“Morto, è già morto”

di Elisabetta Bruni

C’è una vecchia che grida aiuto, ma nessuno ci bada. La normalità di un urlo disperato nel corridoio di un ospedale. Aiutatemi, aiuto! Perché non mi aiutate?

Oggi il 21 esce. Se si forma una piaga da decubito quello si complica e poi non esce più, quindi esce oggi. Aiuto. Aiuto. Sì, però non esagerate con le dimissioni perché metà degli infermieri sta male. Ho capito, ma qua abbiamo già sette pazienti poggiati negli altri reparti, se oggi entra qualcuno dove lo mettiamo? Il 21 esce, dico solo di non farne uscire quattro tutti oggi. Aiutatemi… Mi fate morire… Perché devo soffrire così?

Una specializzanda entra e le chiede che c’è a volume altissimo, la vecchia ripete aiuto, aiuto. Una delle compagne di stanza scuote la testa, dice lascia perdere, sono due giorni che fa così, non ci ha fatto dormire.

Quando l’ho vista per la prima volta, mi è sembrato di conoscerla. Credevo che fosse la madre di un amico di mio padre, ma il nome non era lo stesso. Se fosse stata davvero lei, la madre dell’amico di mio padre… provo a immaginare che lo sia e quindi immagino la vecchia da giovane che accompagna il figlio a casa dell’amico, cioè mio padre. La immagino dirgli di comportarsi bene. Vedo mia nonna che le offre il caffè, lei che accetta e resta a chiacchierare tutto il pomeriggio, la aiuta a sgranare una busta di fave che non finisce più, alla fine nonna gliene regala la metà. Quando si avvicina l’ora di cena recupera il figlio, che ha i vestiti zozzi di polvere e nero perché chissà dove si è andato a strusciare e lo riporta casa. Immagino la vecchia che è un po’ meno vecchia di oggi e ormai gestisce un bar in autonomia da una trentina d’anni, caccia gli ubriachi quando danno fastidio, serve i minorenni senza controllare il documento. La immagino incontrare mio padre al supermercato, gli dice mio figlio ora lavora al Nord, è ingegnere. Mio padre le dice che lo sa, la saluta con affetto. Immagino la vecchia comprare i fiori da portare al cimitero dov’è sepolto il marito.

La guardo contorcersi nelle lenzuola bianche, con le braccia piene di ematomi e lividi, una cannula in vena e gli occhialini per l’ossigeno nelle narici. Non sembra cosciente, non sembra neanche umana. Forse perché si muove come un neonato, ma ha il corpo di qualcuno che dovrebbe sapere che ogni tanto va cambiato il filtro della cappa. Sbava, gli occhi sono strani, capiscono ma non capiscono. A volte, quando in questi giorni mi è capitato di visitarla, ho iniziato a parlarle normalmente, come a una qualunque persona adulta sana, per poi scivolare in un linguaggio che detesto, quello che si usa coi bambini e coi cani e io non uso per nessuno, generalmente. Alla fine, ho smesso di parlare con lei, di rispondere alle sue frasi sconnesse, trattandola alla stregua di una pianta. Può sembrare cinico, ma per me è più dignitoso che trattarla come una bambina di pochi anni. Immagino che la sua coscienza abbia sprazzi di lucidità e spero per lei che non succeda mentre le cambiano il pannolone, mentre la lavano o mentre le parlano come se una volta, tanti anni fa, qualcuno in sua presenza non si fosse sentito in soggezione.

Il giorno dopo le prendo i parametri, ma non riesco a misurare la pressione, non riesco a sentire la massima. Ha un respiro lento, sincopato, gracchiante, cupo. Al terzo tentativo capisco che quella che credevo essere la minima è la massima, ha la pressione bassissima, in parole povere sta morendo. Chiamo gli altri, si materializza un circolo di dottoresse attorno al letto che la guardano e basta, mormorano sì, eh, chiamate il figlio, è qui fuori? Eh, chiamatelo. Se ne sta andando. Prendete un separé.

Mettono il separé attorno al letto della vecchia. Pochi minuti dopo, durante il giro visite vedo la sagoma del figlio attraverso la plastica bianca del separé, sento i suoi singhiozzi, il respiro della vecchia si è fatto ancora più profondo e rumoroso, quasi gorgogliante. Le dottoresse chiedono alle altre pazienti in stanza, allora, come andiamo oggi? Urlando, perché sono tutte vecchie, tutte sorde. Va meglio? Sei andata al bagno stamattina? Bene, bene.

Più tardi, mentre passo davanti alla stanza, vedo che il separé non c’è più, il letto è vuoto.

Non fanno così tanto effetto, i morti, se non li conosci. Mi sembra strano, ma è così, per quanto mi riguarda provo solo un leggero nervosismo. Quando assistetti a un’autopsia, all’università, fortunatamente portavo una mascherina. Non per l’odore, onestamente non ho mai sentito la famosa puzza di decomposizione perché tutti i morti che ho visto non erano morti da abbastanza tempo. Avevo iniziato a sorridere come una pazza da televisione, mi veniva da ridere così tanto che mi dovevo mordere le guance, ma era il nervosismo! Poi l’hanno aperto ed è andata meglio, perché una volta eviscerato un corpo non sembra più un essere umano, fa molta meno impressione di quando è integro e vedi quel colorito pallido che sembra finto, sembra trucco.

Siamo dei personaggi di Bret Easton Ellis quando si parla di morte, è tutto diverso da come dovrebbe essere. Ho fatto una constatazione di decesso l’altra notte, una tossicodipendente quarantacinquenne. Sono arrivata davanti alla casa e c’era una folla di parenti e cercavo di mantenere un’espressione neutra, né troppo serena né troppo addolorata, poi ho visto uno di loro ridere e ho cercato di rilassarmi. Mi sono venuti incontro due uomini vestiti di nero, quelli delle pompe funebri, erano talmente stereotipati – ma che mi aspettavo? Una bella ragazza in completo beige e tacchi a spillo?

Sapevano già tutto loro, mi hanno guidata nella stanza della morta e prima di entrare sono passata davanti a tre signore che piangevano, penso che una fosse la madre. La morta aveva un’aria orribile – e non venite a dirmi che è ovvio, ho visto dei morti che paiono addormentati, che ti danno l’impressione di poter avere uno spasmo e sbadigliare e tirarsi fuori dalla bara da un momento all’altro. Lei no, era talmente gialla che sembrava fatta di cera, aveva la bocca aperta e le braccia spalancate, le mani penzoloni dal bordo del letto, aveva ancora l’ago conficcato nella pelle. Non le avevano chiuso gli occhi, azzurri. I morti con gli occhi chiari sono doppiamente inquietanti perché somigliano a dei vecchi bambolotti, di quelli poco realistici, fatti di pessima gomma.

Mi incuriosiva più di quanto non mi spaventasse, e l’unica emozione che ho provato guardandola è stata… non esattamente un’emozione, ma sono stata percorsa da una sorta di brivido, una scossa elettrica, come se il cervello volesse ricordarmi che io ero viva, al contrario di quella donna. Probabilmente non è nulla di razionalizzabile, è solo che era notte fonda e vedere un cadavere mi ha fatto impressione. Ma un’impressione così, diciamo, fuggevole, niente di traumatizzante. La mattina dopo sono andata a cercare il nome della donna su Facebook e ho trovato una quantità di messaggi sul suo profilo da parenti, amici, conoscenti. Ho scoperto che aveva una figlia – non so perché, ma la cosa mi ha sorpresa. Forse perché mi era parso di capire che vivesse a casa della madre, me l’ero immaginata come una che entrava e usciva dalle comunità, una che non si era mai fatta una famiglia.

La figlia non era maggiorenne e le aveva scritto un post bello lungo, ricordo tra le varie frasi: “Anche se mi hai sempre fatta preoccupare sei stata la mamma migliore del mondo”, mi sono sentita cattiva quando ho pensato che il lutto tira fuori dalla gente bugie incredibili. Non credevo che quella donna potesse essere stata una buona madre. Mi era più facile immaginare che la figlia l’avesse odiata per la maggior parte del tempo. Mi sono detta di non giudicare una sconosciuta, che non potevo sapere, che sparare sentenze del genere è sintomo di ignoranza, ma è davvero ridicolo quando sento il bisogno di correggere i miei stessi pensieri come se qualcuno potesse sentirli, indignarsi ed esigere le mie scuse.

Dunque, personaggio di un libro di Bret Easton Ellis, lo dico perché la morte e le situazioni deprimenti non mi fanno più effetto. Non ci fanno più effetto, l’essere grottescamente insensibili è diffuso. Quando ho detto ai pazienti in fila fuori dalla Guardia Medica che dovevano aspettare che tornassi perché mi avevano chiamato per quella constatazione di decesso, una signora ha sbuffato ed è venuta avanti chiedendomi di scriverle una ricetta prima di andare.

«Ma ha capito che si tratta di una constatazione di decesso?», «Appunto! Se ci vai fra cinque minuti che cambia? Morto, è già morto.»

E poi tempo fa, sul letto assieme al mio fidanzato, guardavamo la sua home di Reddit. Si fermava a leggere i post che sembravano divertenti o interessanti, a guardare alcuni video, alcuni meme. A un certo punto appare un video intitolato qualcosa come “rapina finita male” – non ricordo neanche su quale sub-reddit fosse stato pubblicato – girato da una telecamera di videosorveglianza in quello che sembra un negozio di alimentari, si vede un uomo che spara a una persona già a terra, con la schiena contro, mi pare, un frigorifero. Si vede la pozza di sangue che nel video è molto più scura di quanto sarebbe dal vivo, si allarga dopo due o tre colpi. Mi attraversa quella stessa scossa elettrica di quando ho visto la donna morta di overdose, ma il mio fidanzato scorre, vede un meme e scoppia a ridere.

Io lo guardo e gli dico: “Ma ti pare?”, “Cosa?”, “Stai ridendo, ti rendi conto che abbiamo appena visto una persona che veniva uccisa?”, al che fa una smorfia, un’espressione che esprime soltanto un superficiale senso di disagio, come se le mie parole scalfissero esclusivamente uno strato sottilissimo del suo guscio, infatti il sorriso non svanisce completamente, “Eh, sì, lo so, ma sai… se ne vedono così tanti che non mi fa più impressione”, risponde. Ha ragione, non è che sia inquietante lui, siamo tutti talmente sovraesposti, ma lì per lì mi fa paura. Quella pozza di sangue che si espande. Non era mica un personaggio di un film. Forse è proprio colpa dei film, è la violenza in televisione, sono i canali true crime su YouTube. Che vorrà mai essere uno che viene ucciso in una sparatoria in un supermercato, la scorsa settimana giravano su Twitter i filmati del massacro in quella scuola elementare negli Stati Uniti. Mi pare pure quelle di una fucilazione… da qualche parte. Insomma, hai idea di cosa facesse alla gente quel John Wayne Gacy? Uno sparo non è niente. E con ‘sta storia dell’intelligenza artificiale possiamo creare immagini di qualunque mostruosità, non sarà mai abbastanza tremendo, nulla. C’è un limite all’empatia, immagino, simile al limite dei recettori nervosi – se eccessivamente stimolati, non rispondono più.

Ho un ricordo di Parigi, di quando avevo sedici anni, un senzatetto sul marciapiede. Ero in gita scolastica, ma in quel momento ero sola, alla ricerca di un souvenir nel Quartiere Latino. Era una bellissima mattina e mi ero imbattuta in un corpo umano accasciato a terra. Non si muoveva ed era difficile dire se la sua schiena si sollevasse ritmicamente, se respirasse, perché era disteso a pancia in giù e indossava un cappotto di un materiale piuttosto rigido. Pensai che potesse essere morto, la notte precedente doveva essere stata gelida, era il mese di febbraio e quell’uomo era perfino scalzo.

Mi guardai attorno, nessuno ci faceva caso, nessuno posava un occhio su di lui, sembrava che fosse invisibile, eppure era pieno di passanti, di turisti. Il commerciante nel negozio antistante spazzava l’ingresso come se niente fosse, rimasi per qualche minuto nel dubbio, dovevo chiamare qualcuno? La polizia? L’ambulanza? Dovevo toccarlo, assicurarmi che fosse ancora vivo? Avevo avuto paura di toccarlo, paura che si sarebbe svegliato all’improvviso, che mi avrebbe… afferrato le caviglie, credo. Non conoscevo la lingua, poi, bella scusa, bella giustificazione, non parlo francese, ma il 118 è valido anche qui? O è un altro, il numero? Non so, non lo so, trovarmi in questa situazione mi angoscia. Che ci pensi qualcun altro, io non ho voglia di immischiarmi, sono in vacanza e tanto se è morto, è già morto, mi ero detta. Io cosa posso farci. Morto, è già morto. Eppure, a distanza di quindici anni, mi chiedo ancora se…

Foto di Dmitriy da Pixabay

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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