Evanescenza e consistenza del mondo: Zanzotto versus Ponge

Questo saggio è stato scritto in occasione del convegno internazionale tenutosi a Parigi: Zanzotto europeo, la sua “poesia di movimento”, 25 -27 novembre 2022. E’ in seguito uscito in volume per Franco Cesati Editore, nel 2023, a cura di Giorgia Bongiorno, Andrea Cortellessa e Laura Toppan, che sono stati anche gli organizzatori del convegno. Si tratta di un testo lungo, non adatto alla lettura web, ma chi è interessato può scaricarselo in pdf. L’idea di rendere disponibile anche sul web tale materiale specialistico è conseguenza di una mia idea di scrittura saggistica, che vorrebbe idealmente far saltare la frontiera tra critica militante e critica accademica. a. i. 

di Andrea Inglese

Il mio proposito è quello di avvicinare l’opera di Zanzotto a quella di Francis Ponge, utilizzando quest’ultima come un reagente che sia in grado far risaltare e porre in dialogo aspetti delle poetiche di entrambi gli autori. Ponge non rientra nel novero degli scrittori francesi o francofoni, con cui Zanzotto ha stabilito, nel corso della sua attività poetica, un confronto significativo. Insomma, Ponge non è né Eluard né Michaux, ma nemmeno Artaud o Bataille. Inoltre Ponge, in maniera assai anomala, continua a essere poco frequentato in Italia, e ne è una prova lampante la scarsità di traduzioni che lo riguardano. Malgrado in Francia, grazie anche ai due volumi Pléiade del 1999 e del 2002, la sua opera abbia acquisito un’importanza indiscussa, in Italia l’unica traduzione circolante per una grande casa editrice è ancora quella realizzata alla fine degli anni Settanta da Jacqueline Risset di Il partito preso delle cose, libro per altro del 1942. (Sia detto tra parentesi: in tempi recenti qualcosa di Ponge ha cominciato a essere disponibile grazie al lavoro prezioso di piccoli editori come L’Obliquo o Benwey Series.)

In questo primo lavoro di avvicinamento tra le due opere, che non ha certo pretese di sistematicità, mi limiterò, per quanto riguarda l’attività poetica di Zanzotto, alla produzione che culmina con “l’improbabile trilogia” pubblicata tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. D’altra parte, gli ultimi libri scritti da Ponge in vita escono anch’essi nel corso di quel ventennio. Ciò non toglie che una futura ricerca comparatistica possa travalicare con profitto il limite cronologico che qui mi sono posto.

Ponge appartiene alla generazione precedente rispetto a Zanzotto, essendo nato ventidue anni prima, nel 1899. Diverge notevolmente il loro rapporto con le avanguardie artistiche e letterarie. Zanzotto ha mantenuto sempre un atteggiamento conflittuale e diffidente con i Novissimi, laddove Ponge, a sessantacinquenne anni, inaugura una collaborazione con la neonata rivista Tel quel, uno dei più celebri laboratori neoavanguardistici, in Francia, a metà degli anni Sessanta. Ponge, inoltre, ha prediletto nel corso del tempo forme di scrittura in prosa, mentre Zanzotto non hai mai rinunciato al verso. Posti questi primi elementi che permettono di coglierne alcune differenze, è utile ricordare qualche punto comune biografico – entrambi antifascisti e impegnati a vario titolo nella Resistenza – e soprattutto tematico: ad avvicinarli è la questione del paesaggio. Di primo acchito, si potrebbe avere l’impressione che Ponge sia risolutamente rivolto alle “cose singole”, naturali o di fabbricazione umana – la vespa, il fico secco, il bicchiere di vetro, il sapone –, laddove Zanzotto sembra muoversi nell’orizzonte aperto del paesaggio, alla ricerca di un’enunciazione in grado di fronteggiare la totalità, l’estensione massima del reale in tutti i suoi aspetti. Di fatto, pur rimanendo sullo sfondo, meno esibita e centrale che in Zanzotto, anche in Ponge svolge un ruolo importante l’esperienza del paesaggio. Il termine stesso, ad esempio, compare come sottotitolo provvisorio di uno dei suoi testi più importanti, ossia Nioque de l’avant-printemps, che esce nel 1983, ma avendo avuto una prima stesura all’inizio degli anni Cinquanta e una seconda durante gli anni cruciali 1967-68. Leggiamo da uno dei passaggi tratti dalla prima stesura:

Je RELIS (et titre) le PAYSAGE D’AVANT-PRINTEMPS et j’écris ce qui suit, comme préface-réflexion :

« Je ne puis rien dire, écrire (ni penser) d’autre que ce que la saison m’inspire. »

(Ces jours-ci : paysages, nioque, proêmes, notes de l’avant-printemps.)[1]

In questo volumetto-manifesto, che è dedicato a una fase precisa del ciclo stagionale – quella appunto che annuncia, ancora in inverno, l’arrivo della primavera – il “paesaggio” è in realtà dappertutto, disseminato in descrizioni più o meno rapide, ed esso include non solo la natura selvaggia, ma anche le tracce della presenza umana.

Questa prossimità tematica tra i due autori rivela a un esame più attento una vera e propria poetica comune, incentrata sull’idea che il mondo naturale giunga a compimento nel logos umano, ossia nel discorso ordinario dapprima e, in ultima analisi, nella parola poetica, che di quel discorso costituisce una sorta di ultima e più avanzata realizzazione. Detto in altre parole, la zona del logos umano dove il compimento del mondo naturale è programmaticamente perseguito e dove esso promette la più alta e felice riuscita è la poesia. Per quel che riguarda Zanzotto, cito dal celebre distico di chiusura di uno dei testi della Beltà: “Tanto, in questo fondo, / resta del processo di verbalizzazione del mondo”[2] (componimento numero XVI di Profezie o memorie o giornali murali). Di Ponge presenterò più avanti un paio di passaggi altrettanto espliciti. È importante, però, sottolineare subito che questa concezione della poesia si manifesta in lui con accenti nettamente laici e disincantati, mentre in Zanzotto rinvia a una visione della parola poetica, che non ha rinunciato a fantasie totalizzanti e a suggestioni sacrali. Nei versi citati, ad esempio, associato al “processo di verbalizzazione del mondo”, vi è il termine “fondo”, che in Zanzotto si situa tra i significati divergenti di “residuo” e “fondamento”, divergenti ma, come spesso in lui, reversibili[3]. Il fondo è ciò che rimane alla fine di tutta una serie di operazioni espressive e di filtraggi intellettuali, è quanto resiste al fronteggiarsi arduo tra parola e cosa, ma nello stesso tempo è ciò che indica una base o, più esplicitamente, un fondamento, qualcosa insomma che permette alla verbalizzazione di consistere. Ponge, invece, sembra alieno dagli armonici filosofici che un termine come “fondamento” suscita. In lui, però, come in Zanzotto, è presente l’apertura a una possibile totalità e il “paesaggio” diventa spesso sineddoche di “mondo”, inteso come sintesi inscindibile di natura e storia, anche se – è importante chiarirlo subito –, tale totalità rimane aperta, e quindi soggetta a imprevedibili evoluzioni. Si ricordi la nota finale di Galateo in bosco, dove si dice: “Tutto è ancora possibile su questo terreno ipersedimentato. La questione è aperta come quelle di tutti i boschi, vegetali e umani”[4]. In Ponge, in modo ancora più categorico che in Zanzotto, la storia umana non segna l’avvento di una compiuta ragione in un mondo naturale che ne era privo, o ne costituiva solo il germe ancora incompiuto. Scrive in Pour un Malherbe del 1965:

Nous n’avons sans doute qu’une raison d’être au monde, c’est le maintien des valeurs dont nous avons reçu l’héritage, à une époque où le progrès extraordinaire des sciences et de l’outillage, dont dispose l’homme, s’accompagne d’une régression non moins extraordinaire des valeurs esthétiques et morales (…). Le maintien est donc l’un des valeurs qui s’imposent à nous ; l’autre étant la création de valeurs nouvelles.[5]

La questione aperta riguarda, quindi, che cosa dire e fare di un paesaggio in parte antropizzato, in cui la storia si è inserita sia come progresso sociale sia come perdizione e smarrimento da diversi punti di vista (l’urbanizzazione crescente, l’industrializzazione del lavoro agricolo, l’appiattimento culturale favorito dalla diffusione dei media televisivi, ecc.). Entrambi gli autori, d’altra parte, hanno innanzitutto alle spalle esperienze e testimonianze delle due guerre mondiali e, intorno a essi, lo sfruttamento massiccio delle risorse naturali avviato nel dopoguerra. In ogni caso, nominare e descrivere il paesaggio significa rivolgersi alla totalità, al mondo, ossia a quella sintesi tra natura e cultura, tra territorio e storia, che è problematica e costantemente in divenire. Di Zanzotto, basti citare i primi due versi di una delle sue più belle poesie, Al mondo, inclusa nella Beltà: “Mondo, sii, e buono; / esisti buonamente,”[6]. Dove al vecchio “vocativo”, tipicamente lirico, si sostituisce ora un’ingiunzione doppia: quella – diremmo noi – di consistere “ontologicamente” e quella, “politico-morale”, di realizzare un bene, ossia una finalità superiore che non è affatto determinata e necessaria. Di Ponge citerò un altro passaggio di Pour un Malherbe, in cui ritroviamo un’apostrofe entusiasta: “O Monde! Monde ovale et merveilleux! Machine ovale! O l’oeuf du ciel! Ce paysage, comme l’onion de nos grands-pères!”[7].

Per due europei come Ponge e Zanzotto, “paesaggio” è quindi un termine che fa inevitabilmente riferimento a una realtà in cui “natura” e “cultura” si trovano saldate assieme. Da noi, insomma, a differenza di ciò che è accaduto ad esempio nel Nord America, e di cui testimonia l’ideale della Wilderness, gli spazi paesaggistici sono da sempre intrisi di memorie storiche, letterarie e artistiche. Naturalmente, questa compresenza pone anche alcuni problemi sul piano delle strategie poetiche. Rimane il fatto che entrambi, a diverso titolo, la riconoscono. Di Ponge, cito a questo proposito un passo di Nioque de l’Avant-Printemps, dove si legge: “D’ailleurs la nature en France c’est encore vous-même : industrialisée, commercialisée; des jardins, des pâtis, des labours, des fabriques de bois. Pourtant, la liberté e le vent et les oiseaux y gambadent, y dansent à l’aise ; La liberté par tous les pores (robinets) en jaillit”[8]. Quanto a Zanzotto, nel XV componimento della serie Profezie o memorie o giornali murali, in La Beltà, scrive:

No miseria inedia frustrazione;

allevamenti immediatamente,

batterie di vitelli polli carnami antifame.

Formiche mosche vespe

Bruchi cantàridi d’allevamento

(…)

noi disposti all’imprinting di più savie regole

e poi per tutti i cosmi il sostegno commestibile

(…)

Siamo qui situati al centro di una notevole contraddizione: la lotta contro l’atavica fame, che è innanzitutto fame contadina, implica l’inquadramento e lo sfruttamento del vivente non-umano. Questo ovviamente esige un prezzo molto alto da pagare in termini di un possibile equilibrio tra natura e cultura.

La contraddizione è senza dubbio sentita in modo più tormentato da Zanzotto, e ciò è dovuto in parte anche alle componenti ideologiche che determinano la sua concezione del paesaggio. In essa possiamo rintracciare, da un lato, un discorso risalente alla tradizione veneta della “villeggiatura” e del “sogno rurale”, sviluppato nel Rinascimento all’epoca della diffusione della villa palladiana e, dall’altro, il discorso dell’idealismo tedesco della fine del XVIII secolo. Entrambe queste tradizioni assegnano al paesaggio valenze utopiche, ma si tratta di utopie che oscillano tra il fantasma di un passato (di un’origine) d’integrità ed equilibrio tra umanità e territorio naturale, e la profezia, ossia la proiezione nel futuro di tale integrità ed equilibrio. L’uso che faccio del termine “fantasma” non è casuale, in quanto esso viene per me a caratterizzare un tratto complessivo della postura poetica di Zanzotto, che la distingue da quella, per altri versi simile, di Ponge. In termini un po’ schematici, che cercherò di giustificare nel proseguo del mio intervento, tra l’enunciazione che si riferisce al paesaggio e il paesaggio stesso, in Zanzotto s’introduce il fantasma, inteso nelle più diverse accezioni, compresa quella psicanalitica. Questa interferenza dell’immaginario soggettivo contribuisce spesso, nella sua opera, al dissolvimento della rugosità e dello spessore del mondo, condannandolo all’evanescenza, nel momento stesso in cui l’enunciato poetico vorrebbe fissarlo in figura – “in agio di ritmari e rimari”, come dice nella Beltà, o in un “oggetto verbale equivalente”, come direbbe Ponge.

Il termine “fantasma”, quindi, sta a indicare tutti i sedimenti ideologici – anche nel senso marxista di “mistificazioni” – entro i quali Zanzotto si dibatte nel corso della sua impresa di “verbalizzazione” del paesaggio-mondo. Ed è questa continua tensione tra desiderio e norma, tra delirio e ragione, tra abbandono e distacco che, in particolar modo a partire dalla Beltà del 1968, determina il caratteristico andamento frantumato e torturato, e quell’effetto di stop and go, di acceso-spento, di alternanza secca – o ambivalenza irrisolvibile – tra euforia e disforia, del suo dettato poetico. Il balbettio zanzottiano non è solo inerente al ritorno verso la condizione d’innocenza linguistica dell’infans, ma è anche il moto continuamente frustrato verso la “cosa stessa”, intesa in senso fenomenologico, ossia verso un aspetto del reale liberato sia dalle idiosincrasie individuali sia dagli strati deformanti che vi ha lasciato l’immaginario sociale. In alcuni momenti, con sagacia che ricorda il Foucault decostruttore del discorso fenomenologico, Zanzotto si accanisce nell’inventario archeologico del paesaggio, includendo assieme ai profili tangibili una pletora di chimere, a rischio di non poter più distinguere, però, la cosa dalla sua ombra[9]. Contro questo rischio si premunisce Ponge, attraverso un progressivo avvicinamento agli oggetti per continui avanzamenti e ripieghi, per viste e prese successive, che alla fine, fallendo consapevolmente il proprio obbiettivo – ossia l’appropriazione umana del mondo –, ne persegue un secondo più limitato, che è l’estensione e la rigenerazione provvisoria, radicalmente storica, del linguaggio umano e di quello poetico in particolare. Scrive Ponge, sempre in Pour un Malherbe:

De même que (…) nous devons nous résoudre (je ne dis pas nous résigner) à nous concevoir comme partie, élément ou rouage non privilégié de ce grand Corps Physique que nous nommons Nature ou Monde extérieur ;

De même, ne devons-nous concevoir nos écrits que comme partie, élément ou rouage de cette horloge, ou come branchette ou feuille de ce grande arbre – également physique – que l’on nomme la Langue ou la Littérature française.

Ce n’est pas que, tout comme un autre, nous n’essayions incessamment d’en sortir… Mais nous devons constater aussi que nous n’en sortîmes, ni sortirons probablement, jamais.[10]

La posizione di Ponge, a intenderla bene, è radicale, e richiama certe formulazioni altrettanto radicali che si trovano in Samuel Beckett sul nesso costitutivo tra arte/letteratura e fallimento. L’esilio nel linguaggio e nella letteratura non equivale, però, a una rinuncia o perdita del mondo. Alcune pagine dopo il brano citato, Ponge aggiunge: “Cependant, par bonheur, il nous semble que, dans le même temps, nous sommes devenu extrêmement sensible, de plus en plus sensible, aux choses de la nature, je veux dire aux objets, comme aux personnes”[11]. Il fatto che la poesia e più in generale l’espressione linguistica umana non possano attingere alle “cose stesse” (comunque si vogliano intendere sul piano filosofico), in quanto una precisa e innovativa descrizione di un fico provenzale o di una collina veneta non sono altro che ulteriore materiale verbale, stampato su carta o formulato attraverso la voce, ebbene questa condizione non è per Ponge interamente negativa, non è concepibile come semplice scacco. Qualcosa, infatti, è cambiato tra me e il mondo, dopo l’esercizio di verbalizzazione. L’opacità delle cose non è stata una volta per tutte penetrata, ma esse hanno assunto, nel frattempo, una maggiore vividezza, in quanto la nostra esperienza sensibile e intellettuale si è come riorganizzata e rinnovata attraverso questo nuovo confronto.

Torniamo ora a Zanzotto, e vediamo più da vicino come, nel suo discorso extrapoetico, in articoli o interviste in prosa, si affaccino i motivi ideologici che abbiamo precedentemente evocato. Partiamo da quello tipicamente aristocratico-borghese del paesaggio “arcadico”. In un libro intervista del 2009, così parlava Zanzotto del celebre Montello, che tanto spazio ha nella sua figurazione poetica.

Il Montello, locus amoenus e nel contempo horridus, era un colle veramente nobile e sacro per tantissime ragioni. Un’Arcadia-Eden in perenne ricomposizione e scomposizione, il simbolo stesso dell’utopia. Ma in quest’Arcadia c’era ben piantato un teschio che, proprio come nel famoso quadro del Guercino, diceva: “Et in Arcadia ego”, ossia, anche nell’Arcadia io, la morte, ci sono. Cosi, la tradizione che collegava quella zona a eleganti ozi e pensamenti sottili è svaporata a causa delle devastazioni progressive del bosco, fino alla quasi totale distruzione venuta con la guerra.[12]

È interessante notare come Zanzotto confermi invece che smentirlo il nucleo ideologico dell’Arcadia: la morte che penetra nel paradiso terrestre prende il volto della guerra o della deforestazione, ma Zanzotto sa meglio di altri che così non è, che la morte è penetrata da sempre in arcadia per coloro che hanno vissuto la condizione di esclusi dagli “eleganti ozi e pensamenti sottili”, ossia per la popolazione contadina, esposta senza difese alle durezze della vita rurale. Lo stesso autore ha patito, nella sua famiglia, la scomparsa tra le due guerre di due sorelle, di cui una morta di tifo. Il paradiso agreste non è mai stato un ideale per tutti e in Veneto, in modo particolare, si diffonde in un contesto storico preciso, che è quello del reinvestimento dei capitali cittadini sulla terraferma, nel momento in cui, durante il XVI secolo, le nuove condizioni geopolitiche limitano l’espansionismo marittimo veneziano.

A partire sopratutto dalla Beltà, libro di crisi e svolta, tutti i nodi ideologici relativi alla concezione del paesaggio “vengono al pettine” e la poesia deve trovare un modo chiaroveggente e critico di trattare – cito da un verso – “Il retaggio fantasmatico” dell’autore. La soluzione sarà quella, già indicata, di un’ambivalenza pienamente assunta nell’articolarsi stesso del dettato poetico. Accade così che, nel più tardo Galateo in bosco del 1978, il lemma “Arcadia-Eden” compare semanticamente rovesciato come “Arcadia-Mafia”. Dalla Beltà in poi, tutti i miti associati al paesaggio e agli ideali bucolici o ai sogni d’integrità e pienezza della parola poetica sono non semplicemente abbandonati e sconfessati, ma sottoposti a critica, irrisione, distorsione iperbolica. Ma in questo modo continuano a nutrire quell’archeologia del complesso umano-naturale di cui la poesia di Zanzotto è divenuta ormai massima espressione.

Più significativo ancora è l’articolo uscito nel 1962 – periodo in cui si è aperto il cantiere della Beltà – e che s’intitola Architettura e urbanistica informali. Qui Zanzotto fornisce una limpida – sebbene non innocente – filosofia del paesaggio.

Ma se ci si colloca, con sufficiente superbia e sufficiente umiltà, sul piano dell’uomo (ed è questo il postulato di ogni nostro discorso) si deve dare all’uomo quel posto che egli stesso in buona fede non può negarsi, a pena di smentire la sua natura e di cadere nella più ipocrita delle mistificazioni. Della figura umana, del volto umano, non si discute; esso è in qualche modo l’apparizione sensibile della ragione. E cosi non si discute dell’insediamento umano, che la natura “deve” essere pronta a ricevere, è predestinata a ricevere. Ecco che allora ogni fantasma di insediamento-piaga scompare per lasciare il posto all’insediamento-fioritura. Momento più alto della realtà naturale; teso a ciò che la supera, l’uomo si colloca in essa – almeno teoricamente – al punto giusto, la riordina alle sue leggi e in ciò stessa ne rivela la preumanità, quell’attesa dell’umano in cui essa si preparava. (…) Il paesaggio si anima e si accende della presenza umana perché al di sotto della sua apparente insignificanza esistevano delle strutture che un giusto antropomorfismo aiuta a vedere; ogni città costituitasi in accordo col suo ambiente diventa opera di un dio indigete.[13]

Potremmo limitarci a ricordare che dell’ottimismo di matrice hegeliana qui presente non si trova traccia nello Zanzotto maturo, innanzitutto considerando come egli ha commentato questo stesso articolo a distanza di anni. In un volume collettivo apparso nel 2005, l’autore ripresenta l’intervento del 1962 – il titolo nuovo è In margine a un vecchio articolo –, preceduto da una breve riflessione e seguito da due frammenti poetici. La cornice del 2005 mette l’accento, con toni heideggeriani, “sull’affermarsi del potere della tecnica” e sugli aspetti più distruttivi del sistema capitalistico. La critica al boom economico, per come esso si manifestava nelle campagne, era nel 1962 essenzialmente indirizzata contro il “malgoverno”, ossia le deficienze della politica italiana incapace di “regolare” il mutamento. Nel 2005, i misfatti dello sviluppo economico e tecnico hanno contorni più ampi e schiaccianti. In questo contesto è poi singolare che Zanzotto citi, in uno dei due frammenti poetici di chiusura, questi versi tratti dal libro Elegia in versi del 1952 e in particolare dalla V sezione del testo Ore calanti:

La mia povera vita

si fa grande di tante

profonde fantasie di colline

Anche in una circostanza di riflessione critica sul destino del paesaggio nella contemporaneità, Zanzotto non rinuncia a ricordare che, per lui, le “fantasie” – e, aggiungiamo noi, i “fantasmi” – sono coestensive alle “colline”, in una possibilità sempre aperta di sostituzione, supplenza, consolazione.

Ritorniamo, però, all’immagine dell’insediamento-fioritura, che assegna all’umanità, intesa come la manifestazione di un ordine superiore a qualsiasi ordine pre-umano, un ruolo centrale e decisivo nell’ordinamento del paesaggio. Un tale assunto, diversi pensatori lo avevano già messo in crisi, e tra questi basterà ricordare Adorno e Horkheimer, che pubblicano La dialettica dell’illuminismo nel 1947 (tradotto in italiano, però, solo nel 1966). Ma all’altezza degli anni Sessanta Zanzotto sembra leggere più Heidegger che Adorno. Ma anche Heidegger, come vedremo, costituisce una sorta di necessaria alternativa a questa filosofia del paesaggio, che già non è più sostenibile negli stessi testi della Beltà. La crisi linguistica del quinto libro di Zanzotto, tra le sue svariate radici – oltre all’impatto violento con i Novissimi o l’approfondimento del discorso lacaniano –, ne ha senza dubbio una nel venir meno di questa concezione teleologica della storia e del privilegio che l’uomo avrebbe in essa.

Su questo punto Ponge si è mostrato sempre estremamente lucido. In un testo inizialmente pubblicato nel 1956, Le murmure, scriveva[14]:

L’homme n’est pas le roi de la création. Non, du tout. Plutôt son persécuteur. Persécuteur persécuté.

Un animal comme un autre ? Je le crois. Mais l’un des mieux doués ? Peut-être. Surement, l’un de plus insensés. D’autant que, par son activité à le dominer, il risque de s’aliéner le monde, il doit à chaque instant, et voilà la fonction de l’artiste, par les œuvres de sa paresse se le réconcilier.

In questo brano, apparso sei anni prima di Architettura e urbanistica informali, Ponge espone con talento aforistico la sua “metafisica”: l’uomo non è il “momento più alto della realtà naturale”, né costituisce, attraverso il suo lavoro, il compimento di essa. Per Zanzotto, agli inizi degli anni Sessanta, l’uomo è ancora colui che “riordina [la natura] alle sue leggi e in ciò stessa ne rivela la preumanità”. Ponge, dal canto suo, inventa una formula geniale, che ha un tutt’altro significato: l’uomo è il “persecutore perseguitato” della natura. Formula, purtroppo, profetica, che le attuali riflessioni sull’Antropocene e gli ormai assodati effetti del riscaldamento climatico confermano nella sua giustezza. La sempre maggiore presa che l’umanità, grazie alla varie fasi della modernizzazione dapprima occidentale e in seguito mondiale, esercita sul pianeta attraverso controllo e sfruttamento illimitati non fanno che alienarlo, ossia renderlo nuovamente distante, nemico e incontrollato. Ponge non si limita, però, a ribadire in questo passo la sua tipica condanna dell’antropocentrismo – condanna che ai giorni nostri percepiamo come particolarmente pertinente –, ma ci introduce anche a una specifica poetica, ed è proprio questa ad avvicinarlo nuovamente a Zanzotto. In Pour un Malherbe, leggiamo:

Nous donnons la parole à la féminité du monde. Nous délivrons le monde. Nous désirons que les choses se délivrent, en dehors (pour ainsi dire) de nous. Nous les invitons, par notre seule présence, les provoquons, les incitons à se connaitre, à se révéler, à s’exprimer. La parole doit se faire humble, se mettre à leur disposition, pourrir à leur profondeur. Voilà notre art poétique, et notre spécialité érotique (…).[15]

Ancora più suggestivo questo passo, tratto da Le carnet du bois de pin, incluso in La rage de l’expression, volume pubblicato per la prima volta nel 1952:

Au mois d’aout 1940 je suis entré dans la familiarité des bois de pins. A cette époque, ces sortes particulières de hangars, de préaux, de halles naturelles ont acquis leur chance de sortir du monde muet, de la mort, de la non-remarque, pour entrer dans celui de la parole, de l’utilisation par l’homme à des fins morales, enfin dans le Logos, ou, si l’on préfère et pour parler par analogie, dans le Royaume de Dieu.[16]

La presenza del termine “logos” sotto la penna di un poeta non è così frequente e banale, soprattutto quando è utilizzata per esplicitare la concezione stessa della poesia. Il discorso di Ponge è chiaro. Innanzitutto egli non distingue nettamente, come si è visto in uno dei passi citati in precedenza, tra “lingua francese” e “poesia”, in quanto la poesia si radica nella lingua, per eventualmente rinnovarla nella sua capacità di nominare e descrivere il mondo. Le cose, ai margini del linguaggio – un linguaggio che è solitamente rivolto alle esclusive faccende umane (amori, poteri, guerre) – giacciono mute, morte, in uno stato – questo sì fantasmatico, inconsistente – di “non remarque”, di trascuratezza percettiva ed espressiva. La parola poetica, allora, nello sforzo pongiano di focalizzarsi sulle loro qualità “distintive”, le conduce nell’universo luminoso della parola umana, dei suoi segni, suoni e significati. E questo processo si accompagna a un’intensificazione dell’esperienza (“nous sommes devenu extrêmement sensible…”).

Siamo vicini qui alla poetica della Beltà, anche se, nei libri successivi degli anni Settanta e Ottanta, per Zanzotto il logos si carica di ulteriori e più problematiche significazioni. La parola poetica, allora, non si limita ad accendere i sensi dell’individuo, accompagnandolo verso una rinnovata e sempre provvisoria prossimità con zone diverse del mondo. Essa deve farsi in qualche modo sostegno e fondamento dell’edificio stesso della realtà, o di quel soggetto umano che si rivolge ad essa. Sono pretese, queste, che definirei totalizzanti e/o fondanti, e che coincidono, tra l’altro, con una certa fascinazione che, in quegli anni, il pensiero di Heidegger esercita su Zanzotto e altri poeti della sua generazione. Si tratta dell’Heidegger della “svolta” che, nell’arco compreso tra gli anni Trenta e Cinquanta, finirà per mettere al centro della sua riflessione la parola poetica. Quest’ultima, infatti, costituisce un’occasione privilegiata per disvelare l’essere, condannato all’oblio nella presente età della tecnica. Mi accontenterò di citare una delle tante formule suggestive, che costellano In cammino verso il linguaggio, il volume di saggi pubblicato nel 1959. In L’essenza del linguaggio, possiamo leggere: “Secondo l’esperienza poetica e la tradizione più antica del pensiero, la parola dà: l’essere”[17].

Ai fantasmi “arcadici” già circolanti nel paesaggio, e diversamente evocati-esorcizzati nella Beltà, si aggiungono così, nella nuova fase della ricerca poetica di Zanzotto, altri fantasmi, di matrice heideggeriana questa volta, che riguardano soprattutto il ruolo del logos poetico[18]. Una traccia evidente di questo mutamento è riscontrabile nella nota d’autore che chiude Filò, libro di poesie in dialetto, nato dalla collaborazione al Casanova di Fellini e uscito nel 1976. Un passaggio in particolare è significativo: “il dialetto appare come la metafora – ed è per un certo verso la realtà – di ogni eccesso, inimmaginabilità, sovrabbondare sorgivo o stagnare ambiguo del fatto linguistico nella sua più profonda natura”[19]. La “più profonda natura” del linguaggio necessita di essere avvicinata per via “metaforica”; da qui la riflessione sugli aspetti spesso duplici se non contraddittori del “dialetto”. L’evidenza quasi ipnotica delle cose lascia ora spazio a tentativi di “figurazione” (letterale o metaforica) della parola stessa che, quelle cose, cercava di nominare e descrivere. E in questa torsione dal paesaggio alla voce che lo evoca, Zanzotto apre la sua scrittura in prosa e in versi a tutte le “fantasie” di un’origine-radice, che l’espressione dialettale costituirebbe in maniera privilegiata. Il dialetto è “come un primo mistero”, “un’assoluta libertà”, “la corrente infera”, “riversato entro la terra”, “carico della vertigine del passato”, “pulsione e gorgoglio somatico”, ecc. In realtà, l’autore si rende conto che, per dirla con le parole di Adorno, un certo “gergo dell’autenticità”, e soprattutto un’ideologia ad esso associata, aleggia intorno al suo oggetto di riflessione. Forse per questo motivo, la nota è particolarmente articolata e lunga, rispetto a quelle dei suoi altri libri. Zanzotto è consapevole che si tratta di sottrarre il dialetto a forme di rimpianto e di mito identitario, per attribuirgli doti progressiste e, al limite, profetiche[20].

Zanzotto, a differenza di Ponge, subisce una tentazione nei riguardi di queste immagini della totalità, dell’origine, del fondamento, quasi che l’azione espressiva del linguaggio, nel suo caso, non si limiti a trarre fuori le cose dal loro mutismo e dalla loro assenza (“morte”), ma debba colmare un vuoto d’esistenza, una lacuna d’essere, intrinseca al soggetto umano stesso che di quel linguaggio è portatore. È questo, allora, a giustificare il tema ricorrente del logos erchómenos, che emerge nel Filò e risuona nuovamente nei versi di Fosfeni; tema che, come per primo ha ben visto Giorgio Agamben in un saggio di Categorie italiane[21], attribuisce alla parola poetica una valenza messianica, di salvezza morale e integrità fisica. Poco importa determinare se questa concezione massimalistica del dire poetico sia conseguenza, in termini psicologici o esistenziali, di una fragilità narcisistica dell’io poetante, che prima ancora di poter dare consistenza verbale al mondo delle cose combatte per dare consistenza alla propria realtà individuale. Quel che appare chiaro è che il rimedio non annulla il male: la parola che dovrebbe portare salvezza e integrità (nel proprio sé e nel mondo), si rivela di continuo inadatta al suo compito sovrumano, e si rovescia in parola vuota, menzogna, delirio.

Tale situazione, d’altra parte, è già annunciata ancora una volta nella Beltà. Un esempio di questo andamento oscillatorio tra la pienezza del tutto e l’inconsistenza di semplici immagini o vuote parole – che ricorda per altro la pendolarità già presente, nell’Heidegger della “svolta”, tra l’essere e il nulla – si trova nel componimento XVIII[22] di Profezie o memorie o giornali murali. Qui il “logos veniente” assume la fisionomia straziata di una confessione sotto tortura: “Il paesaggio ha tutto confessato, essudato, / il paesaggio è in confessione, in sudore” e, alcuni versi più sotto, “E il tentatore riapre la porta / e il torturatore rilegge ciò che / che aveva rossamente fatto essudare fuori / Idee tropi nomi e niente”. Il contenuto della “confessione” infine ottenuta dal paesaggio – qui nuovamente sineddoche di “mondo”, di totalità reale – è espresso attraverso il climax negativo dell’ultimo verso citato: si parte dalle “idee” – entità mentali –, si passa per i “tropi” e i “nomi” – entità retoriche e linguistiche –, per chiudere sul “niente”. La pienezza costantemente chiamata finisce per rovesciarsi nell’esperienza negativa, annichilita, di questa pienezza. Quando il paesaggio viene alla parola, questa parola si rivela come una collezione di tropi, come un inconsistente rituale “verbale”, come un “niente”. D’altra parte, nell’incipit del secondo testo della Beltà, leggiamo: “Quante perfezioni, quante / quante totalità. (…)”[23]. Il paesaggio non fa che promettere totalità e perfezioni, nella sua lontananza e ritrosia, ma appena il poeta – nel suo ruolo di “verbalizzatore della realtà” – s’impegna per catturare, attraverso la parola, tali entità sublimi, si trova sul foglio o nella mente qualcosa d’inconsistente. Questo accade anche quando l’obiettivo è più umile e circoscritto, come nei due versi d’attacco del componimento VIII di Possibili prefazi o riprese o conclusioni: “Quasi oblioso e volto / volto a un girasole, volto a un falso a una bigiotteria”[24].

Il pagano e materialista Ponge, quanto a lui, sembra del tutto immune dal novecentesco rovello del “fondamento”, e dimostra un’invidiabile fede nell’esistenza del soggetto che parla, della lingua da lui usata, e degli oggetti artificiali o naturali che gli si pongono di fronte. L’uomo, insomma, non è un messaggero dell’essere né la consistenza della realtà materiale è in qualche modo debitrice del linguaggio umano. Se mistero esiste, esso non si pone alle spalle dell’uomo e del mondo, ma nell’incontro ogni volta circoscritto tra un soggetto pensante e sensibile e un oggetto determinato. Riguardo a Zanzotto, vi è una sorta di “riduzione” o “sgonfiamento” delle pretese (salvifiche, totalizzanti) della parola poetica, così come dei caratteri tragicomici che circondano la figura del poeta. Sappiamo che Zanzotto è incapace di prendere sul serio il “dramma” romantico dell’espressione, con i turbamenti e le sregolatezze che lo accompagnano; neppure però vuole rinunciare del tutto agli effetti teatrali di tali patimenti. Per questo abbraccia l’opzione modernista per il registro tragicomico. Un tipico esempio di autorappresentazione tragicomica lo si trova in questi versi tratti dal componimento Periscopi[25], incluso in Fosfeni del 1983:

(…)

Eppure quanto è stato

piegato sulla rugiada vialattea

……….piegato a specchiarvi

stilla stilla avventure sofferenti clamori

io camaleontizzato, trasecolato

in lumini di mutanti alfabeti,

a immaginarsi portavoce

e portacroce di tutta una semicultura

(…)

Il poeta si mette in scena come “portavoce” e “portacroce” dei micro e macro oggetti naturali, che tratta indistintamente, ossia la “rugiada” e gli astri della “Via Lattea”. Dalla figura camaleontica di teatrante-clown si scivola a quella cristica, che ovviamente ricorda il già citato logos erchómenos e la figura del Messia. Ci troviamo, in realtà, nella continuazione di quella strategia messa in opera a partire dalla Beltà, per cui gli ideali inarrivabili (e spesso mistificanti o regressivi), connessi con una certa ideologia del paesaggio – o della parola poetica in questo caso –, piuttosto che essere espulsi dalla “scena” del testo vi ritornano in forma di maschere grottesche o comiche. Questo ritorno, però, comporta una chiara contraddizione interna al soggetto poetante e la sofferenza che ad essa si accompagna. Né contraddizione né sofferenza abitano invece il poeta nel suo faccia a faccia con le cose del mondo, nel resoconto che ne dà Ponge in diverse occasioni, e in particolar modo in uno dei suoi testi-manifesto più celebri: Comment une figue de paroles et pourquoi.

Oh! Le triomphe, le jardin, le paradis de la merveilleuse variété des choses, et des sensations qu’elles nous procurent, et des propositions de qualité qu’elles nous offrent,

et des morales, des arts de vivre qu’elles nous proposent,

des façons d’être.

Oh ! l’héroïsme de la moindre chose.

Sa vertu. Sa patience. Sa volonté d’être comme elle est, comme elle attend qu’on vienne l’admirer ; et l’aimer.[26]

In Ponge, ritroviamo il corredo delle immagini utopiche – il “trionfo, il giardino, il paradiso” – ma esse si fondono con “la più piccola e irrilevante cosa”. Non abbiamo una rovesciamento di significati (il tragicomico zanzottiano), ma piuttosto una congiunzione tra valori opposti: il paradiso e l’oggetto banale. Ma quest’ultimo, nel caso specifico il frutto dell’albero di fico, si lascia alle spalle la totalità del paesaggio, che funge da necessario sfondo – e non fondamento – sul quale si staglia. Inoltre, in piena sintonia con l’atteggiamento del secondo Wittgenstein[27] – quello delle Ricerche filosofiche – Ponge è più interessato a fare delle cose con il linguaggio, che a interrogarsi sulla sua “origine” o sulla sua “più profonda natura”. Non è importante per il poeta sapere perché il linguaggio funzioni, costruendo più o meno coerenti e utili teorie, ma come funzioni nel modo più efficace, per ridurre appunto – senza mai poterla annullare – la distanza tra uomo e mondo, tra parola e cosa.

Ponge, insomma, non pare minimante attratto dall’essere heideggeriano, che lo si voglia intendere in termini di “totalità” trascendente gli enti e le comunità di individui o in termini di “fondamento-destinazione” delle pratiche umane rivolte al mondo. A fronte del fico secco o del bosco di pini, che è – come lui stesso scrive – “une pièce de la nature, faite d’arbres tous d’une espèce nettement définie”[28], l’essere – pur gravido di magnifiche promesse – deve sembrargli assai insipido, vago, fantasmatico. Zanzotto invece necessita di fantasmi, seppure ha, nei loro confronti, – lo abbiamo ripetuto – un atteggiamento ambivalente: li celebra ma anche strapazza; non ne può fare a meno ma li irride[29]. Di tutto ciò l’autore ha piena consapevolezza, come dimostra il paratesto di Fosfeni (1983): “Sotto il nome di logos va qui ogni forza insistente e benigna di raccordo, comunicazione, interlegame che attraversa le realtà le fantasie le parole, e tende anche a “donarle”, a metterle in rapporto con un fondamento (?)”[30]. Il brano si chiude con un ironico, depotenziante, punto di domanda tra parentesi, apposto al termine heideggeriano di “fondamento”. Questo autosgambetto, che qui è quasi inappariscente, rinvia a quel gioco al massacro dell’enunciazione poetica che caratterizza una buona parte della produzione di Zanzotto dalla Beltà in poi. Ed esso testimonia della circolazione continua del fantasma (fantasia, chimera, ossessione, mistificazione), anche in quel logos eveniente che vorrebbe dire il mondo e dargli consistenza.

A conclusione di questo percorso sinuoso, sorta di viavai tra testi dell’uno e dell’altro autore, testi poetici e di poetica – anche se, come abbiamo visto, la distinzione è spesso poco evidente –, vorrei evocare un altro degli importanti punti di tangenza tra Zanzotto e Ponge, ossia la concezione della poesia come elogio, lode di ciò che semplicemente esiste. Scrive Zanzotto nel suo Autoritratto del 1977:

Particolarmente in certi istanti io provavo una febbrile, travolgente ebbrezza dell’esistere per poter contemplare certe cose, anzi per partecipare a una loro vita segreta. Sentivo che promanava, quasi, da una foglia, da un albero, da un fiore, da un paesaggio, da un volto umano, da una presenza qualsiasi e più tardi anche da un libro, una corrente di energia, un sentimento di corrispondenza da me attesa; c’era una specie di circolazione tra la mia interiorità e questo mondo esterno tutto fatto di “punti roventi”, vette o pozzi, preminenze in ogni caso. Di là sono venuti i fantasmi più insistenti che mi hanno spinto in direzione della poesia. E a questo punto devo ribadire che a mio parere la poesia è, prima di tutto, un incoercibile desiderio di lodare la realtà, di lodare il mondo “in quanto esiste”.[31]

Ritroviamo in queste righe diversi “motivi” tipicamente pongiani: la “vita segreta” delle cose, le cose piccole e semplici (“foglia”, “albero”, “fiore”), le specifiche occasioni d’incontro (“punti roventi”, “preminenze”) e la naturale (“incoercibile”) attitudine alla lode, che definisce il fare poetico nel suo tratto distintivo. Ulteriore conferma di questa prossimità possiamo averla, citando un passo tratto da Comment une figue de paroles et pourquoi:

Il existe dans l’homme une faculté (…), une faculté (dis-je) de saisir que les choses existent justement parce qu’elles sont – et resteront toujours – incomplètement réductibles à son esprit.

La reconnaissance (et l’amour et la glorification) de cette existence des choses (ou aussi bien des êtres) si variées, si inattendues, si imprévisibles, si sacrées (peut-être) si indicibles (non, pas indicibles), telle est la fonction supérieure de la poésie : c’est la chose plus naturelle au monde.[32]

È importante sottolineare ciò che Ponge mette tra parentesi con spirito di understatement. Le cose suscitano la lode per tutta una serie di caratteristiche (“varie, “inattese”, ecc.), ma in primo luogo perché semplicemente esistono. Ora, nonostante esse siano “non compiutamente assimilabili” dalla mente umana – e quindi irrimediabilmente opache –, non per questo esse sono indicibili. La dicibilità del mondo non solo fa piazza pulita di tutti i miti (i “fantasmi”) connessi all’ineffabilità che minaccia la parola poetica, ma soprattutto considera quest’ultima un moto tipico del linguaggio umano. Ancora una volta, Ponge ribadisce la continuità tra parlare comune e scrittura poetica.

Se fino a qui, nel raffronto tra i due poeti, non possiamo che riconoscere una profonda condivisione di sguardo e attitudine, nelle pagine successive del suo scritto Zanzotto introduce un tema estraneo a Ponge, quello dello statuto “precario” del soggetto che guarda il mondo. D’altra parte, stiamo percorrendo le pagine più intime dell’autoritratto. E possiamo identificare, forse, una delle ragioni autobiografiche, che ci permettono di comprendere sia il motivo variamente declinato della dissoluzione e dell’inconsistenza del mondo (e/o dell’io), sia l’ossessione per un fondamento e un’origine, che siano garanzia di realtà e condivisione.

Ma soprattutto credo che abbia male influito sulla mia infanzia e sulla mia adolescenza l’infiltrarsi progressivo in me di un’idea certo aberrante; quella dell’impossibilità di partecipare attivamente al gioco della vita in quanto ne sarei stato escluso. (…) Vivevo in una strana duplicità, nel precario, nel vuoto. Cresceva in me un sentimento di distacco dalla realtà, vedeva come su uno schermo allontanante il mondo della storia ed i suoi conflitti (…).[33]

Zanzotto ci fornisce una pista “psicologica”, per interpretare quella minaccia d’irrealtà che pesa non tanto sulle cose, sulla loro carattere “inassimilabile”, ma sul soggetto stesso che è portato a lodarle. Quest’ultimo è minato nella sua fisionomia interna e nella sua capacità espressiva, ancor prima di essere entrato in contatto con uno dei “punti roventi”, che designano l’incontro erotico tra l’io e una “preminenza” del mondo. Non è caso, d’altra parte, che proprio in tale contesto discorsivo emergano, poche righe dopo, immagini d’inconsistenza ed evanescenza legate all’attività poetica. Proseguiamo dunque la lettura:

(…) ho corteggiato a lungo il sacro mondo delle muse o anche il mondo banalissimo di quelle che vengono scambiate per muse e in realtà sono soltanto scorie di miraggi, alcuni già vivi nel passato, altri già morti quando erano stati progettati come futuro. Quello della poesia è un mondo di sbagli, di allucinazioni, di torpori, di rigiri a vuoto, in cui s’incontra di tutto e ben di rado la pepita, il ramo d’oro.[34]

Abbiamo qui uno strano rovesciamento rispetto al primo dei brani citati. Nel momento in cui viene meno la “circolazione” tra l’interiorità e il mondo esterno e in cui si fa strada “il sentimento di distacco dalla realtà”, in aiuto del poeta giunge il “sacro mondo delle muse”, ossia tutta un’eredità culturale e letteraria che deve supplire al mancato incontro con i “punti roventi”. Entro tali condizioni psichiche ed esistenziali emerge, allora, quella “archeologia del paesaggio”, che facendo di necessità virtù permette a Zanzotto di includere nella sua poesia non solo la lode per ciò che esiste, ma anche la lotta con i propri fantasmi (individuali e collettivi), con insomma quella serie “di sbagli, di allucinazioni, di torpori, di rigiri a vuoto”, in cui il poeta si dibatte nei lunghi periodi che intervallano i suoi rari incontri con una “pepita” o un “ramo d’oro”.

Note

[1] Francis Ponge, Nioque de l’avant-printemps, Gallimard, Paris, 1983, pp. 21-22.

[2] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 2011, p. 309.

[3] La Beltà, in particolare, costituisce quasi un formulario di questa ambivalenza-reversibilità tra “consistenza” e “dissoluzione”, che sono i due possibili e contradditori esiti del “processo di verbalizzazione del mondo”. Ricordo da un altro testo (Esautorazioni): “(…) davanti al mondo ch’è paese: / ma come, come lo sosterrò? / Come lo risolverò? E il mondo è risolto? Risolto non è dissolto? E il grumo non deve – oro guano miele – rimanere? (…)”. Il “grumo” è ancora una volta sinonimo di “fondo”, di “residuo”, ma anche di “nucleo”, “radice”, “fondamento”: esso può essere inutile e ripugnante come uno scarto – la feccia, le deiezioni organiche – o magnifico e godibile come il dono supremo – l’oro, il miele. Inutile insistere ancora una volta sui rimandi alla simbologia alchemica, essi d’altra parte, assieme a rimandi di caratare mitologico, letterario, storico, filosofico, non fanno che “rimpolpare” figurativamente il concetto di zanzottiano di poesia che, soprattutto a partire da questo libro, diventa assieme al paesaggio (il referente “privilegiato”) uno degli argomenti della poesia stessa (Ivi, p. 276). Questo, per altro, è un ulteriore aspetto che Zanzotto e Ponge hanno in comune: l’integrazione del discorso sulla poesia (riflessione, teoria) all’interno degli stessi componimenti poetici.

[4] Ivi, p. 609.

[5] Francis Ponge, Pour un Malherbe, Gallimard, Paris, 1965, p. 25.

[6] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 267.

[7] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., pp. 74-75.

[8] Francis Ponge, Nioque de l’Avant-Printemps, op. cit., p. 31.

[9] È importante ricordare che, oltre ai riferimenti espliciti e noti di Zanzotto a Lacan, da un lato, e a Heidegger, dall’altro, all’altezza della Beltà si è ormai giocata, a livello di cultura europea, la transizione dal paradigma filosofico della fenomenologia e dell’esistenzialismo a quello dello strutturalismo e del decostruttivismo. Zanzotto, per altro, è alla fine molto più poeta di “idee” che Ponge, il quale resta relativamente sordo a queste correnti intellettuali, per quanto riguarda la riflessione sulla sua prassi poetica. Una sordità che, almeno nel suo caso, potremmo definire “feconda”.

[10] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., p. 197.

[11] Ivi, p. 201.

[12] Andrea Zanzotto, In questo progresso scorsoio. Conversazioni con Marzio Breda, Garzanti, Milano, 2009, p. 26.

[13] Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano, 2019, pp. 124-125.

[14] Il testo è poi raccolto in: Francis Ponges, Méthodes, Gallimard, Paris, 1961, p. 202.

[15] Francis Ponge, Pour un Malherbe, op. cit., p. 73.

[16] Francis Ponge, La rage de l’expression, Gallimard, Paris, 1952 e 1976, p. 114.

[17] Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973, p. 153.

[18] A dire il vero, come ha mostrato tra gli altri Luca Stefanelli in un approfondito studio dedicato alla Beltà e alle sue fonti intertestuali – Attraverso la Beltà di Andrea Zanzotto del 2011 – svariati temi heideggeriani circolano già in questo libro. L’emersione, però, della tematica dell’idioma e dell’oralità dialettale creano ulteriori tangenze tra la poetica zanzottiana e il pensiero del filosofo tedesco, che troveranno nella trilogia un terreno privilegiato di sviluppo.

[19] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 508.

[20] In un intervento scritto quattordici anni più tardi, Zanzotto affronterà in modo critico, in uno stesso contesto discorsivo, sia la nozione di idioma sia la fascinazione che essa ha esercitato su scrittori come Artaud e pensatori come Heidegger. In Tra ombre di percezioni “fondanti”, del 1990, leggiamo: “Si ricordi, tra l’altro, a proposito dello sprofondamento necessario per avere un qualche rapporto con gli strati originari (in una certa analogia con Artaud) che nel caso di Heidegger si constata l’inveramento, in una forma resa mostruosa, dell’”idioma”. Egli, pare, non fu nazista nel senso di razzista (…); egli idolatra la propria lingua, blocca lo sgomento del senzafondo puntando sulla lingua (propria). Non è qui inesatto appunto richiamare la tematica di Artaud, perché, effettivamente, all’inizio si è sempre immersi, diciamo pure infangati, interrati, all’interno di una lingua, che è e dà radici. (…) Ma Heidegger va in delirio per l’idiomaticità pura, che fa tutto precipitare proprio in implosività ed impossibilità di un’uscita reale verso l’esterno”, Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, I Meridiani Mondadori, Milano, 1999, pp. 1340-1341.

[21] “Il «logos erchomenos» di Andrea Zanzotto”, in Giorgio Agamben, Categorie italiane, apparso per la prima volta per Laterza, Bari, nel 2010. Nuova edizione, per Quodlibet, Macerata, 2021.

[22] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 312.

[23] Ivi, p. 237.

[24] Ivi, p. 257.

[25] Ivi, p. 654.

[26] Francis Ponge, Comment une figue de paroles et pourquoi, Flammarion, Paris 1977 e 1997, pp. 66-67.

[27] Quali che siano le ricchissime considerazioni speculative si possono trarre dalle Ricerche filosofiche, i poeti potrebbero accontentarsi di accogliere almeno un paio di consigli. Poeta – sembra dire Wittgenstein – invece di andare alla ricerca di una parola pura e perfetta, meravigliati dello straordinario accordo che, nella vita ordinaria, possiamo constatare tra le forme di vita e i nostri modi di dire! Dedicati alla pratica di ciò che il linguaggio già ti permette di fare, senza pensare di possedere uno strumento strutturalmente imperfetto e inadatto ai tuoi bisogni! E non rimanere affascinato dai miti sull’origine e il fondamento del linguaggio, perché essi non contribuiscono in nulla a rendere più efficace la pratica dei vari giochi linguistici!

[28] Francis Ponge, La rage de l’expression, op. cit., p. 105.

[29] Si legga quanto scrive Zanzotto, nel 1967, parlando de Gli strumenti umani di Sereni, ma parlando forse più di se stesso e della sua poetica: “Egli ha la piena coscienza che nessuna situazione della vita concreta è di fatto tanto demitologizzata (o deerotizzata) da non basarsi su monconi di miti e di amori che, tutto sommato, non possono non conservarsi tali, e che per essere sentiti come tali devono venire espressi proprio con questi termini, per quanto frusti ed erosi, anche se il mito dell’antimito e del disincanto totale impone delle finte, delle reticenze nei loro confronti. (…) Si delinea allora una verità in cui la terminologia ‘alta’ e accenni di sintassi alta bucano il tessuto del parlato depresso-disilluso che pure viene accettato, se non come preferibile, come il solo che oggi conceda agganci”, in Aure e disincanti nel Novecento letterario, Mondadori, Milano, 1994, p. 42.

[30] Andrea Zanzotto, Tutte le poesie, op. cit., p. 679.

[31] Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, op. cit., p. 1206.

[32] Francis Ponge, Comment une figue de paroles et pourquoi, op. cit., p. 101.

[33] Andrea Zanzotto, Le poesie e prose scelte, op. cit., pp. 1207-1208.

[34] Ivi, p. 1208.

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Andrea Inglese (1967) originario di Milano, vive nei pressi di Parigi. È uno scrittore e traduttore. È stato docente di filosofia e storia al liceo e ha insegnato per alcuni anni letteratura e lingua italiana all’Università di Paris III. Ora insegna in scuole d’architettura a Parigi e Versailles. Poesia Prove d’inconsistenza, in VI Quaderno italiano, Marcos y Marcos, 1998. Inventari, Zona 2001; finalista Premio Delfini 2001. La distrazione, Luca Sossella, 2008; premio Montano 2009. Lettere alla Reinserzione Culturale del Disoccupato, Italic Pequod, 2013. La grande anitra, Oèdipus, 2013. Un’autoantologia Poesie e prose 1998-2016, collana Autoriale, Dot.Com Press, 2017. Il rumore è il messaggio, Diaforia, 2023. Prose Prati, in Prosa in prosa, volume collettivo, Le Lettere, 2009; Tic edizioni, 2020. Quando Kubrick inventò la fantascienza. 4 capricci su 2001, Camera Verde, 2011. Commiato da Andromeda, Valigie Rosse, 2011 (Premio Ciampi, 2011). I miei pezzi, in Ex.it Materiali fuori contesto, volume collettivo, La Colornese – Tielleci, 2013. Ollivud, Prufrock spa, 2018. Stralunati, Italo Svevo, 2022. Romanzi Parigi è un desiderio, Ponte Alle Grazie, 2016; finalista Premio Napoli 2017, Premio Bridge 2017. La vita adulta, Ponte Alle Grazie, 2021. Saggistica L’eroe segreto. Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Dipartimento di Linguistica e Letterature comparate, Università di Cassino, 2003. La confusione è ancella della menzogna, edizione digitale, Quintadicopertina, 2012. La civiltà idiota. Saggi militanti, Valigie Rosse, 2018. Con Paolo Giovannetti ha curato il volume collettivo Teoria & poesia, Biblion, 2018. Traduzioni Jean-Jacques Viton, Il commento definitivo. Poesie 1984-2008, Metauro, 2009. È stato redattore delle riviste “Manocometa”, “Allegoria”, del sito GAMMM, della rivista e del sito “Alfabeta2”. È uno dei membri fondatori del blog Nazione Indiana e il curatore del progetto Descrizione del mondo (www.descrizionedelmondo.it), per un’installazione collettiva di testi, suoni & immagini.
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