Apnea
di Alessandro Gorza
19:34
Chiara giocava su un prato verde smeraldo, sotto un sole estivo abbacinante. Vedeva le sue ginocchia bambine sbucciate e i calzettoni alti, sopra le scarpe di vernice col laccetto. Saltava una corda. Il cielo azzurro si illuminava di piccoli lampi che le bruciavano gli occhi, dietro le palpebre chiuse.
L’orizzonte si era fatto grigio tortora. La voce di sua madre, che contava i giri di corda esaltando i suoi salti, la chiamava da lontano.
All’improvviso, un dolore calcinato le esplose sotto il naso, scendendo dalle narici ai polmoni e la dottoressa Statuto non era più una bimba in un prato sognato, ma una donna di quasi cinquant’anni, la stessa che si era svegliata quella mattina, era andata a lavorare e poi… poi le faceva male la testa e non capiva cosa stesse succedendo.
Un’altra fitta al naso la riportò decisa nella sala caldaie di casa sua: «Carbonato di ammonio», disse una voce alle sue spalle, una voce che non sapeva riconoscere.
*
18:45
Pioveva con decisione. I blocchi di selciato delle viuzze in centro schizzavano le gocce grosse di un primo autunno, riempiendo il parabrezza di colori caldi.
Bianca buttò la sigaretta fuori dal finestrino. Mise la freccia e girò a sinistra, lasciando sfilare a pochi centimetri la vetrata spessa e fredda del bar.
La dottoressa Statuto sorseggiava un bicchiere di bianco.
Era lei. Ne ricordava i movimenti. Il viso, reso quasi sconosciuto dai vent’anni passati, poteva mentire; ma non quel modo di sedersi al tavolo incrociando le gambe sotto la sedia, di chinare appena il capo a sinistra, quasi a controllare che non ci fosse niente lì sotto. Non quella scrollata nervosa e rapidissima ai ricci scuri – si tingeva? – che lei aveva ancora davanti agli occhi: lo faceva sempre durante gli interrogatori. Quelli che chiamava “chiacchierate”.
Eccola lì, Chiara Statuto. Eccola, nella sua dimessa boria, nella sua ostentata sicurezza.
Casa sua distava poco più di un quarto d’ora. Bianca mise in moto, stringendo le mani attorno al volante.
*
18:40
Era stata una giornata particolarmente faticosa, il tribunale di Pavia l’aveva chiamata per una consulenza su un brutto caso. Non aveva più voglia di quegli incontri la dottoressa Statuto, psicologa infantile: la bambina abusata coi suoi giochi, i disegni, gli assistenti sociali e il PM, tutti assieme ad aspettare che lei confermasse quello che già si sapeva. Questa volta c’era stata flagranza: la mamma aveva chiamato i carabinieri perché il nuovo compagno picchiava la bambina. Aveva detto che temeva gliel’ammazzasse.
I lividi sotto il braccio. Gli occhi persi e colpevoli, Rachele, così si chiamava la piccola di quella mattina. Neanche mezzora, il PM aveva sorriso uscendo dalla stanza: un caso facile che si sarebbe chiuso in fretta.
Chissà che fine avrebbe fatto Rachele. Il patrigno in carcere; la madre, una ventenne bulgara che non riusciva a mettere in fila due parole in italiano, non poteva prendersi cura di lei. La bambina doveva essere allontanata.
Aveva scritto il suo verbale: consigliava l’affidamento a una struttura in attesa di ulteriori verifiche.
La piccola non sarebbe più tornata in quell’appartamento sicuramente brutto e sporco di una qualche periferia orribile. Chissà dove sarebbe andata, dove l’avrebbero spedita.
Era stanca, la dottoressa Statuto. Stanca di tutta quella violenza, di tutte le brutture che doveva vedere ogni giorno per lavoro, da più di vent’anni.
Una volta era facile, lei era decisa, sicura: per il bene del bambino, via dalla famiglia. Se c’è violenza, via. Se c’è ipotesi di violenza, prima via e poi si vede.
Fece un sorso e sentì i tioli del vino stringerle la gola, addentò un tarallo.
Ma, qual era il bene per il bambino? Dove stava la scelta migliore? Dopo una vita di quel lavoro, le sembrava di avvertire una verità terribile: la vittima avrebbe comunque pagato più di tutti. Non c’era nessuna giustizia.
Fece un cenno al bancone e mangiò un’oliva. Fuori, l’autunno batteva con decisione la prima pioggia. Arrivò il secondo bicchiere.
Sigmund avrebbe dovuto aspettare ancora un pochino le sue crocchette. A casa, lei avrebbe consolato i suoi miao di protesta e poi avrebbe pensato a cosa cucinarsi per cena, magari c’era una nuova serie da cominciare su Netflix.
*
19:05
Bianca arrivò alla villetta di via Donatello, controllò che tutto fosse come al solito, la luce accesa in salotto e il gatto dietro la finestra ad aspettare che la dottoressa Statuto tornasse. Passò lenta davanti alla casa, poi girò a pochi metri e s’infilò in una traversa. Parcheggiò, prese la sacca dal sedile del passeggero e s’incamminò sicura. L’aveva già fatto più e più volte: passo deciso fino al cancelletto, poi il giro attorno al portoncino che dava sul piccolo cortile. La chiave era sotto un vaso rovesciato di fianco alla scala di pietra che scendeva verso il locale caldaie. Tornò all’ingresso, non c’era nessuno per strada, né alle finestre delle poche villette attorno. Ruotò la maniglia e in un attimo fu dentro.
Il gatto della dottoressa andò a strusciarsi sulle sue gambe. Bianca mise delle crocchette nella ciotola e scese al piano di sotto. Sistemò la sedia, le corde.
Prese dalla borsetta una fotocopia piegata in quattro. L’aprì, la guardò. Infilò il foglio nella tasca posteriore dei jeans e si appoggiò allo stipite della porta che separava il garage dalla sala caldaie.
*
19:25
Chiara Statuto scese dalla sua Audi Q1 all’asciutto del garage canticchiando il pezzo di Gino Paoli che la radio stava ancora trasmettendo. Chiuse la portiera, dopo aver recuperato dal sedile posteriore il faldone che si era portata a casa: ci avrebbe lavorato nel weekend. Si sentiva più leggera: i due bicchieri avevano fatto il loro dovere e i pensieri cupi erano svaniti come la nebbia che si dirada nelle tarde mattinate di sole in autunno.
Girò la manopola della saracinesca del garage, che cominciò ad abbassarsi. Restò un momento a guardare la pioggia che correva verso la grata alla fine della rampa; poi si voltò e le parve di intravedere qualcosa nell’ombra della sala caldaie, dove stendeva i panni.
Sentì un dolore secco e improvviso vicino alla fronte e tutto fu buio.
*
19:33
Trascinare quel corpo crollato a terra era stato meno facile del previsto. La dottoressa Statuto era ancora più leggera di quanto si aspettasse, ma sollevare da terra un peso morto era stato più faticoso che alzare la barra da cinquanta chili in palestra. Il manganello estensibile da sedici euro e novantanove comprato su Amazon aveva fatto il suo dovere e, come da tutorial di YouTube, la dottoressa era svenuta al primo colpo tirato sulla tempia.
Ci avrebbe messo un bel po’ a riprendere conoscenza, ma Bianca aveva portato i sali. Giusto il tempo di metterla seduta e legarla per bene alla sedia e poi l’avrebbe fatta riprendere. Aveva studiato i nodi: piano, a bandiera, del fuggitivo. Li aveva provati più e più volte: Bianca aveva delle cose da dirle, prima di fare quello che doveva.
*
19:35
Chiara Statuto ora era lucida. Aveva riconosciuto la ragazza che la fissava dalla sedia di fronte. Era passato tantissimo tempo, ma non aveva dimenticato quegli occhi così belli, a mandorla e di un blu intenso. Ricordava il suo caso: una storia difficile che aveva smosso un polverone enorme.
Era Bianca Regazzoni, abusata dalla madre che, per la vergogna della colpevolezza, si era suicidata a poche settimane dall’affidamento della bambina. Lei aveva seguito la piccola per qualche anno; poi, ne aveva perso ogni traccia.
Provò a parlare, ma si rese conto di avere qualcosa in bocca.
Vide la giovane donna che era diventata alzarsi e girare dietro di lei. Sentì lo strappo del nastro adesivo dal rotolo e il garage sfumò dietro a un velo di plastica.
*
19:37
«Lo sai perché sono qui? No? Non lo immagini? Guarda questa foto. Ti ricordi?», Bianca spianò il foglio piegato in quattro che aveva sfilato dalla tasca dei jeans.
«Quella lì, sotto al lenzuolo steso sul marciapiede è mia madre. La mia mamma, brutta scrofa. Te la ricordi? Quella che non mi aveva mai fatto niente di male e da cui tu mi hai fatto portare via. Te lo ricordi?»
Bianca aspettò finché gli occhi della dottoressa non le parvero di nuovo del tutto vigili. Le sorrise, la fotocopia spalancata appena sotto al mento: «Hai capito chi sono, vero? Io mi rifiutavo, secondo te. Ero troppo sotto shock, secondo le tue perizie. Me le sono rilette tutte, sai? Oggi sono vent’anni esatti.»
Le labbra si incresparono: «Poi, mi sono svegliata. Che gioia, la mattina dei miei diciott’anni: poter uscire sputando in faccia alla madre superiora e non tornare mai più.
Quelle puttane col velo da cui tu mi hai fatto segregare, quelle sì che si sono divertite coi loro crocefissi. Quelle sì che mi hanno fatto tanto male sotto, come mi dicevi tu negli interrogatori, troia. Mia madre no. Lei non aveva fatto niente e nemmeno i suoi amici. Quante volte te l’ho ripetuto?»
Bianca adesso guardava per terra, il volto contratto in una smorfia di rabbia. Poi tornò a posare gli occhi su quelli della donna che la fissava immobile: «Doveva essere una gioia andare via e poter ricominciare. Ma la luce non è tornata. Ed è tutta colpa tua. Ci vorrà un po’: il sacco è bello grande, ho fatto bene i conti.»
Bianca si alzò e fece scattare la saracinesca, aveva quasi smesso di piovere e tutto attorno pareva vuoto e silenzioso. Girò dietro alla sedia su cui sedeva Chiara Statuto e le posò le mani sulle spalle. Sentì quel corpo indifeso contrarsi per un istante. Si avvicinò a un orecchio e sussurrò: «Io adesso devo andare. Il buio è terrorizzante, cara dottoressa, lo sapevi? Mia mamma non mi aveva fatto niente. Finalmente, siamo pari.»
Poi, uscì nel silenzio della sera.
*
19:39
La dottoressa Statuto sentiva il fiato accorciarsi, la pashmina avvolta attorno alla bocca aperta si stava bagnando di saliva. La busta trasparente sigillata attorno al collo si avvicinava ad ogni respiro alla sua faccia.
Ma che stava dicendo, Bianca? Sua madre era colpevole, certo. Lei aveva subito abusi da quella donna e dai vicini di casa e lo shock l’aveva indotta alla negazione ostinata. Ma c’erano i racconti degli altri bambini e tutto combaciava.
Certo, era stato uno dei suoi primi casi così importanti, era giovane.
No, aveva ragione e basta. Lei aveva fatto bene il suo dovere.
La dottoressa Statuto si guardava attorno. Cercava con gli occhi un appiglio, qualcosa che frenasse la valanga di terrore che le stava soffocando la mente.
Doveva andare di sopra, dar da mangiare a Sigmund, farsi una doccia. C’erano le carte della giornata da rivedere. Dov’era il faldone che aveva preso dallo studio? C’era la cena da cucinare.
Ascoltò i passi sul porfido bagnato alle sue spalle, la saracinesca del garage che si abbassava. Sentiva gli spasmi della plastica che si contraeva sempre più veloce.
Passò del tempo che non era più in grado di quantificare. Poi, si ritrovò ancora su quel prato soleggiato, saltava la corda e sua madre le sorrideva.
La testa le cadde sul petto: un sussulto e la dottoressa Statuto era di nuovo nel suo garage. La plastica ormai aderente alle labbra, a bruciare sugli occhi spalancati che si appannavano di sangue.
Sigmund la guardava dalle scale: chi si sarebbe preso cura di lui? Tutto divenne buio.