Ah, non parlatemi della Duncan!…

 



 

F. Chopin, Berceuse in D flat major, Op.57, Andante

 

 

di Anna Tellini
 
Seduto nel secondo palco di prima fila della soffocante sala del teatro Malyj di San Pietroburgo, Rozanov [1] assiste a un’esibizione di Isadora, impegnata in una delle sue numerose tournée in Russia, e anche senza binocolo può vedere distintamente tutti i dettagli:
 

La sala era piena: e non nego che tra coloro che si recavano per la prima volta a vedere la Duncan, tra coloro cioè che non l’avevano vista affatto e non avevano neanche idea di quel che facesse, ci fosse questo motivo di vedere sulla scena una donna seminuda. Nell’enorme folla che si agitava alla cassa, che per lo più aveva ricevuto un rifiuto per mancanza di biglietti, c’erano molte persone incolte, rozzotte e superficiali alquanto. Ma, lo ripeto, era la folla della strada, che si agitava davanti al teatro e in teatro non era entrata. E’ la “nostra folla”, la “folla russa”, Duncan o non Duncan. Dato che i miei ragionamenti che seguono saranno condotti dal punto di vista della storia della cultura, bisogna sottolineare con forza il fatto che “dare una sbirciatina a una donna nuda” è proprio il nostro impeto, l’impeto di Pietroburgo, di Mosca, della Russia, forse perfino dell’Europa […].

 

 

Non c’è in Russia letterato, uomo d’arte o di palcoscenico che non scriva della Duncan, ma ora a farlo è questo “plebeo” – definizione di cui Rozanov si inorgogliva -, e lo farà, avverte, dal suo punto di vista, espresso in numerosi scritti sul sesso e su quelle parti della cultura umana che sono legate al sesso. Come in un romanzo di formazione, Rozanov è approdato nella capitale dalla provincia, la stessa dove imperversavano quegli Iuduška [2] e quei Peredonov [3] cui peraltro fu accostato e dove, come quest’ultimo, aveva condotto una grama carriera di insegnante, detestato dagli allievi che lo gratificavano del titolo di “Carogna”. Il suo stesso aspetto, ricorda Prišvin, respingeva: “… la faccia era uniformemente rosea, con ciocche rossicce sporgenti in direzioni diverse, i denti assolutamente neri e schizzava saliva lontano, un piede sempre dietro l’altro, e la punta di quello inferiore tremava sempre, e sotto tremava la cattedra, e sotto la cattedra tremava la tavola del pavimento…”. Ma una volta Prišvin portò in classe una carta del continente asiatico, e l’odiata Carogna si trasfigurò e prese il volo a raccontare i segreti dell’Asia, antica culla del genere umano, e lo affascinò… [4]
 

La sala era tranquilla; giovani e anziani, metà uomini e metà donne. Ma non si vedevano affatto quei vecchietti decrepiti con la pancetta e il labbro inferiore penzoloni, che incontri agli spettacoli con l’atteso “denudamento”. Di binocoli e in genere di brama per ciò che ci si aspettava, questa “mia brama nascosta”, non se ne sentiva e non ce n’era in sala. Ci sono stato due volte di seguito; in una, quasi tutta la prima fila di poltrone, direttamente di faccia al palcoscenico, era chissà perché occupata quasi esclusivamente da donne un tantino di mezza età, tranquille, colte, non in ghingheri. C’erano un po’ di giovani militari, un po’ di studenti; c’erano madri con figlie adolescenti, e in generale studenti adolescenti, evidentemente portati dai genitori. In seconda fila ho visto la bella figura del signor Stanislavskij, e quando ho chiesto mi hanno detto che aveva assistito a tutte le esibizioni della signora Duncan, senza perderne neanche una. Mi pare che ciò abbia un grande valore: il fondatore del Teatro d’Arte sapeva di sicuro a cosa avrebbe assistito: certo, è uomo di idee e di alta valutazione del gusto.

 
E dunque nella stessa sala dove siede Stanislavskij siede il nostro piccolo uomo, della genia degli impiegatucci di cui pullulano i classici russi, di coloro che sopravvivono nel sottosuolo dell’offesa, dell’invidia, della collera, e per dichiarare in qualche modo la propria esistenza egli si è trascinato fuori dal proprio nascondiglio e, come tutto il materiale umano di cattiva qualità, come certi eroi di Dostoevskij a lui così vicini, ha fatto il buffone, lo svergognato, lo jurodivyj – folle, sì, ma anche profeta -, e talvolta si è consentito azioni seducenti, e altre è diventato un poeta sognatore, solitario, anche qui eroe di Dostoevskij, non più dei Karamazov ma delle Notti bianche. Per dirla con la Gippius [5] Rozanov stava non in mezzo, ma accanto agli uomini, più “epifania” che “uomo”, e come il diavolo di Ivan Karamazov cercò costantemente di uscire dalla sua solitudine e di incarnarsi – nella vita, nel mondo. Per tutta la vita sentendosi estraneo a tutti, straniero dappertutto. Arrivando a sentirsi “embrione”, declinando “il nido, il seno materno, il grembo, l’uovo, il calore, l’umidità” [6], in un sogno ininterrotto di fecondazione universale, di carezzevolezza verso il mondo, e dunque in sostanziale lontananza da tutto quel che è duro, tutte le forme, tutte le autorità, tutti i convincimenti tetragoni.
 

Ed ecco fa la sua apparizione la Duncan.[…] si mostra di lato e proprio in fondo alla scena, e per molto si muove lungo la sua parete posteriore, accanto al panno appeso, distaccandosene appena. Un che di riservato e gentile, che non vi esplode negli occhi, che non si affretta a balzar fuori. Nel frattempo, la musica continua; ed ecco – il punto dato, il tempo dato, da cui tutto “ha inizio”, e Isadora Duncan comincia.[…] Ed ecco avanza la Duncan a piedi scalzi. Non è bella: anche se nei ritratti il suo volto lo è, è “classico”, dal vivo si tratta di una tipica, intelligente, colta donna inglese, americana, – sangue sassone, da cui come potrebbero spuntar fuori dei tratti classici?! No, un volto ordinario di costituzione tedesca, privo di qualunque linea classica. I capelli stanno bene, con questa semplicità greca e questa bellezza greca. Quando sono sciolti a metà, anche allora stanno bene; ma è una semplice ripetizione di una statua e dei disegni sui vasi e sulle monete. I piedi in effetti sono scalzi, e il chitone semitrasparente color grigio o giallo pallido, o meglio grigio sporco o cinerino, permette di vedere le gambe fino al ginocchio, anche quando lei è immobile. Sono gambe nodose, magre, forti, dalla pelle brutta, non pulita e niente affatto bianca. […] Anche il volto è non bello, ma le gambe sono proprio brutte: gambe europee, tedesche, che, ecco, si guadagnano il pane con l’arte antica. Il petto… La Duncan indossa il ben noto chitone di “Artemide a caccia”, cioè una camicia quasi maschile, stretta da una piccola cintura, fino alle ginocchia, che sopra la cintola si biforca in una metà destra e una sinistra, che coprono i fianchi e parte del petto e della schiena, ma in modo che due enormi scollature a triangolo lasciano un terzo della schiena e un terzo del petto assolutamente denudati. Il chitone poi è molto leggero, di batista o di qualcosa del genere; ma dato che verso la cintola è raccolto in pieghe, fatto di pieghe, ne consegue in generale che sotto la vita e fino alla parte superiore delle cosce (ma solo fin lì) tutto è nascosto e non trasparente. Ma nascosto e assolutamente non visibile è solo per l’appunto il torso, cioè tutta la parte addominale e pelvica della figura.

 
E così via dissezionando – la Duncan non ha un seno florido e bello -, Rozanov dà la stura a quel cicaleccio, a quella verbosità sfacciata che porterà la Gippius a definire la sua scrittura una “funzione fisiologica”. Questo piccolo uomo aveva compiuto il tentativo eroico di uscire dalla letteratura, per di più scoprendo a poco a poco che anche nel sottosuolo si può bere il tè con gusto…
 

Il vestito stava su di lei quasi come gettato su una sedia, immobile, senza richiamare su di sé la minima attenzione. Ella non lo sentiva, e psicologicamente era come se su di lei non ci fosse affatto una veste: lei non aveva con essa nessun rapporto, né positivo né negativo.[…]
Ed ecco si leva il sole, l’antico ήλιος (una lampada nell’angolo anteriore della scena, drappeggiata, di modo che si vedano solo i raggi di luce che si diffondono)… Ciò la trasporta in un’estasi tale, che ella inizia a saltare incontro ai raggi, come cercando di catturarli con le mani e alzando di scatto in alto i piedi, come se con essi volesse afferrare un raggio nel suo proprio essere. “Io ti amo, Sole, e inghiotto i raggi tuoi – fonte di vita in me”, pregavano le sue danze, sia fisiologiche, sia confusamente spirituali, indistinte, istintive. Ma si capiva la credenza degli antichi, che veniva già dai caldei, che “un giorno una fanciulla sarà incinta del Sole”. […] Le piccole sezioni del chitone della Duncan svolazzavano, ella per l’appunto pareva prendere i raggi con i piedi, incurvandoli appena appena nel movimento, e li lanciava molto in alto, quasi più in alto del ventre. Tutto si è fatto rozzo, forte, con un’energia tremenda, e le cosce, molto belle, si denudavano in tutta la loro pienezza […] Ma non c’era niente di “intenzionale”, tutto era in rapporto al Sole… E questi balli di una donna, anche senza cipria e senza calzamaglia, grazie all’assenza di premeditazione restarono così innocenti e puliti, anche se al contempo erano fisiologici, come resta innocente il bagno solitario di una fanciulla e in genere è innocente tutta la fisiologia senza spettatori. “Così è stato, così bisogna”.[…]
Nella danza della Duncan è del tutto assente il nostro “pas”, questo “pas” che tutto inghiotte; alla musica e al suo ritmo obbediscono non i piedi della Duncan, ma tutta la Duncan, questa fanciulla danzante; e più di tutto segue la musica il suo sensibile tronco musicale, la linea dalla cintola al sincipite. Ecco cosa danza: le spalle, il petto, il collo – moltissimo il collo -, e la testa, nelle sue leggere inclinazioni e nei rovesciamenti. Danza lo spirito dell’uomo, l’antica “psychè” dell’Ellade.[…] Danza la natura, prima della caduta, la natura primordiale.

 
Tipico rappresentante di un’epoca di vigilia, in questo scritto del 1909, segnato da un conformismo teso a spacciarsi per posizione avanzata, per spregiudicatezza, da un argomentare disarmante, di chincaglieria, dal feticismo dei dettagli, Rozanov – le cui parole solitamente strologano, bisbigliano, accarezzano -, sembra offrire solidi appigli a chi, come Berdjaev, volle definirlo “mistica donnetta russa”. Sproloquiante e pettegola.
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo il critico Čukovskij individua il pathos dell’anima a lui contemporanea nella nausea universale, nel sentirsi perduti, nel terrore della vita e nella voglia di nirvana. Tra le risposte possibili ci fu la Verbickaja, campionessa dell’estetica da boudoir, vincitrice del mercato librario russo di inizio secolo con l’interminabile Chiavi della felicità. Rabbia, follia, terrore, tremiti, e i personaggi ardono e si accendono, e le narici vibrano. L’animo dell’eroina è un abisso, un mistero. “Duncan” è una macchia timbrica per la sua scrittura di parole screditate. Il romanzo ha un inizio, ma potrebbe non avere una fine. La protagonista, Manja, “creatura riccamente dotata”, è il “simbolo vivente del ritmo musicale”, e danza, dimentica del pubblico, con solo una tunica e dei sandali, verso il suo sogno lontano:
 
Ah, non parlatemi della Duncan! Non ce la faccio a ricordare i suoi talloni sporchi! [7]

 

 
NOTE
 
1. “Pensatore arrogante e sboccato, studioso di teologia e antichi culti, polemista protervo, esperto di numismatica, sessuologo, critico d’arte e di letteratura, gazzettiere loquace, magnifico voltagabbana e stolto di Dio, della progenie di quei disperati per cui, come per l’Uomo del Sottosuolo, due più due non fa quattro ma cinque”. Angelo Maria Ripellino, Ròzanov: ricognizione del suo sottosuolo, in Vasìlij Ròzanov, Foglie cadute, a cura di Alberto Pescetto, Milano 1976, p. 416. In italiano di Rozanov si vedano anche Da motivi orientali, a cura di Alberto Pescetto, intr. di Jacques Michaut, Milano 1988; La leggenda del Grande Inquisitore, a cura di Nadia Caprioglio, intr. di Vittorio Strada, Genova 1989; L’apocalisse del nostro tempo, a cura di Alberto Pescetto, intr. di Jacques Michaut, Milano 1979; Note di viaggio, a cura di Caterina Maria Fiannacca, Latina 1997. Il testo che qui traduciamo parzialmente è Tancy nevinnosti (Le danze dell’innocenza), in Sredi chudožnikov (Tra gli artisti), S.-Peterburg 1914, rispettivamente pp. 242, 243, 244, 248-249, 251-252, 253-254. [»]
2. Protagonista del romanzo I signori Golovlëv di Saltykov-Ščedrin, Iuduška è “il vuoto e meccanico ipocrita che non smette mai di dire menzogne untuose e insensate, non per un qualche bisogno intimo o profitto esterno, ma perché la sua lingua abbisogna di costante esercizio”. D. S. Mirskij, Storia della letteratura russa, Milano 1965, p. 300. [»]
3. “Fra tutta quella pena nelle strade e nelle case, sotto quell’alienazione che veniva dal cielo, sulla terra impura e impotente camminava Peredònov e si struggeva in vaghe paure e per lui non c’era consolazione in ciò che è elevato, né conforto in ciò che è terrestre, perché anche ora, come sempre, egli guardava al mondo con occhi da morto, come un demone languente di terrore e d’angoscia in cupa solitudine”. Fëdor Sologub, Il demone meschino, Milano 1965, pp. 92-93. [»]
4. Citato in Jurij P. Ivask, intr. a Vasilij Ròzanov, Izbrannoe (Opere scelte), New York 1956, p. 17. Di alcuni spunti di questo saggio ho cercato qui di fare tesoro. [»]
5. Zinaìda N. Gippius (Hippius), Zadumčivyj strannik (Un pellegrino pensoso), in Živye lica (Ritratti dal vero), Tbilisi 1991, 2 vv., v. I, p. 88. [»]
6. Jacques Michaut, intr. A Vasilij Ròzanov, Da motivi orientali, cit., p. 30. [»]
7. Anastasija Verbickaja, Ključi sčast’ja (Le chiavi della felicità), Moskva 1909-1913, 6 vv., v. I, p. 217. [»]

 

[ animazione di woman who dances – una sequenza di scomposizione del movimento del fotografo inglese Eadweard Muybridge (Kingston upon Thames, 9 aprile 1830 – Kingston upon Thames, 8 maggio 1904) – e animazione stills from video di un raro filmato della Duncan in azione e pepli – altrettanto rare immagini si possono vedere qui – con Borsalino bianco e boa di struzzo – insieme al poeta Sergej Aleksandrovič Esenin – suo quinto marito – di 17 anni più giovane – che annegava nell’alcool e nella sistematica devastazione delle stanze d’hotel in cui soggiornavano il legittimo disappunto di essere considerato il marito della Duncan – il matrimonio finì prestissimo e tempestosamente – la Berceuse di Chopin e Chopin in genere fu probabilmente il sottofondo degli sfarfallamenti duncanici durante la famosa tournée russa – di usare Chopin le fu molto opportunamente consigliato da un critico inglese – ché nei primi spettacoli l’adorabile carampana albionica pare si servisse di musiche bruttissime e dozzinali ]

 

 

 

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13 Commenti

  1. lo dicevo appena un minuto fa, in un altro luogo d’etere. questo montaggio, questa mistura come si dice in matematica di quei processi che si incastrano (in qualche senso convoluto), mi commuove. e la bellezza che commuove è perigliosa assai perché risolve tutte le contraddizioni. anche quelle del povero rozanov “le cui parole solitamente strologano, bisbigliano, accarezzano”, anche quello del sibilante Berdjaev, che lo definisce “mistica donnetta russa. Sproloquiante e pettegola”, anzhe quello di Isadora che pare avesse i calcagni sporchi.

    Tellini tell me se davvero devo immaginarmi Rozanov Peredonov? eh?

  2. direi forse di no, se non per quel suo involversi in temi ossessivi, e talvolta francamente ignobili. E comunque Peredonov aveva un progetto “grandioso”…

  3. Se continua questo bellissimo passo, aspetterò un articolo di Anna sulla danza in Walt Disney, con animazione di Orsola, in cui elefantine in tutù, attraversato il monitor, vengono a danzare sulle nostre tastiere, per scrivere, naturalmente, un elogio di Anna e Orsola.

  4. chissà com’era la la natura, prima della caduta, la natura primordiale forse diversissima da ora forse non tanto, a parte dove abbiamo spazzato via ogni forma di vita animale e vegetale.
    @chi mi compiaccio molto che tu parli di etere e poi il tuo linguaggio è really matematico (quel “convoluto” non mi sfugge)
    Bellissimo comunque il tutto: non riesco però ad aprire il file musicale della Berceuse di Chopin. E’ firefox che mi tradisce?

  5. Alberto Savinio, nella sua fanciullezza, “non” ebbe modo di ammirare Isadora Duncan ad Atene.

    *

    Qual gioia per Nivasio Dolcemare se avesse potuto vedere i movimenti a biella del suo idolo, udire i suoni graniti che nascevano dalle sue dita come le bollicine d’aria dalla bocca di un pesce! Ma nell’ora in cui Lafont sonava e Isadora toccava con le nude piante la scena del Demòtiko, i bambini dormono, vigilati ciascuno dal suo angelo custode. E infatti l’angelo di Nivasio stava seduto al capezzale del fanciullo che dormiva, le ali ripiegate dietro la spalliera, e al chiariore del lumino notturno posato davanti alla riproduzione in tricomia della *Madonna del cardellino*, leggeva con manifesto diletto le *Avventure di Pinocchio* che aveva trovato nella libreria del suo piccolo protetto, illustrate dai disegni di Chiostri. Ma il sonno di Nivasio non era tranquillo. Cupi sogni lo traversavano, nei quali l’adorato Lafont, più lungo e scheletrico che mai, era minacciato da pericoli spaventosi. Nivasio voleva proteggerlo, salvarlo.

    Nivasio Dolcemare studiava pianoforte sotto la guida di Hermann Lafont, sassone di origine ugonotta e allievo del grande Reisenhauer. Virtuoso formidabile e uno dei maggiori velocisti della pianistica internazionale (serbava preziosamente ritagliata la recensione in cui Edmond Rurisch, della *Musikalische Zeitung*, lo soprannominava *Die Lokomotive der Klavier*, “la locomotiva del pianoforte”).

    Per dare vita ai *divini esemplari*, Isadora pensò di unirsi, lei così bella di forme, con uomini *d’eccezione*.

    L’eugenesi tentata […] con la collaborazione di Hermann Lafont, non sortì l’effetto desiderato. Si vede che su altre tastiere, la *locomotiva del pianoforte* era un semplice carretto. Di poi uguale proposta fece Isadora a Stanislawaki, ma costui, sebbene amasse Isadora quanto la luce dei propri occhi, la guardò stralunato come se di colpo si fosse trasformata nell’imagine della Morte, ed esclamò: “E Pòlia Trofìmovna? Che dirà Pòlia Trofìmovna?”. Conforta pensare che c’è ancora nel mondo qualcuno per il quale il dovere coniugale non è una vana parola. Invitato a partecipare alla concezione di una creatura che alle gambe di lei unisse il cervello di lui, Giorgio Bernardo Shaw rispose, come si sa: “E se dovesse unire al cervello di lei le gambe di lui?” Nel che il salace irlandese ancora una volta sbagliò, perché Isadora non che nei pregi fisici, ma superava Giorgio Bernardo anche nel senno. Anche Strindberg ricevè l’invito di Isadora […] ma Strindberg fu irremovibile. E Isadora commenta: “il pessimismo di Strindberg è da imputare alle donne da lui amate. Le donne si dividono in due speci: ispiratrici e vampiri. Strindberg non amò che donne vampiri.”
    Lo stesso invito toccò a Ernesto Haeckel, l’ultimo dei grandi darviniani, autore della monografia dei radiolari e dell’*Antropogenie oder Entwickelungseschichte des Menschen*, ed Ernesto Haekel accettò. L’incontro avenne a Bayreuth.

    ALBERTO SAVINIO, Isadora Duncan, in “Narrate, uomini, la vostra storia”, Bompiani 1977, pagg. 247-324.

  6. sparz!!! ma quanto e’ (ah!!! la tastiera senza accenti senza abilitazione ascii) bella la convoluzione? la matematica riesce pure a essere sensuale.
    quanto all’etere mi permetto di pronunciarlo, nonostante te… lo so, dovrei tacermi. :-)

  7. grande, post, molto colto, anche se a mio modestissimo avviso un po’ polveroso, un po’ tè dai guermantes (per carità, roba da ricchi). però su questa nazione indiana tanto galateo e sachertorte mi piacerebbe si parlasse anche di un’altra danzatrice: elisabetta virgili, che divenne celebre nel 1979 col suo “ballo del gancio”. a me attizzava più della duncan, forse perchè la duncan attizzava il mio bisnonno in germania (ad ognuno i suoi attizzatoi), e io essendo un popolano della kultur ho una weltanschaung molto ARD NDR ZDF… o RAI, appunto.

    ecco, un post su elisabetta virgili sarebbe d’uopo. nazione indiana abbisogna anche del nulla.

  8. … e abbisogna anche di guardare il fondo, a parte gli inermi di colore che prendono le botte dai fascisti.

    il fondo inutile che ci racchiude, volenti o nolenti. la duncan, se mi consentite, è un fondo di fossa.

  9. Caro Sparz questo “danza la natura, prima della caduta, la natura primordiale“, dai “balabiott” (quelli che ballano nudi) di Gurdjieff ad Ascona (cosi detti dai valliggiani che spiavano le loro danze primordiali nascosti dietro gli abeti) percorre l’Europa nella prima parte del secolo scorso e quel che appare ingenuo e un po’ invasato, liberando il corpo dalle ossessioni pruriginose vittoriane e la danza da scarpe da punta e stilemi accademici, arriva fino a noi nella Modern Dance, da Martha Graham a Pina Bausch fino all’ultima ballerina di fila della più scalcinata rivista.
    Isadora resta viva in questa catena di sopravvivenza dell’arte attraverso le generazioni. Una specie di memoria incarnata.
    Non a tutti gli artisti riesce, ovviamente.
    Per Isadora fu mito anche la morte: provando una Bugatti finì strangolata dalla sua sciarpa che si intrigò nella ruota:

    Sylvia Plath
    da Fever 103°

    Love, love, the low smokes roll
    From me like Isadora’s scarves, I’m in a fright

    One scarf will catch and anchor in the wheel.

    Amore, amore, i bassi fumi si srotolano
    da me come le sciarpe di Isadora, ho paura

    che une sciarpa mi accalappi e mi ancori alla ruota.

    Ad Anna, che ringrazio per il suo prezioso articolo, questa divertente citazione da uno dei miei romanzi preferiti

    “«Chiedo scusa», lo interruppe Schwonder. «Siamo venuti a parlarle proprio della sala da pranzo e dell’ambulatorio. L’Assemblea Generale la prega di rinunciare alla sala da pranzo: spontaneamente, per disciplina proletaria. A Mosca nessuno ha la sala da pranzo.»
    «Neanche Isadora Duncan», gridò la donna con voce squillante.
    Filìpp Filìppovič subì una leggera trasformazione. Divenne paonazzo e rimase in attesa del seguito senza emettere un suono.
    «E per quanto riguarda l’ambulatorio», continuava Schwonder, «lei può benissimo mettere ambulatorio e studio nella stessa stanza.»
    «Uhm,» fece Filìpp Filìppovič con una voce strana, «e dove dovrei consumare i pasti?»
    «In camera da letto», risposero tutti e quattro in coro.
    Il colorito paonazzo di Filìpp Filìppovič prese una sfumatura un po’ grigiastra.
    «Consumare i pasti in camera da letto», cominciò con voce leggermente strozzata, «leggere in ambulatorio, vestirsi in sala d’aspetto, operare nella camera della servitù e visitare in sala da pranzo. È possibilissimo che Isadora Duncan faccia proprio così. Può darsi che pranzi nello studio e vivisezioni i conigli in bagno. Può benissimo darsi. Ma io non sono Isadora Duncan!…»”

    Michail Bulgakov Cuore di cane

    Grazie a tutti.

    ,\\’

  10. Bellissimo e godibilissimo post. Aggiungo che se ha un senso parlare d’arte oggi, lo si deve agli “avanzi di fossa” dei primi decenni del Novecento. Aspettiamo con ansia un articolo sul Tuca Tuca.

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orsola puecherhttps://www.nazioneindiana.com/author/orsola-puecher/
,\\' Nasce [ in un giorno di rose e bandiere ] Scrive. [ con molta calma ] Nulla ha maggior fascino dei documenti antichi sepolti per centinaia d’anni negli archivi. Nella corrispondenza epistolare, negli scritti vergati tanto tempo addietro, forse, sono le sole voci che da evi lontani possono tornare a farsi vive, a parlare, più di ogni altra cosa, più di ogni racconto. Perché ciò ch’era in loro, la sostanza segreta e cristallina dell’umano è anche e ancora profondamente sepolta in noi nell’oggi. E nulla più della verità agogna alla finzione dell’immaginazione, all’intuizione, che ne estragga frammenti di visioni. Il pensiero cammina a ritroso lungo le parole scritte nel momento in cui i fatti avvenivano, accendendosi di supposizioni, di scene probabilmente accadute. Le immagini traboccano di suggestioni sempre diverse, di particolari inquieti che accendono percorsi non lineari, come se nel passato ci fossero scordati sprazzi di futuro anteriore ancora da decodificare, ansiosi di essere narrati. Cosa avrà provato… che cosa avrà detto… avrà sofferto… pensato. Si affollano fatti ancora in cerca di un palcoscenico, di dialoghi, luoghi e personaggi che tornano in rilievo dalla carta muta, miracolosamente, per piccoli indizi e molliche di Pollicino nel bosco.
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