L’occhio di Dio

di Silvia Belcastro

Sono diventata una fabbrica notturna”.

(Ingeborg Bachmann)

Me ne sto immobile sul letto, come un’ape regina troppo pesante. Dal mio corpo escono tubi da mungitura perché devo allattare la notte, devo mettere al mondo le sue creature: su un nastro trasportatore sfilano, a distanza regolare, i miei fantasmi contornati di luce.

Indosso la sottoveste di lana azzurra.

Bianca, dice l’abuelita.

Dipende dalla luce della luna.

La indosso in un sogno di realtà: sul balcone, per l’esattezza.

La camerata è divisa in due da un solco profondo, una ferita camminamento che scorre tra le file di letti e punta alla finestra. Dormono tutti: hanno sempre dormito tutti, tranne nel momento in cui il mio corpo, scosso dai tremiti del fuoco malato, si muoveva e si esponeva alla vivisezione come una marionetta nuda.

“Pavor nocturnus? Schizofrenia? Guardate: l’occhio non vede! Qui si innesta il pensiero intrusivo che crea il cortocircuito. Antipsicotico, sì? Il rischio è minimo: al massimo, un torpore della mente.”

Ti stacco la carne dall’osso coi denti e non mi lavo la bocca dal sangue. Hanno sempre dormito tutti, tranne quando l’urlo mi gettava sul pavimento e sbattevo la faccia contro il legno. Piegavo il braccio sotto il letto nel tentativo di fuggire e quasi mi rompevo l’osso finché, della visione, non restava che un livido del colore della notte.

“Una catena alla finestra, sì?”

L’ho comprata io stessa: una catena da orso ballerino, di quelle in acciaio. Un anello entra dentro un altro anello che entra dentro un altro anello e avanti così, di chiusura in chiusura, fino alla fine del tempo, facendo ogni sera un rumore di catena.

La prima volta ho disegnato la finestra: tra le ante socchiuse, la colonna del cielo reggeva la luna, e la lama della notte entrava nella stanza interrotta solo dall’ombra della catena.

Ho nascosto la chiave dove la marionetta nuda non poteva raggiungerla e ho calcolato quanto tempo avrebbe impiegato a trovarla, prima che il corpo si svegliasse. Ho pensato che infilare la chiave dentro un calzino e mettere il calzino dentro un altro calzino e questi due calzini sotto tutti gli altri calzini mi avrebbe salvato dal balcone.

Era difficile trovare la chiave prima che lei, cioè io, mi svegliassi. Appena mi sono addormentata, mi ha raggiunto il lampo verde e mi sono alzata di scatto. Sono andata a sbattere contro il cassettone, come se il tempo non mi riguardasse, e ho trovato la chiave. L’ho infilata nel lucchetto che stringeva la catena e ho aperto la finestra: la notte mi ha guardato, senza svegliarmi.

Ho appoggiato il piede nudo sulla soglia argentata e ricordo che la finestra era diventata una meridiana che accarezzava i letti uno dopo l’altro, fino al mattino. Aveva una tenda finissima, che rispondeva soltanto alla brezza.

Le mattonelle del balcone erano coperte di fiori in braille. Sotto il balcone c’erano le colline e in fondo, in una coppa di montagne, il mare. Ho stretto la ringhiera con la mano sinistra e ho alzato la gamba destra, come una bertuccia. Ho arrotolato le dita del piede attorno al ferro e ho fatto leva sul gomito. Mi sono dondolata avanti e indietro, avanti e indietro e sono rimasta sospesa, come un gatto su una spada. Poi, mi sono gettata nel vuoto.

Tavola ispirata alle fotografie di Vincenzo Aragozzini nel manicomio di Mombello

Subito, l’aria si è fatta di pietra e mi ha colpito sulla spalla con dita rugose e ricoperte di terra. La pressione era così forte che ho sentito gli occhi chiudersi e un livido rovesciarsi nel braccio, come inchiostro.

La mia abuelita era tornata da un tempo precedente: mi stava guardando con gli occhi della fiera che spolpa l’osso senza lavarsi la faccia dal sangue e mi stringeva la spalla, come se volesse ridurla in cenere.

“Lasciami andare!” ho urlato.

Lei mi ha abbandonato con la mano, ma non con gli occhi. A terra, dicevano gli occhi di gelatina.

L’abuelita si è tolta lo scialle e lo ha steso sulle mattonelle: era nero, cosparso di minuscoli specchietti. Siediti, ha detto l’indice che puntava al firmamento di stoffa. Io mi sono seduta, lei si è seduta di fronte a me. Ha messo tra noi una pentola scura e Spogliati hanno detto gli occhi di gelatina, che ora riflettevano la luna.

Mi sono spogliata e l’abuelita ha messo la mia sottoveste di lana nella pentola. La sottoveste usciva un po’ dai bordi, come riso bollito, ma l’abuelita la rimestava come stesse preparando il pranzo dopo una lunghissima camminata. Finché, si è alzato un profumo d’arancia e la sottoveste ha preso fuoco.

L’abuelita si è messa a cantare e piangere insieme: l’occhio, dicevano le lacrime, deve piangere. Allora, ho cominciato a piangere anch’io ma, più piangevo, più mi montava nel corpo nudo una rabbia nuova e trasparente, un pianto di figlia tolta a sua madre e di madre tolta a sua figlia e mi chiedevo: che cos’è questa maternità?

Qualche tempo fa, mi ha visitato un pinguino: una femmina.

Mi trovavo in una cattedrale di ghiaccio ed era appena iniziata una funzione di pinguini. La pinguina era lì con il suo cucciolo, che somigliava ancora a un grosso uovo grigio ricoperto di lanugine, e se ne stava un po’ discosta dalla folla, distratta dalla luce che attraversava i fregi azzurri. All’improvviso, un’orca lucida, verde di pensiero dimenticato, è sgusciata fuori dall’acqua ed è scivolata sulla navata. Sembrava che avesse in mente quell’entrata da mille anni, per la precisione con cui ha puntato il piccolo della pinguina e… l’ha rubato! Poi, è ritornata negli abissi.

Sulla cattedrale si è alzata un’onda che ha sommerso i pinnacoli e tutti i pinguini sono corsi sul pulpito, ciascuno controllando di avere con sé il proprio ovetto di lana appena consapevole. Tutti, tranne una.

Ho bisogno di dire cosa è accaduto.

La mia pinguina è rimasta immobile per un istante, come crocifissa dalla verità rivelata: qualcuno le aveva tolto il suo bene. Ha lanciato un grido da pancia sventrata e ha iniziato a correre in tondo, come un orso ballerino. Nella cattedrale è caduto il silenzio e la pinguina ha continuato a correre. Quanto correva, anche se non aveva le gambe! Correva e cadeva e si rialzava, e gli altri pinguini scostavano i loro piedi corti perché non finissero sotto quella pancia disperata, che sbatteva sul ghiaccio come un sacco vuoto.

Poi, la pinguina si è fermata al centro dell’arena e ha messo su lo sguardo della fiera che spolpa l’osso senza pulirsi il sangue dalla bocca. Ha puntato la folla del suo popolo come una reietta, si è tuffata tra i fedeli e ha allungato l’ala per rubare il figlio di una sorella. “Ehi!” ha urlato l’altra, come se la vedesse per la prima volta. Poi, l’ha colpita sulla testa e si è rimessa il piccolo tra le gambe, là da dove le era sfuggito. Allora, la pinguina si è gettata su un altro cerchio di fedeli e di nuovo ha allungato l’ala: “È mio! È mio!” ha gridato.

Dove l’ala arrivava, strappava i piccoli dalle pance calde e li gettava lontano, finché si è scatenato il putiferio e nessuno sapeva più di chi era il genitore, il figlio, il fratello. “Dammi tuo figlio!” diceva uno. “No, TU dammi mio figlio!” urlava l’altro. “E allora TU: ridammi mia madre!” rispondeva un altro ancora, all’altro capo della volta azzurra.

È stato in quel momento che ho capito che qualcosa di irreparabile era avvenuto: in quella danza miserabile, la mia pinguina si chinava sul ghiaccio per cercare il suo bene, perché era figlia del suo bene.

È per questo che getto per terra mia madre, allungo l’ala per rubare e fuggo nell’acqua gelata, dove nessuno può sentirmi?

L’abuelita dice che partorisco fantasmi per via di un panico d’amore, un filo di lana teso e poi spezzato e poi di nuovo teso, e che è questo filo che mi fa impazzire. Perciò, ha tessuto per me l’occhio.

Mi ha denudato tutta, come se fossi ancora una bimbetta avvolta in sangue appiccicoso e Io ti partorirò, ha detto. Perché noi produciamo sangue e latte e ci lasciamo lavare la carne dagli uomini, ma ci partoriamo tra di noi e l’abuelita mi ha partorito, anche se io l’avevo abortita. Anche questo è normale, dice. L’amore ci precede, avviene in un tempo precedente.

L’occhio è sul mio comodino. Attraverso di lui, Dio mi vede e io lo vedo. Lui crea il dolore come un finissimo orafo e lo fa coi miei fantasmi, perché io sono la sua ape regina. Mi ha rinchiuso qui dentro, con questi matti che dormono all’ombra dei loro sessi, perché voleva farsi conoscere così, nell’assenza. Dio è un vanesio: vuole che io lo ami, vuole che io lo partorisca. L’abuelita dice che Lui ha disegnato la mia danza imperfetta, perché quale perfezione si muove? Quale perfezione cerca il suo completamento? Lui mi guarda e io lo guardo, e questa croce di lana è la croce dei pazzi. È il suo cuore spettrale, il cuore del mio figlio rubato, ma sono così stanca di allattare le tenebre.

Oggi il mio bene mi ha fatto visita un’altra volta. Ero su una spiaggia dove vado in cerca del mio dolore, ma la spiaggia è sempre più profonda, perché il mare se la mangia un boccone dopo l’altro. La discesa è diventata così ripida che qualcuno ha messo un cartello che dice: “PERICOLO!”.

Mi sono aggrappata a una fune che scende lungo la roccia ma, quando sono arrivata di sotto, ho scoperto che la sabbia era fredda come un ricordo irraggiungibile. Il mare era fatto di diamante e c’era una luce senza conforto, che non avevo mai visto: proprio in quel sole trasparente mi è venuto incontro il mio bene.

Nel tempo della sua assenza, era diventato mostruoso. Mi cercava col suo muso bambino e i capelli sporchi di latte, ma il resto del suo corpo era ricoperto di lana. Il mio bene si era trasformato in una pecora adulta, enorme e non ancora filata! Aveva gli occhi chiusi e il viso di un poppante senza memoria, ma quel faccino di anima non nata non mi faceva alcuna compassione. Piangeva e piangeva, e mi cadeva in grembo col suo puzzo di lana sporca ma, più cercava il mio seno, più mi faceva orrore. L’ho staccato da me come un errore di me stessa, e sono fuggita.

Più tardi, ho aperto la scatola di cartone, in cerca di non ricordo che cosa. Mi sono affacciata sul bordo ed eccolo di nuovo lì: questa volta era piccolo, sul fondo della scatola, e mi dava le spalle. Era seduto a un tavolo di quercia, come in una casa di bambole povere, e scriveva una lettera grande come un francobollo. Sul tavolo pendeva una luce bianca e ho avvicinato il viso senza far rumore, un po’ per sbirciare la miniatura d’orefice e un po’ per non disturbare l’intimità di quella stella d’inverno, sospesa a illuminare le pareti del salotto di carta, come un occhio riflesso nel mio occhio.

D’un tratto, alle spalle del mio bene è comparsa una donna che era mia madre. Il mio bene non ha fatto in tempo a nascondere la lettera, o forse non ha voluto nasconderla, perché sentiva una tensione di verità e voleva sia nascondere, che dire, il contenuto della lettera.

“Che cosa stai scrivendo?” ha detto mia madre.

“Una lettera.”

“A chi?”

Il mio bene ha risposto il mio nome, ma io so che non intendeva me, perché in quel momento mi sono ricordata che la destinataria della lettera si chiamava come me e doveva avere dodici anni. Il mio bene ne aveva nove e conteneva a stento i suoi boccioli di buio. Livia, l’insegnante di danza, diceva che c’era come una “sorellanza”: nella forma del corpo, ma soprattutto in come l’uno danzava soffrendo i suoi argini e l’altra danzava rompendo i suoi. Il fatto che il nome fosse lo stesso non aggiungeva nulla al sigillo dei loro mondi infantili: era una lealtà magica e silenziosa, totale.

Non ho fatto in tempo a leggere il contenuto della lettera.

“È troppo” ha detto mia madre.

“È troppo” ho detto io, dal futuro.

Di qui, intuisco che dalla penna era uscito il latte.

Questa impudicizia morale ha aperto una voragine. Ora voglio strapparmi di dosso questi tubi da mungitura e voglio ridurre in mille pezzi la lettera del mio bene, affinché nessuno possa trovarla, ma l’abuelita dice che le lettere dei bambini sono eterne, anche quelle non spedite: rimbalzano nell’aria come un intorpidimento d’anima, come una brezza che parla la lingua di un tempo precedente. La gente teme il tempio tenero, teme l’incommensurabile del mondo: per questo ha bisogno di questa psicanalisi di letti freddi. La gente vuole sedare le braci del mistero.

Io sono la gente di me stessa: lei si divide in madre e in figlia, e si rifiuta. Teme la notte, teme il pianto del cuore per le creature che non sono figlie sue e se ne fa uno scudo, per ogni amore concesso e non concesso a sé stessa. Lei desidera lasciare un segno caldo e tenero, per questo si allontana da sé stessa: per fuggire, per tornare. Se questo non è possibile, sia la notte.

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mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot ha pubblicato Essendo il dentro un fuori infinito, Elegia, opera vincitrice del Premio Montano 2021 sezione opera inedita (Anterem Edizioni, 2021), Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), poesie e prose in antologie italiane e straniere. Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato a esposizioni collettive.  Aree di interesse: letteratura, sociologia, arti visuali, psicologia, filosofia. Per la saggistica prediligo l'originalità di pensiero e l'ideazione. In prosa e in poesia, forme di scrittura sperimentali e di ricerca. Cerco di rispondere a tutti, ma non sempre la risposta può essere garantita.
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