I millecinquecento passi

di Max Mauro

Foto di Jorge Soto Farias

Millecinquecento passi separano il grattacielo nudo di Parque Central dai cento disegni di Pablo Picasso. Millecinquecento passi, un chilometro e centoquaranta metri. Li percorro con la mente sospesa, un po’ perché non sono sicuro di sapere dove sto andando, un po’ perché incredulo della semplice possibilità che poco distante dal grattacielo nudo, il rascacielo occupato, vi sia il più importante museo di arte contemporanea dell’America Latina.

È l’estate del 2006. Hugo Chavez è al potere da sette anni e io vivo a Caracas da quattro mesi.

Eccomi qua, arrivato nei Caraibi per cercare un uomo sparito, anzi volontariamente allontanatosi durante la mia tarda infanzia, la mia infanzia compromessa, inchiavardata nel dubbio, nell’assenza. Quindi eccomi qua, uomo di quasi mezz età, a cercare un uomo ormai vecchio, forse troppo vecchio per essere ancora vivo, e quindi morto. E mentre cerco, mi perdo. Forse era proprio quello che andavo cercando, non Artemio Jus, ma il perdermi. Facile perdersi, per l’uomo occidentale, il padrone del mondo, quello che ha deciso e decide. Io mi perdo. Bravo. Son tutti bravi a perdersi quelli come te. Per come è stato fatto il mondo qualcuno è libero di decidere, di perdersi o cercarsi, altri no, altri no.

Allora esploro la città. Conto i passi, un’illusione di tracciato; questa città è troppo grande per me. Le mie esplorazioni hanno vari punti di inizio e nessun punto di fine. Contando i passi mi illudo di raccogliere storie compiute.

Il grattacielo è alto, molto alto ai miei occhi. Sarà alto cinquanta piani. Ma a chi importa quanto è alto esattamente un edificio nudo? È nudo perché incompiuto.

Doveva essere la sede di un grande gruppo finanziario, uno dei più imponenti edifici di Caracas, l’ultimo nella serie dei monumenti alla modernità che hanno reso famosa questa città. Ma non è andata così. Il grattacielo nudo è la faccia insonne di una ricchezza impudente. Incuriosisce e inquieta, perché l’esposizione urbana di una vita nuda inquieta.

Anche la mia, è ovvio, è una vita nuda, me ne rendo conto. È già qualcosa. Sapere di essere nudi al mondo è già qualcosa.

Le sembianze del grattacielo nudo sono scheletri di metallo avvolti in brandelli di calce. Spuntoni di metallo si allungano arrugginiti verso il cielo. Una recinzione alta circonda il pianoterra dell’edificio nudo e non si vede un ingresso, ma certamente c’è, un modo per entrarci da qualche parte c’è. Non mi avvicino per verificare. Osservo come un passante non invadente. Un camminatore al margine.

Poco lontano dal grattacielo, lasciandosi alle spalle la fermata della metro Bellas Artes, vi sono delle bancarelle che vendono mercanzia varia. Ne affianco una e prendo in mano un CD copia e copertina sfocata in bianco e nero dell’ultimo album dei Red Hot Chili Peppers. Lo tengo in mano per non farmi vedere a guardare il grattacielo come farebbe un qualsiasi turista curioso. Alzo lo sguardo in alto, fino a dove può arrivare, e fisso il grattacielo nudo, scrutando l’umanità che lo abita.

Foto di Maria Rodriguez da Pixabay

Fino al decimo piano gli abitanti possono salire in motocicletta (son tutti parcheggi), poi ci sono solo le scale. La figura di un bambino sale le scale tra il dodicesimo e il tredicesimo piano, o forse è tra il tredicesimo e il quattordicesimo, difficile saperlo con certezza. Le scale non hanno pareti, solo scale, scale nude di cemento che lasciano vedere tutto come in un teatro all’aperto, un teatro della vita nuda. Forse il bambino è così abituato a salirle che non gli fa alcun effetto. Per lui è normale come è normale entrare a casa sua.

I bambini sono imprevedibili. Troppo grande l’eccitazione per le scale di cemento nude ed esposte al cielo, alla città, al parco che non c’è ma che del parco porta il nome. Le scale si percorrono a balzi, e sempre di corsa, altrimenti che scale sono? Che ne sa un bambino che forse non ha ancora imparato ad avere paura del vuoto, del volo, della corrente, della gente. Che ne sa quel bambino. Percorre a balzi le scale nude del grattacielo nudo. Ecco l’angolo al piano dodici, quello dove l’atterraggio è più facile perché qualcuno ha lasciato un pezzo di divano, come ci è arrivato qui un divano chi lo sa. Salta sul pezzo di divano e di lì un altro salto verso il pianerottolo. Che bisogno c’è degli scalini se c’è il pezzo di divano o una valigia o uno sgabello o un copertone di motocicletta?

Ma ecco che la polvere bagnata della notte, perché nelle scale nude di un palazzo nudo la polvere si deposita e si lascia bagnare dalla pioggia, non offre un saldo atterraggio alle gambe del bambino che non ha idea della paura. Quel bambino scivola, come è possibile scivolare sulla polvere bagnata delle scale di cemento nude. Un volo di molti piani, molti metri che non si possono contare. Una piccola vita così scompare nello spazio dei piani, velocissima, tutti i piani fino a terra, così veloce che l’occhio non la può nemmeno seguire.

Ma il bambino non cade, non vola, è solo l’immaginazione del camminatore al margine. La mia intima paura del vuoto. Il bambino scompare dietro una parete nuda, dentro una stanza visibile, ma da un’altra angolatura.

Quanta gente vive nel grattacielo nudo? Forse qualche decina, forse qualche centinaio. Quelli che vivono dentro il grattacielo nudo di Parque Central sono dei privilegiati tra gli sfortunati. Nella città ci sono molti anfratti dove qualcuno cerca ricetto ma solo qui si può credere di abitare uno spazio nuovo, così vergine e nuovo da non essere nemmeno completato.

La città è rumorosa, è imprevedibile, è pericolosa, ma tutti sentono il destino di andarci. Anche io, anche io, ma questa non è la mia storia, mi faccio da parte. Lontano dalla città la vita sembra sfuggire di mano. Ma in questa città c’è dell’altro. Il denaro dell’oro nero arriva qui, e qui si ferma, nelle mani di pochi. Così è stato per tanti, troppi anni, e l’uomo di provincia, Hugo Chavez, ha promesso di invertire la rotta. Il grattacielo nudo ospita le vite di esseri umani che resistono perché sperano, e sperano resistendo. Nel corpo dell’uomo di provincia vedono una speranza che non deve più chiedere permesso.

I millecinquecento passi che separano il grattacielo nudo dai disegni di Picasso sono una linea di fuga. È una questione di immaginazione, direbbe Picasso (forse).

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davide orecchio
davide orecchio
Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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