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Fluminiano

Foto di Christian_Birkholz da Pixabay

di Matteo Ubezio

Archeologia

Fluminiano è un paese antico, emerso alla superficie della terra al tempo dei romani sul margine nord-occidentale della val Padana, là dove prendono l’abbrivio le scure montagne della Valsesia. Non ci sono oggi a Fluminiano lapidi o cippi che rimontino così indietro nel polverulento corridoio dei secoli ma un aratro messo a dissodare un lotto di bosco abbattuto bastò perché un bel giorno le campagne aduse al lavoro spícciolo del coltivatore diretto, restituissero dei bei sassi di fiume che nel loro disporsi dicevano di una rustica arte, di una pur rozza intenzionalità architettonica; e poi mattoni, coppi, rottami di inconoscibili anticaglie, perfino monete e una corta spada, un pugnalone tutto scontorto dalla ruggine. Erano i Romani ed erano gli anni Ottanta, al loro principio, a ritrovarli. Nei giorni seguenti la scoperta fu una gara ad accaparrarsi le più inedite licenze. Era stata solleticata la meritoria manìa degli storici ed ora anche archeologi locali e di altri trafficoni che, armati di vanghe, badili, palette e fili da agrimensore si gettarono a scavare qua e là per i coltivi sulle tracce di antichissimi insediamenti.

Cinta, sbanca, raspa, rileva, cataloga e dágli con lo zappino e la scopetta, per settimane e settimane si gruvierarono campi e boschi, finendo col portare alla luce le sobrie vestigia di un antico villaggio: esemplare, secondo la miglior vulgata latina, per virtù risparmiativa, cioè poverissimo.

Un poco discosta dall’abitato era riemersa come Troia allo Schliemann l’antica Fluminiano.

L’unica amministrazione di sinistra che mai si vide e si sarebbe veduta occupare le stanze del Municipio, euforica per la provvidenziale scoperta che pareva a modo suo confermare la bontà del voto in quella eccezionale tornata, benedisse i lavori e protesse l’archeologia. Il sabato e la domenica il paese usciva in bicicletta per andare a vedere i Romani e tante belle mattine di scuola le passammo a scampagnare.

L’estate segnò il culmine del furore storico-archeologico, poi però pian piano la corda cominciò ad ammollarsi e sugli scavi che forse avevan detto tutto ciò che avevan da dire, prese ad aleggiare un certo languore, un che di sonnicoloso, finché un giorno il cielo si coprì di nuvoloni barocchi e la stagione delle piogge incominciò sui cantieri fluminianesi. Dopo essere rimasti alla finestra a guardare la zuppa campagna che si beveva tutta l’acqua del buon Dio, pieni di brividi, uno a uno i volenterosi archeologi tornarono alla chetichella ai loro vecchi affari… “Domani, domani… magari… o dopodomani…” Nelle more dell’archeologia si rimisero in azione i contadini: uscendo dal forzoso letargo e tirando un antico sospiro di sollievo, zittamente fecero sparire quel che restava dei nastri biancorossi, scombinati qua e là dagli acquazzoni, ricoprirono le buche, spianarono i loro trivellati possedimenti e si rimisero a seminare la meliga e l’orzo per far girare il commercio dei grani. Alla faccia degli antiquissimi.

Ancora per qualche estate signoreggiò tra i bambini il sogno dell’archeologia, contrastato da quello affine ma di stampo esclusivamente libresco e scolastico della paleontologia, del dinosauro; per cui in più d’uno andammo in cerca del favoleggiato tesoro di San Michele che si diceva sepolto nei boschi dintorno al paese dagli ultimi monaci di un cenobio, il giorno prima dell’arrivo dei barbari.

Poi come ogni cosa anche la sbornia romana passò e il piatto forte dell’erudizione locale tornò ad essere il Medioevo, l’età del coccio e della spinapesce, giusto il plurimillenario materasso di ciottoli sul quale siede il nostro paese. Tra la chiesa del Mille e la muraglia del milledue, l’età di mezzo capita peraltro che sia anche più a portata di mano per chi s’abbia l’uzzo della storia locale, esibendosi i suoi smattonati sbréndoli sopra la superficie terrestre e non sotto.

Come che andò, questi fatti ebbero il merito di autenticare la patente di romanità di Fluminiano, da sempre reclamata in causa nella guerra dei municipalismi che non manca su queste terre dimenticate come su ogni lembo del glorioso stivale, dove ogni Fiorenza ha la sua Fiesole. Se è vero che nella communis opinio i Romani di Cincinnato e i barbuti che contrattavano in ostrogoto rincasando al suono di devote campane tendevano quasi sempre a confondersi, il réfolo archeologico aveva comunque dimostrato che i fluminianesi appartenevano al Corpus Iuris Civilis, a spregio degli abitanti del finitimo paese di Echildruta, che a un tiro di schioppo erano irsuti Longobardi dalla natura rozza e tudesca. Qualcuno distrattamente suggerì gens fluminia… dal bel nome azzurro forse di una certa sposa venuta dal Lazio figlia forse di un cugino adottivo di un pronipote di Giulio Cesare, l’ipotesi si fece voce, la voce documento e finalmente verità per i paesani a quel punto un po’ ebbri di supremazia; e così il favolato genoma era sigillato.

Cose che passavano in paese in quegli anni e che oggi non passano più

I carri armati in lunghissime file.
In cielo i caccia militari a due a due.
I camion dell’autostrada, cioè quelli che trasportavano avanti e indietro il materiale per la A26 allora in costruzione.
I giorni incantati della fiera agricola.
I giorni assurdi della fiera campionaria.
I motorini con la marmitta truccata.
Il rally. Sì, sullo scivolosissimo pavé della piazza.
Le orchestre da ballo.
La perpetua in piazza.
Le stupende ragazze grandi.

Il Mario Gambemorte, poliomielitico antennista cantante da osteria mendicante a Lourdes, che prima dell’avvento delle carrozzine elettriche si muoveva su un trabiccolo di sua ideazione composto smontando e rimontando a rovescio una bicicletta e altra fin lì insignificante meccanica.

I matti-miserabili, come il Carlo e il Ianu, fratelli.

Il Moffa, il Luigi Pidrinon e il Milcare, alcolizzati e ciclisti acrobati.

Me bambino.

Le risaie

Pochi chilometri a sud di Fluminiano si stendono le produttive risaie della bassa. Breve la strada dall’uno alle altre e il fiume che dà acqua a tutti è il medesimo; eppure i fluminianesi sentono un brivido correre lungo il filo della schiena ogniqualvolta attraversano quegli estenuati specchi d’acqua, quasi guardando si sappiano guardati da una grande, repulsiva forma di vita mostruosa, intossicante.

Là dove scompaiono i pioppeti e i boschi e a distesa d’occhio non si leva sull’orizzonte contro la lastra uguale del cielo e le colonne vorticanti di moscerini che una sperduta fazenda, là è il mondo di una razza di cuoio, rotta alla fatica, asciugata e dura più d’ogni altra. Gente che si nutre di rane, devota a lontanissimi santuari e a’ proprii cimiteri, di cui lustra i sepolcri più e più volte l’anno con cere speciali. Dediti da generazioni al coltivo del riso, gli uomini del riso e delle aie hanno in uggia le chiome e le ombre degli alberi: “Non si lasciano vicino alle risaie né alberi né siepi a motivo dell’ombra che vi porterebbero, ed anche perché vi accorrerebbero gli uccelli, che fanno tanto danno al riso”, e quindi, “Sulle orlature non si soffre nessun’erba, a motivo de’ semi ch’esse perderebbero, e che si spanderebbero nella risaia” (Nuovo Corso Completo d’agricoltura… Opera compilata sul metodo di quella del fu Abbate Rozier, Padova, Crescini, 1821, pp. 14-15).

Due secoli così, fedeli a un dettato che né rivoluzioni, guerre o progressi tecnologici hanno intaccato, il popolo delle risaie ha sistematicamente stroncato ogni speranza di vita a qualsiasi forma arborea o arbustiva potesse entrare in conversazione con la verdeggiante e poi bionda spiga del riso. Ed ecco che sulle immense distese d’acqua sorsero solitari i loro bellissimi cascinali, smisurati e industri come falansteri, eretti a capire le copiose famiglie padronali o dei fittavoli e ancor più, in estate, i fiotti sudanti, nervosi e super-ormonali delle mondine venete. Spesso in forma di ville tardo-rinascimentali (rottamati monumenti, oggi, di dinastie decadute), dove gli elementi classici dell’arco, della loggia, del frontone sormontato da svolazzi, rifatti però in mattone e calcina, stavano a sigillare agricoli trionfi; e come re barbarici rivestiti a imitazione di antiche memorie, nell’arsura osservavano dall’alto il passaggio di giganteschi carri di fieno e di paglia, vegliavano sulle preistoriche, fragorose trebbiatrici e gli essiccatoi meccanici, sulle pezze sudate di un’umanità inchinata alla fatica mostruosa del riso. E poi stalle leonardesche per cavalli ciascuno coinvolto in 10 quintali di muscoli onde vincere la diabolica polta delle risaie; e cortili, aie sconfinate che paiono ideate perché il sole vi si accoccoli senza che un solo sasso gli possa stuzzicare il culo quando in pieno agosto lui stesso, il grande palla di fuoco, si paralizza stremato dalla propria esagerata vampa… Ma basta così: se ho indugiato sull’incanto maligno delle risaie e delle pazzesche aie vercellesi è perché di lì vengono i miei nonni, lì giacciono una felicità e un dolore che l’una nel sogno e l’altro nelle solitarie veglie non mi lasceranno mai.

Il fiume

Fluminiano invece è cresciuta accanto al fiume, che col suo mormorìo e il suo scorrere e continuamente cambiare d’accento, di colore e di odore, mutare di letto, zigzagare, rinsecchirsi ed esondare ciclicamente, trasfonde tutt’intorno il suo spirito mercuriale, affabulatorio. Il paese è già proiettato verso nord, verso le prime ondulazioni che diventano in breve ripide montagne e ammattonano la Valsesia, fino al baluardo bellissimo del Monte Rosa sempre visibile all’orizzonte, di dove il fiume orgoglioso discende. Fluminiano è circondata da ogni parte da boschi cedui. Anticamente un po’ meno, a dire il vero: quando tutti o quasi i suoi abitanti erano contadini particolari, gelosi dei loro disseminati terreni i cui nomi, ripetuti tante e tante volte nel corso delle stagioni, erano noti ai docili cavallucci da tiro che uscivano dai portoni e imboccavano la via senza la guida delle briglie, al solo richiamo della voce: “al Campón”, “la Griscia”, “Seunt Miché”… e via, cloclò-cloclòp, cloclò-cloclòp… Mai i fluminianesi vollero che il redditizio ma infernale sistema della risaia toccasse le loro vite, e restarono Zuclói.

Oggi che i contadini sono scomparsi, la maggior parte di quei coltivi già messi a frumento, mais, vite, patate, sono tornati selvatici, coperti di boschi, come nella preistoria. Ci si passeggia la domenica, ci si va a far legna e funghi, castagne. Nei giorni d’estate si fa il pieno di frescura prima di sboccare sull’argine in pieno sole, torrido, del Fiume, di dove si scruta l’esile serpente d’acqua tra l’accecante bianchezza dei sassi, in cerca del punto migliore dove scendere e immergersi… Niente rane ma barbi e cavedani, trote e lucci, e per aria uccelletti a non finire, aironi bianchi e grigi, soltanto con il corollario in autunno di altrettante doppiette a rompere l’anima.

Fotografie

A Fluminiano ci vivono duemila anime. A detta dell’anagrafe il paese ne contava già tante ai primi del Novecento; e nel corso di un secolo le cifre non si sono granché mosse né su né giù. A guardare le vecchie foto, tra la fine dell’Otto e i primi del Novecento, si direbbe che i fluminianesi fossero tutti dritti come fusi e lampeggianti di sotto a virili mustacchi certi sorrisi da giorno di festa che è un piacere. Ci si immaginano cotechini, filze di mortadelle, le donne affaccendate attorno a bianche tavole della festa…, a scodellare frittura (andate a cercare “frittura piemontese”, scoprirete in primis che è un umido, malgrado il nome ingannatore, e poi e poi… oh… la sua opulenza, il suo barocco… cercatela ve ne prego…), il vociare grosso dei commensali imperlati di sudore e di godimento, la cuccagna dei gatti in cortile… Grandi baffoni penduli si rincorrono in quelle foto, gilet abbottonati su bianche camicie dalle ampie maniche, senza colletto, larghi cappelli e braghe sformate, ginocchiute.

La maggior parte delle immagini che si conservano ritraggono uomini di buon umore, compagnie di bevitori, cacciatori, farmacisti e ingegneri, lavoratori in posa davanti allo sterro, al muro che stanno realizzando. Tantissimi i soldati del regio, infagottati e compunti, sicuri, intorno al 1915; un po’ meno sicuri dopo. Le infinite famiglie con il nonno seduto nel mezzo. Spiegazzati gli abiti e sempre un poco impolverati, ma perdio completi di lóbia, giacca, camicia bianca, panciotto, orologio da tasca, braghe, scarpe o stivali. Spesso armati di fucile da caccia, la doppietta. E poi i maggiorenti, con le più inconfondibili facce da vecchi liberali, ricchi e schifapreti: imprenditori tessili e ferroviari, progressisti e all’occorrenza spietati, in mezzo alla polvere e al fango del far west.

E però, però. A guardarli bene, questi bei tipi di ammazzaporcelli e pistoleri, sono sempre gli stessi volti che si rincorrono per decine e decine di fotografie. I Foro, i Maggio, i Bandini, gli Almonte. Sempre loro. I benestanti: costruttori di ville dagli altissimi muri, feudatarii, glaciali, tutti in poca o tanta misura svezzati agli studi in città, ospiti di edifici liberty, pieni di cani da caccia negli ombrosi cortili porticati, pieni di doppiette, di macchine fotografiche…

Ma bisogna saperle guardare quelle foto; voler fare lo sforzo di collocarle nella storia giusta, altrimenti sarebbe come dire che fa bello tutto l’anno perché per cinque minuti si è guardato verso lo splendore del Monterosa in una fresca mattina di maggio e poi si è tornati a dormire.

Osservate la fotografia (1911) del Pedrito carrettiere, che fa eccezione. La camicia o quel che ne resta aperta su un petto tutto ossa, cilindro in testa e piedi nudi, con le brache arrotolate agli stecchiti polpacci, il Pedrito, tragica maschera lercia, si prepara a gareggiare contro il tramway per dimostrare la superiorità del suo servizio di trasporto a carretto spinto a forza di braccia sulla nuova nera diavoleria del vapore, direzione Biandrate. Sin esperanza, por supuesto.

Interni e ombra

A ricomporre a ritroso le sfilacciate storie che ci hanno narrato gli ultimi testimoni di quel mondo sparito, troviamo una miseria che ci dà l’angoscia, tali sono gli sterminati confini che si aprono alla nostra investigativa immaginazione. Un paese ingobbito sulle sue stalle buie, i soffocanti cortili pieni di muschio e cani legati al palo.

Togliamo la piazza, sulla quale si sporgevano le due eterne anime di ogni paese, qui per spirito di provocazione o per beffa affacciate l’una rimpetto all’altra: il municipio, di impronta neoclassica, antonelliana un po’ alla buona, e la chiesa grande, capofila tardo cinquecentesco delle altre trentadue di piccola o infima grandezza ben disseminate entro il perimetro del paese. La piazza di Fluminiano è bella: è spaziosa, regolare, esplosiva di direttrici che in numero di cinque se ne dipartono a raggiera per portare in altrettanti altrove, fra altri popoli e genti. C’è posto per tre bar sulla piazza, che sono stati anche quattro nei frangenti più epicurei della nostra storia.

Ma togliamo la piazza e le poche dimore signorili dei maggiorenti, cinte a ragion veduta da altissime muraglie sormontate dalle cime ondeggianti di nere conifere centenarie: autentiche fortezze.

Il resto è un muffito labirinto di bicocche. Secoli di sonno architettonico, stretti e accatastati gli uni sulla fatiscenza degli altri, dalle pietre del cuore vecchio del paese tra le muraglie del cadente ricetto, dimora fatiscente di turpi figuri che vanno e vengono, senza cognomi fissi né mestiere, alle viucole storte sulle quali pendono le gronde schiodate, dove si aprono come a sussurrare malie preistoriche i neri portoni che danno ai cortili. Una sola la ragione costruttiva: al pian terreno la cucina, il ripostiglio, le stanze da letto al primo piano e in alto il sut-técc. Le cucine annerite dal fumo della stufa e piccolissime, una sola finestrella stretta e profonda nello spessore del muro, e in alto pendente al centro del soffitto sopra il tavolo, una lampadina a incandescenza praticamente invisibile anche quando accesa se non nella piena oscurità delle sere invernali. Niente porte interne o poche, surrogate a far da divisorio tra i cupi ambienti da una tenda unta. E in cucina, péndule sulle bacchette a raggiera intorno al tubo della stufa, le mutande stese sui vapori della pignatta con gli eterni minestroni borboglianti a fuoco lento da mane a sera. Il cesso di fuori, sempre umido, gelato, con la carta di giornale.

Ricordo bene, ricordo tutto; anche se quando le vidi quelle tane erano giunte al limitare della notte con i loro moribondi abitatori, gli ultimi in un mondo ormai fattosi ancor più spaventoso sebbene in una maniera del tutto nuova. E già le stanze erano quasi tutte vuote e i corridoi spenti e la graniglia dei pavimenti opaca, i granai vuoti, odorosi di piscio di topo, e marcite le scale di legno che dal ballatoio al primo piano salivano al puntíl, sfondate, suicide, e tutto era ricordo, oblio e abbandono disfatto.

La zingara

Negli annali di Fluminiano si annota un fatto di cronaca ormai dimenticato se non in qualche memoria famigliare con la sinistra evanescenza di un sogno infelice. Da qualche anno le bambine della scuola elementare erano state ribattezzate Giovani Italiane per fare la ginnastica in cortile e il circolo operaio aveva graziosamente omaggiato il Duce della propria sede sulla piazza principale, in nome del progresso. Ma il paese nel profondo delle sue vie più storte e smattonate, dei suoi cortili bui e fioriti di muschio, continuava a vivere l’antica sua vita, ripiegata su mitologie millenarie e fantasmi senza tempo, preistorici.

In una straducola poverissima fra le povere tanto da meritarsi il nome di “via dei camini spenti” giusta la mestizia dei suoi angusti cortili, la tetra fuliggine delle stanze in cui campavano di polenta e castagne i suoi abitanti, i lisissimi indumenti, la cronica mancanza di legna per la stufa, vivevano Ugolino Marchesi, reduce della Grande Guerra e Lidia Giazzi con le loro due bambine piccole, Marta e Secondina. C’era anche un nipotino, seienne, dall’altra parte del cortile, che in quell’inverno del ’28 aggiungeva pena alla pena, tormentato da un maledettissimo male al bassoventre.

Il medico del paese aveva fatto quel che poteva, l’ospedale di Novara era lontano e le donne di casa non sapevano che pesci pigliare. Finché un giorno alla porta bussò una zingara e toccò a Lidia di aprirle.

Forse che le era giunto qualcosa all’orecchio, forse che il puro e semplice caso aveva guidato il suo mendicoso girovagare fino a quel tetto già contristato dalla fame ed ora vieppiù dalla malattia, fatto sta che la girovaga s’intrufolò nelle ambasce della giovane donna e gira e rigira la persuase con l’arte sottile e crudele di una fumosissima chiacchiera ad aprirle se non la porta di casa almeno quella del cuore. Invischiata nella parlantina della vecchia, condotta per mano da quella zelante alcahueta che è in ogni tempo il senso di impotenza di una mamma di fronte al male di un figliolo, Lidia si consegnò con tutto il suo fardello d’angoscia.

Le arti della zingara son quelle che arrivano là dove scienza e medicina non possono, dove sembrano arrendersi anche il rosario sgranato e le segrete preghiere rivolte al vero Dio. In cambio di qualche spicciolo la chiromante promise di formulare una veritiera diagnosi e di soccorrere al bisogno con diavoleschi accorgimenti. Prima che Lidia potesse pensare e magari por fine all’insensato colloquio, la megera fu lesta ad esibirsi nella pessima delle ciurmerie e pur tuttavia creduta e temutissima a quei tempi di miseria e fantastici terrori. Fattasi consegnare un uovo fresco e integro, la maga lo cominciò a tastare, a voltolarlo, vezzeggiandolo con sapiente mistero; ci borbottò di sopra un nonsenso che ne avvivasse il potere pronosticatorio, lo ruppe in una scodella approntata alla bisogna e, orrida frode, nel glutinoso albume comparve natante, come scivolato fuori dal rotto guscio, un enorme, sformato verme bruno.

Eccolo, il male del piccolo infermo!

Presa in una pania d’orrore, Lidia si disse disposta a pagare ancora, purché la sibilla stracciona aiutasse a salvare la vita e l’anima al nipotino. Aveva mostrato il male e come aveva saputo evocarlo così lo saprebbe anche comandare, le sussurrò la maliarda: lo farebbe ubbidire a bacchetta e sgusciare fuori dal bimbino come la munigata dall’uovo per rispedirlo tra i diavoli di dove sicuro proviene. E Lidia l’accolse in casa, e là tra i camini spenti si dispose a berne una a una, le fole, pagando con una coppia di orecchini pendenti, dei pochissimi gioielli che possedeva.

Lo stomacoso bruco era frattanto scomparso misteriosamente, e scomparve nella ruera in fondo al cortile l’uovo, nella roggia anco la scodella maledetta, fracassata, ché mai più di lì innanzi Lidia ne avrebbe sopportata l’oscena vista. L’incantamento era stato farfugliato e sarebbe toccato a lei di alimentarlo. Nei giorni che seguono, nel più angosciato segreto, di nascosto da occhi che non avrebbero capito, Lidia preparò l’ingenua pozione, la somministrò al malato perfezionando il rito oscuro con le rime di incantesimo imparate alla scuola del malaugurio, e ne attese gli effetti fra muti spasimi e angustiata speranza. Ma al povero malato nessuno seppe risparmiare lo squallido viaggio sul traghetto del barcarolo. Progredendo sempre più nel cammino del dolore e dello sfinimento, il bambino morì, stroncato da una non riconosciuta peritonite.

Rimasta sola per casa con il suo segreto, Lidia se ne fece una colpa. La pozione era malfatta? le parole imperfette? Aveva forse mancato in qualcosa ché la magia non era riuscita e la porta non s’era aperta per far transitare l’ambasciata agli spiriti? O tutto era male fin dal principio, perché la gitana medicastra era una strega e l’incantesimo una diabolica frode studiata per seminare morte e dannazione? Non già responsabile di aver trascurato qualcosa ma colpevole d’aver dato lei stessa la morte, d’avere ucciso il fantolino amato.

Giorno per giorno lo sgomento e l’inconfessabile rimorso le avvelenarono l’anima, finché in una notte di gelo, mentre Fluminiano dormiva colle sue vie vuote specchiandosi in una luna tersa e muta, Lidia lasciò la casa senza che nessuno se n’avvedesse. Scalza, pur non essendo tanto povera da non permettersi un paio di scarpe, e con indosso soltanto la camicia da notte colla quale si era coricata la sera, percorse le strade vuote del paese, camminando su ciotoli e fango. A chi l’avesse veduta sarebbe parsa un bianco fantasma in cammino per le misteriose missioni dei trapassati.

Superate anche le ultime case imboccò la strada che menava alla dogana e oltre, sul ponte metallico che ancora oggi scavalca il fiume, a mezzo del quale si fermò, si sporse sul nerissimo bisbiglio dell’acqua e si lasciò andare.

Mitologie ed epilogo

Nella lunga preistoria del paese la fantasia popolare si attorcigliava intorno alle immemori leggende contadine, ora di povera goliardia ma più spesso sinistre, di arcaica brutalità, sfoghi tribali: il segno dei vermi sulla pancia, il pianeta, la Orfelia trovata la mattina legata al palo in cortile là dove al tramonto era stata assicurata la capra…

Furono la guerra fascista e la guerra di liberazione a portare in paese nuove mitologie. Altri e diversi poemi sarebbero nati e, nutriti, si sarebbero propagati nel tempo, su su verso la giusta apoteosi e poi oltre, ingigantiti, stravolti, e quindi usurati dal ripetersi di bocca in bocca, ingaglioffendo nella discendente parabola fino a ridursi a pupazzate penose. Così si sono infradiciati loro malgrado i partigiani del norditalia, l’eroica staffetta, il contrabbando sui barconi…

Anche qui il penoso pigia pigia per saltare sul treno degli eroi e dei martiri. Tutto in contumacia, come non potrebbe essere altrimenti quando il tempo ha fatto la sua solita, infame rapina. Ma nella corsa all’accaparramento e alla prelazione, ecco, suonare il píffero, grattare il mandolino, tesserarsi, epicizzarsi… Le eterne parole sbagliate per una causa giusta.

Post epilogo

Da Fluminiano ce ne siamo andati. Giurando e spergiurando che non avremmo tradito. Avremmo studiato, e poi avremmo dedicato le nostre acquisite arti, sottili o spuntate, spazieggianti o mediocri o minime che fossero, a contendere alla morte infame tutta l’avventura, la magia, l’amore che ci erano stati regalati.

Come siamo diventati così?

E perché tu più volentier mi rade
le ‘nvetriate lacrime dal volto,
sappie che, tosto che l’anima trade

come fec’io, il corpo suo l’è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che ‘l tempo suo tutto sia volto.

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