscito a prenderne anche un altro. Appena è arrivato, mio cugino ha visto la scena e ha gridato: “Eccheccazzo!” I cani hanno abbaiato e in quel momento ho fatto partire un secondo colpo. L’ho conficcato nel punto esatto in cui il petto era aperto, s’è infilato proprio lì e l’ha squarciata da dentro.”

“Cazzo!” ha commentato l’uomo con la barba. Muoveva le gambe avanti e indietro come facevo a volte io sul lavoro, quando non riuscivo più a stare seduto senza far niente.

“E il piccolo sotto al ginocchio?” gli ha chiesto l’altro. Mi sono tappato le orecchie per non farti sentire, ma l’ho udito comunque.

“L’ho fatto fuori per ultimo” ha risposto. “Gli altri sarebbero scappati se non fosse stato per il mio cane. Era proprio in forma quel giorno.”

“Uno stronzo vuole uscire” si è lamentato l’uomo con la barba e ha tirato fuori le chiavi dell’auto mentre si allontanava. Ora è il momento, mi sono detto.

Il conto alla rovescia indicava centoventi secondi alla fine del prelavaggio. Mi sono alzato, ho messo le mani nelle tasche della giacca e mi sono guardato riflesso. Ho camminato verso la macchinetta dei gettoni. L’uomo con il cappello aveva di nuovo le gambe tese. Non le ha ritirate quando mi sono avvicinato. L’ho scavalcato con un piede, poi mi sono voltato verso di lui, ho alzato lo sguardo mentre tiravo la mano destra fuori dalla tasca. Gli ho puntato contro l’indice, ho mirato dritto al cuore, ho atteso un istante e ho contratto il dito medio. Sono andato alla lavatrice, il conto alla rovescia è terminato. Avevo un ronzio tanto assordante nelle orecchie che non sentivo nulla. Ho riposto gli abiti bagnati nella sacca e sono corso via. Appena fuori dalla porta ho incrociato l’uomo con la barba che rientrava, ma nessuno mi ha seguito, nessuno mi ha raggiunto. Sono arrivato fino a casa, sono entrato in bagno e ho preso la mia medicina. Quando serve devo prenderla doppia, come quel giorno. Anche tu conservavi i medicinali dietro allo specchio. Ricordi? Gli ultimi giorni ne avevamo tanti che lo spazio non bastava.

Ho steso gli abiti e ho atteso. Nei giorni seguenti non è successo niente.

Da quel giorno ho perso l’equilibrio. Adottavi la regola della media: anche se per un po’ le cose vanno meglio o peggio, dopo tornano a essere nella media. A casa Tobi guaiva e sul lavoro mi dicevano: “Vai a fare due passi di sotto”. “E l’ingresso resta sguarnito?” chiedevo io. Stavo seduto a bordo del corridoio al mio solito posto, sulla sedia di legno con il cuscino alto: come spiegavo sempre, primo piano in ascensore, secondo se sali a piedi. C’è la porta a vetri e poi sulla sinistra la mia scrivania. Mi rispondevano: “Ci sta qualcun altro al tuo posto”. Allora camminavo, a tratti correvo, lungo i corridoi e per le scale mentre pensavo a cose. Se fossi stato Dio, soprattutto. Mi piaceva farlo: se fossi stato Dio non avrei creato qualcosa di mortale, così tu non saresti potuta morire e neanche Tobi. E poi pensavo ai cinghiali: sentivo sempre più vicino il momento in cui ci avrebbero assaliti in branco. La sera guardavo dalla finestra la collina nera dietro al cimitero e prima di dormire, che fosse caldo o freddo o piovesse, uscivo a controllare che il cancello fosse chiuso bene. I cacciatori andavano là, su quella collina che di notte sembrava un monte scuro, perché i cinghiali aumentavano ogni giorno.

Quando tornavo al mio posto, al primo piano della casa comunale se sali in ascensore, secondo se prendi le scale, non ci trovavo nessuno. Non ce la facevo a stare tranquillo. Allora mi sono deciso ad andare dall’avvocato, lo stesso a cui ti rivolgevi tu. Di solito mi lasciavi in sala d’aspetto e a me non dava fastidio perché faceva parte di quella intimità che dovevamo mantenere. Che si trattasse di una questione d’eredità o di un vecchio screzio con la tua famiglia, era personale e me lo avevi spiegato: “Devo risolvere un problema con l’avvocato prima di morire”, e così hai fatto. Io stavo in quella sala d’aspetto che aveva tante sedie e una panca di legno, la mia preferita perché sembrava una di quelle che ci sono in chiesa, con lo schienale alto. Le persone in attesa parlavano sempre dei problemi che l’avvocato avrebbe dovuto risolvere. Che fosse una o che fossero tante, le ascoltavo tutte e avevo l’impressione che la gente in quel posto avesse una vita peggiore della mia. Perché a loro le cose giravano peggio che a me.

Quella volta però non rimasi in sala d’aspetto: la segretaria mi accompagnò nella stanza grande dove c’erano un lungo tavolo di legno e sedie trasparenti intorno, una parete era occupata da una libreria piena di libri antichi, sull’altra invece c’erano due quadri enormi. Quando mi ha raggiunto l’avvocato gli ho detto che erano molto belli e lui è stato gentile: mi ha chiesto come stavo prima di affrontare la questione e io gli ho raccontato, ma sembrava sapere già un sacco di cose su di me. Poi gli ho detto: “Mia moglie mi ripeteva che con lei sarei stato al sicuro come un pesce nel becco di un pellicano”. Lui ha riso e mi ha guardato. Mi fissava eppure non ero certo che vedesse me soltanto.

“Eggià” ha detto e ho avuto l’impressione che lui, a differenza degli altri, intuisse qualcosa, che anche tu eri lì con noi.

Allora sono andato dritto al discorso della pistola, perché volevo sapere cosa mi sarebbe accaduto.

Qualche giorno più tardi, verso sera, è passato il prete mentre stavo in giardino. Uno sparo è esploso sulla collina. Tu lo hai sentito? Don Carlo non vi ha badato: si è appoggiato alla staccionata e mi ha salutato con un cenno. Sembrava in cerca di qualcuno diverso da me.

Ricordo che dopo il funerale mi disse: “Lei era il tuo innesto. Una vite senza innesto resta fuori da tutto quanto. Perciò devi farti aiutare, adesso.”

Io sapevo che aveva ragione, ma avrei preferito chiedergli perché non aveva voluto che avessimo figli, invece che parlare di quello. Era stato lui a consigliarti di lasciar perdere prima di averne uno nostro e anche dopo, quando parlavamo di adozione: lo so perché l’ho sentito dire alla donna che sta vicino al campetto da calcio, quella che ha la grossa terrazza senza neanche una pianta o un vaso di fiori.

Poi è esploso un altro colpo, più vicino: era sicuramente uno sparo anche quello e il prete di nuovo non ci ha fatto caso. Sapevo cosa succedeva in cima alla collina. “Entriamo in casa” ho detto a Tobi “Su bello”, l’ho tirato per il collare e Don Carlo mi ha salutato, poi si è staccato dalla staccionata e ha ripreso la strada. Io e Tobi siamo andati in officina, abbiamo chiuso la porta a chiave, ho controllato di averla chiusa bene, poi appena ci siamo avviati verso la porta di casa ho iniziato a correre. Vai con calma, mi hai consigliato, ma le gambe non ti davano retta. Prima di fare i gradini ho sentito tremare l’aria, è partito un fischio nella mia testa e mi sono voltato: li ho visti sbucare fuori dal bosco come puntini veloci che si lasciavano dietro una nube di terra. I cinghiali hanno superato il cimitero e hanno invaso la strada puntando dritti alle nostre case. I cani del quartiere hanno cominciato ad abbaiare e si alzavano grida. Io e Tobi siamo entrati e abbiamo chiuso bene la porta.

Ci siamo barricati dentro casa mentre fuori il branco calpestava ogni cosa. E allora per la prima volta mi sono fatto una domanda che ora rivolgo a te. Pensavo che avrei avuto più tempo, invece i cinghiali incombono, torneranno ancora sempre più numerosi e il recinto non reggerà per sempre e neanche i muri di casa alla fine basteranno a tenerli fuori. Per cui mi chiedo – lo chiedo a te – quando arriveranno, che fine farai tu?

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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