Autenticità e poesia contemporanea #7
La settima puntata della serie “Autenticità e poesia contemporanea” – un dibattito lanciato da un dialogo fra Maria Borio e Laura Di Corcia e sfociato in un questionario sottoposto a poete e poeti (che trovate qui), ospitato dai blog Nazione Indiana, Le parole e le cose e PordenoneLegge – vede le risposte di Andrea Accardi, il quale dopo Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Marilena Renda, Andrea Inglese Marco Pelliccioli e Antonio Francesco Perozzi prova a dare una sua visione del tema e ad affrontarne le sfumature. Il dibattito registrerà anche una puntata dal vivo a PordenoneLegge – qui tutte le informazioni.
di Andrea Accardi
L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?
“Autenticità”, non c’è parola più ambigua e scivolosa di questa, e quindi fate bene a porre il problema. Per il senso comune (che spesso ha ragioni che la ragione non conosce) una letteratura e una poesia autentica sarebbe grossomodo quella che mette in mostra una trasparenza del soggetto, che fa esercizio di confessionalismo, e questo non è né falso né vero. Ci sono posture del genere che possono risultare poco convincenti, stucchevoli, artefatte, ma ce ne sono altre che invece sembrano toccare qualcosa di essenziale, dolente, personale, e fare insomma centro, se non fosse che nel sottobosco della poesia ormai si nasconde (da anni? decenni?) una torma di cacciatori pronti a impallinare alla prima traccia effusiva di un io che trapela. Non dico che quella non sia una costruzione delicata che si attesta lungo un confine sottile, sdrucciolevole verso l’insidia patetica, il contegno naïf, la posa invecchiata, il sentimentalismo color seppia, e così via. Ma non credo nemmeno che si debba negare ontologicamente la possibilità che l’io intercetti, malgrado sé stesso, qualcosa di vero della propria posizione nel mondo, considerando illusoria qualunque vocazione soggettiva (io qui mi muovo d’altronde all’interno di una non facilmente dimostrabile empiria, che mi sembra però l’unico punto di partenza possibile). Oggi sulla carta può risultare forse più vincente e smaliziato il fatto di tentare la stessa indagine per qualche via obliqua che non ripercorra le traiettorie viete e corrive del soggetto lirico sempiterno romantico (quello cioè sdoganato dal romanticismo, e che ancora oggi in qualche modo ci autorizza a dire gratuitamente di noi stessi), ma che cerchi appunto altre strategie per fare esplodere la soggettività, per vaporizzarla sopra una distesa di apparente neutralità, rinunciando insomma all’inverecondia puntiforme del pronome personale, per volerlo ritrovare a un livello superiore, ulteriore. Se stiamo con le riflessioni di Guido Mazzoni (nella cui poesia un io peculiare, cinico sofferente disincantato, risulta tutt’altro che camuffato), ad esempio in un’opera come La Terra desolata, dove non c’è traccia di io lirico, siamo immersi nel trionfo di una soggettività, che si arroga il diritto di ricomporre analogicamente e idiosincraticamente il contemporaneo occidentale e la sua tradizione. Molte scritture poetiche hanno felicemente forzato i limiti del confessionalismo proprio per fare emergere un lato inconfessato della realtà che ha bisogno di altri discorsi, di altre strutture, di un’altra sintassi. E allora certe strutture ereditate vengono stigmatizzate non solo come poeticamente inefficaci, ma addirittura complici di un adeguamento al noto e all’immutabile, fedeli a quella che alcuni chiamano la lingua dei padroni. Ma come può suonare vuoto e falso un soggetto che si proponga platealmente come pieno della propria verità (posto che l’arte sia sempre in qualche misura un infingimento, ma non è di questo che si parla), allo stesso modo certi esibiti autosabotaggi dell’io possono risultare nondimeno dei trucchi scoperti, così come altri accorgimenti mimetici che vorrebbero restituire una naturalità materica, antiretorica della lingua (via le maiuscole, via la punteggiatura, libertà dei significanti, slogature della sintassi, slittamenti grafici, e via dicendo) hanno ormai una tradizione recente ma già consolidata per non sembrare artifici uguali e contrari rispetto a quelli cui si oppongono (e così il problema si sposta ma non si risolve). Nel recente Esiste la ricerca dello scorso ottobre mi dicono che sia stata posta la consueta dicotomia lirici vs sperimentali, che mi sembra più che altro uno schematismo di comodo per indicare due tendenze che facilmente si compenetrano, si spalleggiano. Se invece poste in opposizione, sulle spalle della lirica verrà addossata ogni forma di autenticità pretestuosa, dal lato della scrittura sperimentale e di ricerca sarà rivolto il pathos di un’inchiesta sul mondo non viziata dal confessionalismo. Eppure, penso a scritture come quella di Bortolotti e di Broggi, che sanno tenere così bene in equilibrio l’interno e l’esterno; a una battuta ricorrente di Cepollaro: “non esistono scritture di ricerca, esistono scritture di riuscita”. Non mi pare insomma che questa polarizzazione giovi realmente a qualcuno, così come le barricate conservative o gli estremismi del tipo “la scrittura di ricerca sarà incendiaria o non sarà”.
L’autenticità sembra distinguersi dalla verità: la prima partirebbe da una spinta interiore, dalla necessità individuale di poter esistere e agire secondo il proprio sé, mentre la seconda sarebbe legata a un orizzonte esterno, dal momento che il discorso della verità deve comunque poter essere condiviso. Seguendo, però, le riflessioni che abbiamo ereditato da Jacques Lacan, il desiderio presenterebbe un duplice volto, ovvero giungerebbe sempre dall’altro (il Grande altro), ma manterrebbe anche delle sue caratteristiche intrinseche (il desiderio è anche mio, e di nessun altro). Che rapporto c’è fra desiderio e autenticità?
È chiaro che ci sono verità condivise che mandano operativamente avanti il mondo, perlomeno quelle tecnico-scientifiche (se passiamo alla sfera morale già ci intendiamo di meno, ma per fortuna si converge comunque in larga parte), ma non per questo considero la formula “verità soggettiva” una contraddizione in termini, anzi credo che vada presa con molta serietà. Non c’è dubbio che per la psicanalisi, e quella di Lacan in particolare, la verità del soggetto coincida con il suo desiderio inconscio, spesso non allineato alla volontà cosciente e dunque pronto a reclamare la propria esistenza sotto le insegne dolorose del sintomo. Un desiderio che, come ha detto in un’intervista Antonio Di Ciaccia, il paziente suda le proverbiali sette camicie per capire quale sia. Ma se prolunghiamo questa prospettiva lacaniana, allora bisogna precisare che il desiderio si articola sempre all’interno di un fantasma soggettivo, che è il modo unico di ciascuno di noi per guardare la realtà, e che ci collega all’Altro a condizione di restarne sufficientemente separati. E allora forse l’autenticità può avere a che fare con questo, con l’impressione che l’autore stia articolando dentro il testo la lotta con il proprio fantasma, con qualcosa che davvero è soltanto suo, e che oltrepassa e precede il chiacchiericcio del poetico e del letterario. È di nuovo una verità pragmatica, in qualche modo da riconoscere prima con il corpo. A volte sento dire: si scrive sempre lo stesso libro, ma forse dovremmo dire: si riscrive sempre lo stesso fantasma. Poi è chiaro che esistono i desideri collettivi, le grandi rivendicazioni plurali, e quindi una letteratura che tenta di esprimere una vocazione pubblica e politica, ma credo che anche in quel caso si debba prima superare la dogana del proprio fantasma soggettivo.
Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?
Sono più domande, comincio dall’ultima: l’espressione più o meno risoluta di sé da parte di un autore può certamente interessare e coinvolgere il pubblico dei lettori, è anzi evidente che questo avvenga, in virtù di quel fondo simmetrico che ci permette di specchiarci e riconoscerci in qualche misura nell’esperienza di un nostro simile. Decisivo è il passaggio, e uso ancora come strumentazione il Mazzoni teorico, da un autobiografismo che prevedeva uno sforzo preliminare e programmatico di esemplarità a quello in cui siamo ancora immersi, per il quale l’individuale è già universale, e tocca insomma al lettore stare al gioco. Ma non è affatto detto che l’autenticità debba per forza trovare uno sfogo confessionale e un impianto apertamente soggettivo. Una forma non strettamente lirica può magari favorire una qualche perdita di padronanza, permettere di aggirare sovrastrutture identitarie ormai logore, prevedibili. Un’articolazione aderente al proprio profondo “vero sé” non necessita insomma della prima persona. Ma se la lirica moderna è davvero tutta soggettiva, e tanto di più quando non vediamo l’io perché ci siamo sprofondati dentro, allora la scommessa è capire quanto, in quali punti, con quali anelli, un mondo ossessivo e personale ha saputo entrare efficacemente in contatto con la realtà esterna, farsi carico del mondo. Si può comunque fare centro con qualunque scelta o non scelta di campo, ribadisco che non c’è una strada falsa e l’altra vera. Così come una voce può sempre irrigidirsi, alienarsi in altre voci e in altre scritture, comprese quelle che ambiscono all’impersonalità retorica e ripetono invece dei moduli divenuti riconoscibili e urlano quindi un desiderio di appartenenza. Vallo a capire qual è il fantasma e quale il fantasma di un fantasma, ma questo vale per tutto, anche per le battaglie che riteniamo più esterne e svincolate dalla nostra ossessione. Evocando poi l’Intelligenza Artificiale, e la sua ombra sinistra che si distende sull’umanesimo tutto, la buona notizia è che allo stato attuale dell’algoritmo non sembra riuscire a proporre valide riconfigurazioni poetiche del mondo né a costruire un io lirico credibile. L’autenticità è ancora questo scarto, chissà per quanto, tra l’umano e il cibernetico. Forse un giorno ChatGPT sperimentale bullizzerà istericamente ChatGPT lirico, e ChatGPT lirico protesterà in modo querulo che ChatGPT sperimentale non si capisce, e sarà come se nulla fosse cambiato.
In letteratura l’onestà – come il tema della “poesia onesta” caro a Umberto Saba – può andare di pari passo con il valore estetico?
“Onestà” è un termine ancora più pericoloso di “autenticità”, perché sembra evocare una certa concezione corrente di letteratura edificante, morale, socialmente utile, valoriale, in definitiva buona (l’espressione è in effetti colpa di Saba, che credo fosse soprattutto in polemica con un certo uso novecentesco della metafora e dello stile). Non mi resta che riecheggiare cose che ho già detto: per me onesta e autentica è un’opera in cui possiamo sentire che l’autore, in qualunque modo, ha lottato con il proprio fantasma, qualunque esso sia. E sì, il valore estetico ha a che fare anche con questo agonismo cognitivo, senza dubbio. Chiaro che poi devono essere onesti anche i lettori, cioè disposti a riconoscere che quella lotta è avvenuta, fosse pure contro un’illusione e verso il fallimento. E invece mi pare che lettori onesti, per ragioni ideologiche umorali contingenti personali, spesso non riusciamo a esserlo.
*
Immagine: Franz Kline
https://slowforward.net/2024/09/05/the-mind-control/