Buchi
di Serena Barsottelli
La sensazione che provava non era simile ai brividi. Eppure spesso tremava. Non si trattava neppure dell’umidità, quel freddo capace di filtrare sotto il primo strato di pelle e poi sciogliersi nei cunicoli tra nervi e vene. Quel freddo, per capirci, che dicono scavare e insediarsi per non uscire più. Quello che dimora dentro le ossa, e dallo scheletro poi si propaga, disperdendosi, dove i raggi non vedono, in un mare assoluto e nero.
Il dolore, invece, arrivava dopo.
La pianta appassiva lenta. Oppure sprofondava sotto la terra.
Si era convinto che la scarnificazione fosse parte del processo quando Melody, la ragazza dalle tette piccole e dai capelli verdi che lavorava sulle strade del primo anello di periferia, gli aveva fatto notare una certa somiglianza di suoni tra scarnificazione e sacrificio. Lui, un po’ per il rumore del traffico e del treno in transito sulla linea sopraelevata – il treno dei morti, così lo chiamavano i tossici come lui, ché barcollando alle sue fermate ci finivano sotto – , un po’ perché quella roba era fatta per rallentargli il cervello, aveva faticato a coglierne l’assonanza. Eppure, pensava, Melody era una che sapeva quello che diceva: un mezzino per un lavoretto con la bocca – rigorosamente senza denti, prometteva, giacché le erano caduti tutti. Per una cosa completa ci voleva una dose. Se le portavi quella buona o se le davi la quantità giusta di denaro per acquistarla, ti concedeva un piccolo extra. I suoi clienti preferiti non erano quelli che le offrivano un riparo per la notte o una doccia, ma quelli dell’extra. Lei diceva che erano amici su cui poteva sempre contare.
L’animale lavorava con le zampe anteriori e con quella bocca pelosa, facendosi strada dove gli altri insetti non osavano avventurarsi. Avevano paura di spingersi tanto in là: preferivano rinunciare alla prelibatezza e accontentarsi di ciò che la superficie offriva loro in ogni stagione dell’anno. Non si preoccupavano del freddo, gli altri, che in certi periodi dell’anno sembrava ucciderli. Il calore bruciante del sole estivo non procurava alcun fastidio, inebriati com’erano dal profumo dolce dei frutti appena maturi.
Lui di certo non aveva amici.
Incuranti del contadino, e degli uccelli in agguato, gli altri insetti si arrampicavano sulle foglie verdi e succhiavano.
Era più difficile per un uomo trovare qualcuno disponibile.
Avrebbero potuto contrastarlo con il veleno. Un tentativo di avvelenare la morte. Eppure era mosso solo dall’istinto, e l’istinto dalla fame. Alimentarsi, sopravvivere, nascondersi. Essere invisibile, e poi spogliarsi da preda per diventare a propria volta predatore.
Melody, dunque, gli aveva esposto quella strana teoria per cui ogni sofferenza fosse necessaria. Persino quella autoprodotta. I tatuaggi ormai verdi – tanto avevano perso l’intensità dell’antico nero, assumendo una sfumatura di colore simile a quella dei capelli e poi, quando qualcosa nel fegato aveva iniziato a fare i capricci, della pelle – erano al centro del suo petto. Dalla tetta sinistra spiccava il volo una fenice; sulla destra, invece, un uomo dalle ali sciolte precipitava nel nulla; aveva la testa all’altezza del cuore. Una volta le aveva chiesto se non fosse stato meglio invertire le immagini, rappresentando dapprima un sogno che si spezza e poi la volontà di risorgere. Melody aveva sorriso. Melody non gli aveva risposto. Gli aveva toccato il braccio, lui aveva sussultato.
È per i buchi, gli aveva detto.
Già, aveva annuito senza comprenderne il motivo.
L’animale era abituato all’oscurità del sottosuolo. Preferiva quello umido, più facile da scavare. Quello che accoglieva lombrichi e larve di altri insetti. Quello che lo rendeva affamato anche dei propri simili.
I buchi se li faceva sotto le unghie delle mani o, meglio, in quel sottilissimo filo di carne che resisteva. Se le mangiava, un tempo. Poi avevano iniziato a spezzarsi: si sfaldavano, strato dopo strato, dose dopo dose. Era perché gli mancava qualcosa, forse del calcio. Che cosa rende più forti le unghie? Ma chi se ne frega, pensava succhiando il sangue e lo sporco che si annidava lì. Chi se ne frega; c’è la roba.
I buchi dalla superficie portavano tutti al buio. Non tentava mai di risalire, anche se avrebbe potuto volare. La luce lo infastidiva e interrompeva la caccia. Quando ci si abitua alle tenebre, poi si fatica a vivere sotto il sole.
La prima volta aveva infilato un ago sotto la lunetta delle unghie nel tentativo di ripulirle: il nero della polvere, del sangue, del sudiciume grattato via dalla pelle. Lo sporco era rimasto al proprio posto, e a lui era venuta la geniale idea di provare a farsi lì. Mica semplice trovare dei flussi di sangue in cui far scorrere la roba. Così, di tanto in tanto, provava con lo strato di pelle tra le dita: quello tra il pollice e l’indice era il più grande e, messo controluce, rivelava il sottile vaso che lo attraversava. Quello, aveva compreso, era il punto perfetto.
E il sottosuolo era comodo da abitare se eri in grado di scavare. Costruire gallerie, e chi se ne frega se quello che è in superficie prima o poi cadrà e collasserà. All’animale interessano solo le radici.
La droga entrava nel corpo da quel minuscolo foro, sfondando la prima barriera della pelle, e poi gli altri strati, uno dopo l’altro. Era appena doloroso, e il dolore si ripeteva ogni volta, quasi fosse impossibile abituarvisi. Allo stesso tempo quel fastidio gli procurava una leggera scarica di piacere, come quel tipo di solletico che dura troppo a lungo e ti costringe a ridere, a piangere e a invocare pietà. Persistente, più che acuto, resisteva anche dopo, quando l’ago era stato estratto. Niente a che vedere con quella sensazione intensa che avrebbe provato poco dopo, ma una smussata, quasi impossibile da percepire se non ci si concentrava sulla zona di iniezione. Era questo l’effetto della roba: trovarsi al contempo dentro e fuori il proprio corpo. Attorcigliato su sé stesso e vuoto come un’ammonite di cui sia sopravvissuto solo il guscio.
Anche gli animali dovevano essere entrati in lui da quel buco.
Quando ne trovava una, poteva tagliarla per continuare a scavare. Accadeva se non aveva fame o se la radice non era particolarmente prelibata. Preferiva mangiare quelle dolci, gustando il contrasto con il sapore ferroso della terra che le sporcava. Era quello il connubio che lo rendeva vorace.
In superficie, intanto, il fiore chinava il capo, la foglia la punta affusolata.
Melody gli aveva suggerito di scegliere aghi più piccoli, così i buchi sarebbero stati troppo sottili e i parassiti non sarebbero riusciti a penetrare. Gli aveva anche detto di farsi in posti asciutti, lontano dall’umidità e dalla terra. Le pozzanghere erano una brutta cosa, anzi, la peggiore. Doveva evitare di calpestarle e non avvicinarsi alla strada quando l’asfalto era bagnato. L’ideale sarebbe stato non sostare all’aria aperta nelle giornate di pioggia. Gli animali, diceva Melody, dovevano venire da lì. Evitare umidità e sporcizia, aveva sottolineato, quasi lo reputasse un porco che si divertiva a razzolare nel fango.
Che stupidi, pensava – se agli animali è concesso il dono del pensiero. Altrimenti sentiva, sentiva soltanto, insieme alla vibrazione delle proprie antenne e al movimento delle zampe anteriori che scavavano, scavavano, tagliavano, finché non arrivavano le lamelle dei denti, e il morso. Che stupidi, sentiva, che stupidi ad accontentarsi di quello che appare, di ciò che il vento smuove. Essere costretti ad aggrapparsi a un filo d’erba piegato dal vento o da passi degli uomini, anziché trovare il proprio riparo nel sottosuolo.
Osservandosi nel riflesso di una vetrina, aveva scoperto di avere ditate scure su entrambe le guance e uno strato profondo di nero sul mento, nel punto in cui ci si sarebbe aspettati la barba. Cercò una bottiglia vuota tra l’immondizia ai bordi della strada e vagò in cerca di una fontanella. La maglia era maculata di sudore, e per un attimo pensò di strizzarla, di bere tutto il liquido rimasto intrappolato nel tessuto. Oppure di farsi, di allungarlo insieme alla prossima dose. Forse non sarebbe stato poi tanto differente da quando dopo aver svuotato la siringa dalla miscela la riempiva del proprio sangue.
L’animale trascinava la parte posteriore del corpo sbilanciandosi in avanti.
Quei bastardi dovevano averle tolte tutte. Tutte le maledette fontanelle. In nome del decoro, forse. L’uomo tornò a camminare nelle strade, grattando le braccia. Un’unghia si spezzò nella foga e schizzò tra i guizzi delle auto, nel traffico.
Le antenne battevano contro il muro di terra, ma l’animale non provava dolore.
Forse era colpa di un filo, un filo che si era allentato, e stuzzicava la pelle come la coda di un topo. Fai smettere questo fastidio, pregava in silenzio, e la droga non gli rispondeva. Continuava a scorrere nelle sue vene, e dalle sue vene ai suoi organi.
Sapeva solo di dover scavare, più in profondità, e costruire una buca abbastanza grande da contenere le uova.
E dagli organi si propagava come i raggi di sole quando il tempo è velato dall’afa estiva. Intaccava il punto buio, quello sacro e antico, dell’uomo.
E quando le aveva deposte, riprendeva il viaggio.
L’uomo aveva iniziato a camminare sul lato della ferrovia. Le architetture antropiche lasciavano via via il posto a quelle naturali, e al deturpamento che la disperazione di certi uomini e di certe donne lasciava con il proprio passaggio: materassi tra il fogliame, fazzoletti ombreggiati di rosso o di marrone. Un assorbente, usato. Delle bottiglie, vuote. Sacchi, sacchi rotti e sacchi ridotti in brandelli. Sacchi che un tempo forse erano stati pieni, poi non più. Erano stati svuotati e non stavano più ritti.
C’erano ammaniti, ossa di qualche animale domestico sepolto, pochi spicci che avrebbero riflesso la luce del sole ma sottoterra no.
Ecco! Eccolo! Gridò. Osservava il suo braccio, le geometrie martoriate di vene, buchi, tatuaggi svaniti, ferite infette. Eccolo, gridò, puntando il dito sull’insetto che sbucava dall’unghia, nello strato di pelle così sottile che sembrava appartenere a nessun corpo. Eccolo.
Dal fittone si diramavano tante radici e radichette. Sembrava un albero al contrario. Questo avrebbe pensato l’animale se avesse avuto la capacità di elaborare un ragionamento. Ma sentì qualcosa di simile al calore del sole che da tempo non provava sul proprio corpo vellutato. Fece una capriola, poi allungò le zampe anteriori e staccò un frammento di radice. Aprì la bocca e si avvicinò.
Eccolo, sì, l’animale. E il treno? Melody gli aveva detto tante volte che ci sarebbe rimasto sotto come gli altri, e che come gli altri avrebbe continuato a viaggiare in eterno, da stazione a stazione, mendicando una dose o un po’ di amore.
Le foglie della pianta, sulla superficie, ondeggiavano. Non soffiava vento. Non cadeva pioggia.
Riuscì a evitare l’impatto per poco, perché quella Melody doveva aver tradito il caro principio per cui era bene tenersi alla larga da certi posti. Alcuni, diceva, puzzavano troppo di morte anche per una tossica come lei.
Che cazzo fai? Le urlò in faccia. L’hai fatto scappare!
Scusa se ti ho salvato la vita!
L’animale! Aveva messo la testa fuori dalla pelle un istante fa, ma tu_
Le foglie si piegarono fino ad accarezzare il terreno. Poi sprofondarono giù in un buco.
L’uomo guardò la ragazza con i capelli verdi di fronte a lui. Inclinò la testa avvicinandola al collo sul lato destro, poi sul sinistro. Cercò i suoi occhi; si perse tra le rughe della pelle che segnavano il viso dell’altra. Il treno corse alle loro spalle, incurante.
Il grillotalpa non era ancora sazio. Voleva altre radici.
Chi sei? le chiese.
Mi prendi per il culo?
Chi cazzo sei?
Le braccia segnate dai buchi e dalle vene non prudevano più. Sentiva ancora il bisogno di farsi. Tutto il resto l’aveva dimenticato.
La ragazza dai capelli verdi si tirò su la manica. Non era pronta a bucarsi. Era sicura che qualcosa le fosse appena entrato dentro, dalle unghie o dal naso, e la stesse uccidendo.
bello!