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“Memoria dimenticata”: a 50 anni dalla strage nel carcere di Alessandria

 

 

di Daniele Ruini

Le origini di Alessandria, sonnacchioso capoluogo di provincia che ha dato i natali a Umberto Eco e ai cappelli Borsalino, sono ben iscritte nell’odonomastica del suo centro storico: Piazzetta della Lega Lombarda, via Pontida, via Legnano, via Alessandro III (il papa da cui la città prende il nome); e ancora: via Modena, via Parma, via Bergamo, via Piacenza, via Cremona: località alleate nella Lega lombarda che, come sfida aperta all’imperatore Federico Barbarossa, nel 1168 patrocinarono la fondazione di una nuova città pensata come baluardo contro le forze imperiali.

A custodire invece le tracce di una storia più recente è un quartiere periferico che la ferrovia separa dal centro: è qui, tra i palazzoni costruiti durante l’espansione urbanistica degli anni ’70, che troviamo via Gandolfi, via Pier Luigi Campi, via Vassallo Giarola, via Gaeta e via Cantiello. Sono i nomi di cinque vittime, nomi dimenticati che ci parlano di violenza, di carcere, di anni di piombo, e della decisa fermezza dello Stato a non scendere a compromessi con chi voleva ribellarsi alle istituzioni.

Ma torniamo nei pressi del centro storico, nel luogo in cui il 9 e 10 maggio 1974 la città visse due giorni di ansia e tragedia che lasciarono sul campo 7 morti e decine di ferite. Siamo in piazza don Sorìa (all’epoca piazza Goito), sulla quale si affaccia il carcere cittadino, la casa circondariale oggi intitolata agli agenti di custodia Gennaro Cantiello e Sebastiano Gaeta. Già nei mesi precedenti il carcere alessandrino era stato attraversato da momenti di tensione, con uno sciopero dei detenuti che protestavano per richiedere condizioni di detenzione migliori: in tutta Italia i carcerati si battevano infatti per una riforma in grado di promuovere trattamenti più umani per i prigionieri, speranzosi di trovare un interlocutore nel socialista ed ex partigiano Mario Zagari, da poco nominato Ministro di Grazia e Giustizia.

Fino a quel momento, tuttavia, tali speranze erano state del tutto disattese, come dimostrò la protesta al carcere fiorentino delle Murate del febbraio ’74, durante la quale gli agenti spararono sui detenuti ferendo a morte il ventenne Giancarlo Del Padrone (per l’occasione i detenuti alessandrini organizzarono uno sciopero di due giorni e una raccolta fondi per la famiglia della vittima).

Tali contestazioni s’inseriscono in un più ampio contesto storico nel quale rientrava anche la politicizzazione dei detenuti: un processo maturato in seguito alle proteste studentesche del ’68 e innestato dall’incontro tra gli studenti e il mondo del carcere[1].

E non andrà dimenticato che nella primavera del 1974 l’Italia viveva i momenti febbrili della campagna referendaria sul divorzio, con la forte contrapposizione tra DC e MSI, da un lato, e il resto dell’arco costituzionale, dall’altro. Fu proprio nel pieno di questa campagna che le Brigate Rosse decisero di uscire dall’ambito delle fabbriche e di prendere di mira un esponente dello Stato: il 18 aprile del ’74 a Genova viene infatti rapito Mario Sossi, sostituto procuratore della Repubblica dalle note simpatie di destra (e PM nel processo contro il gruppo anarco-comunista “XXII ottobre”, responsabile di una rapina conclusasi, nel marzo ’71, con l’uccisione del portavalori Alessandro Floris)[2].

È al crocevia di questi sommovimenti che i sospetti sull’organizzazione di una possibile rivolta nel carcere di Alessandria diventano realtà nella mattinata di giovedì 9 maggio: alle 9:30 i detenuti Cesare Concu (vicino alla sinistra extraparlamentare), Domenico Di Bona e Everardo Levrero, entrati in possesso di due pistole e quattro coltelli, prendono in ostaggio alcune guardie carcerarie e alcuni insegnanti nelle aule scolastiche del penitenziario. L’obiettivo dei tre è molto concreto: vogliono evadere e, per farlo, approfittano dell’opportunità riservata ai detenuti di frequentare le lezioni per il conseguimento del diploma di geometra[3].

Trasferitisi nell’infermeria, dove si trovano altri detenuti, sequestrano anche il medico del carcere, Roberto Gandolfi. Nel frattempo giungono le autorità locali e si apre la trattativa: a fare da intermediari alcuni giornalisti e l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, la quale per facilitare il dialogo si offre come ostaggio, una scelta coraggiosa che le sarà fatale. I tre detenuti avanzano le loro richieste attraverso un comunicato nel quale, oltre a protestare contro il Governo reo di non aver concesso la riforma del sistema penitenziario e del codice penale, chiedono un pulmino schermato e una scorta che permetta loro di allontanarsi dal carcere.

Mentre la trattativa va avanti, a rompere gli indugi è l’arrivo sul posto del Procuratore generale del Piemonte, Carlo Reviglio della Veneria, e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Gli ordini provenienti dal Ministero dell’Interno sono chiari: lo Stato non può accettare nessuna negoziazione e la vertenza dev’essere chiusa al più presto (a maggior ragione a due giorni dal referendum abrogativo sul divorzio). Nonostante la contrarietà del sindaco e di altri esponenti delle istituzioni alessandrine, a prevalere è la linea della fermezza e della forza: la sera del 9 maggio viene deciso un primo assalto, nel quale rimarrà ucciso il dottor Gandolfi e gravemente ferito il professor Pier Luigi Campi (il quale morirà in ospedale dieci giorni dopo). Il giorno seguente, nonostante il tentativo delle autorità locali di riaprire la strada del dialogo per evitare altro spargimento di sangue, ci sarà una seconda offensiva, che avrà conseguenze ancora più gravi: Di Bona sparerà mortalmente a Vassallo Giarola e agli agenti Cantiello e Gaeta, prima di togliersi la vita; Concu rimarrà invece ucciso dalla polizia; Levrero uscirà illeso e 4 anni dopo sarà condannato dalla Corte d’Assise di Genova. Questo l’esecrabile commento del procuratore Carlo Reviglio della Veneria a operazione conclusa: «La nostra è stata un’azione meravigliosa, condotta in modo magistrale».

A seguito di questi fatti la città rimane come stordita: oltre all’immenso dolore dei parenti delle vittime, a dominare è un senso di incredulità per quanto successo e di rabbia per la condotta delle forze dell’ordine comandata dall’alto. È evidente che ogni opzione guidata dal buon senso è stata accantonata in favore di un’iniziativa sciagurata che chiudesse la vicenda nel più breve tempo possibile, in dispregio di ogni costo umano. La giunta comunale, guidata dal giovane sindaco Felice Borgoglio, oltre ad esprimere totale dissenso rispetto al giudizio di Reviglio della Veneria e ad aver ottenuto il trasferimento da Torino a Genova del processo a carico dell’unico rivoltoso sopravvissuto, Everardo Levrero, guidò la costituzione del “Comitato 10 maggio”: l’obiettivo era quello di denunciare in maniera dettagliata il modo in cui era stata gestita la rivolta carceraria e di «arrivare a un accertamento imparziale della verità e delle responsabilità» (iniziativa che porterà ad un esposto che sarà archiviato dalla procura generale di Genova e alla pubblicazione del volume di controinchiesta La strage nel carcere: Alessandria, maggio 1974).

A ripercorrere questa tragedia, a 50 anni di distanza, è oggi la bella docuserie in 6 puntate “Memoria dimenticata”, realizzata da Alessandro Venticinque e prodotta dalla diocesi di Alessandria. Oltre alla ricostruzione dei fatti e alla riproposizione delle tante ombre che avvolgono questa vicenda (dallo scarso livello di controllo nei confronti dei detenuti che facilitò l’ingresso delle armi in carcere, a come le indagini che portarono alla condanna di Levrero non aggiunsero alcun elemento di chiarezza su quanto avvenne davvero in quelle ore concitate), a impreziosire questo lavoro è la testimonianza di alcuni dei protagonisti dell’epoca (compreso lo stesso Levrero, raggiunto telefonicamente) e dei parenti delle vittime.

Il titolo stesso della docuserie vuole valorizzare il ruolo della memoria: se la strage di Alessandria venne avvolta rapidamente da una cappa di silenzio (complice anche l’indolenza della maggior parte della cittadinanza), la ricorrenza del cinquantennale può rappresentare una preziosa occasione per “fare memoria” di fatti che appaiono –anche localmente– quasi del tutto dimenticati.

___

[1] Cfr. Cesare Manganelli, La strage del carcere di Alessandria, la lotta armata e la strategia politica dei Nuclei armati proletari (1975-1975) in «Quaderno di storia contemporanea» LXVI, 2014, pp. 105-115. Come ricorda l’autore, l’istituzione di una commissione indipendente di inchiesta sulla strage di Alessandria fu una delle richieste contenute nei due volantini del settembre-ottobre ’74 con cui si annunciava la fondazione dei Nuclei armati proletari, la cui nascita è strettamente legata alla politicizzazione dei detenuti.

La vicinanza del mondo operaio ai detenuti è stata immortalata nel film di Marco Bellocchio Sbatti il mostro in prima pagina (1972), in cui sono intercalate immagini del passaggio del corteo degli operai in sciopero di Philips, Alfa Romeo e Pirelli davanti al carcere milanese di San Vittore: alle bandiere dei Cobas si mescolano slogan come «Fuori i compagni, dentro i padroni!» e «Compagni carcerati sarete liberati! L’unica giustizia è quella proletaria!». Nello stesso 1972 Lotta Continua pubblicò il volume Liberare tutti i dannati della terra, una densa inchiesta sulle carceri italiane costruita con le testimonianze e le denunce dei detenuti stessi (tra cui diversi militanti).

[2] Nel volantino di rivendicazione del sequestro le BR parlano della necessità di «portare l’attacco al cuore dello Stato». Sossi verrà liberato il 23 maggio, nell’attesa che lo stesso accada agli 8 detenuti della “XXII ottobre”, ai quali è stata concessa la libertà provvisoria; ma così non sarà, visto che il procuratore generale di Genova Francesco Coco si opporrà al provvedimento, una decisione che porterà le BR a togliergli la vita l’8 giugno 1976: si trattò, come ricorda Giovanni Bianconi (Terrorismo italiano, Roma, Treccani, 2022, p. 67), del «primo omicidio pianificato dell’organizzazione».

[3] La presenza di percorsi di scolarizzazione all’interno di un penitenziario (unitamente a laboratori di meccanica, falegnameria e altre attività professionali), oggigiorno la norma, era invece all’epoca una caratteristica innovativa del carcere alessandrino, introdotta su iniziativa di un sacerdote illuminato, nonché insegnante liceale di Lettere e Religione, Don Amilcare Sorìa (1887-1962): a lui il comune intitolerà nel ’65 la piazza antistante il carcere. Cfr. Andrea Biscàro, Don Amilcare Soria: padre dei carcerati, Torino, 2022.

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1 commento

  1. Questa è stata la storia, l’amara sconfitta della ragione e del dialogo possibile a favore dell’intervento armato imposto dallo Stato, sordo ad ogni tentativo di dialogo.
    Inutile sacrificio di vite umane.

    Gaetano Romano

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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