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La selezione muta delle forme

di Matteo Camerini

 

«Una conchiglia sta per un orecchio: è una Metafora. Un ammasso di pesci sta per l’Acqua (dove vivono): è una Metonimia. Il Fuoco diventa una testa fiammeggiante: è un’Allegoria. Enumerare frutti, pesche, pere, ciliegie, fragole, spighe per lasciare intendere l’Estate: è un’Allusione. […]»

Roland Barthes, Arcimboldo ou Rhétoriqueur et magicien

 

 

Il feto affiorò dalla terra umida alle radici dell’albero; era la fine di febbraio. La scorza scura del mandorlo, come roccia annerita dal fuoco, faceva da contrasto ai fiori rosacei che annunciavano la loro esatta e inesistente stagione. Il vento taceva sul terriccio impregnato di pioggia che smaltiva al vertice opposto del sole la sua sbornia di acqua. Tutt’intorno mille occhi guardavano ed erano visti.

 

In latino libero e libro si dicono con lo stesso nome e con lo stesso suono: liber, la scorza interna dell’albero, la sua intima pelle, la sua parte più nuova. Il giovane non sta in superficie, ma vi nasce all’interno. Ciò vi è fuori è più antico. Il margine è il nuovo che invecchia, il solido condensa dell’aria. La libertà essere sciolti, non sotto-porsi nel fuori, nascere dentro. Essere un libro lo scrivere.

 

Il feto era rannicchiato su se stesso come un crostaceo dall’addome molle e ricurvo. I suoi occhi invisibili ancora incapaci nel dire la luce. Aveva le dimensioni di un pugno. Scavando gentili tracce sulla terra, passeggiò sino ai piedi del mandorlo. Rimase lì per qualche minima frazione di eterno, poi, tutt’a un tratto, vi posò le zampette rugose.

 

Secondo il filosofo Bento d’Epinoza, finché una cosa è considerata solo in se stessa, senza alcun rapporto ad altro, essa non contiene in sé il proprio limite. Si afferma e non si nega. La sua essenza, cioè, non ha fine. Nulla res nisi a causa externa potest destrui. Nessuna cosa è un confine. Il limite viene da altrove.

 

Il feto cominciò ad arrampicarsi sulla corteccia coi suoi piedi di calcare. Facendo presa con le dita fragili sugli incavi di spugna solida dell’albero, ne percorse la lunghezza verticale. Sulle alabarde sottili lame che dirupavano dalla centralità del tronco, altri feti stavano in vertigine. Alcuni brucavano il nettare-latte spumoso dal ventre di fiori biancastri e immaturi. Altri ancora dormivano, sogni di volo. Il feto arrivò sul suo ramo. Lì dove vi era un suo simile, curvo, ad attenderlo.

 

Corteccia.

/cor·téc·cia/

 

  1. Parte periferica del fusto e della radice delle piante, distinta in c. primaria e secondaria: la prima costituita dai tessuti che stanno fra l’epidermide e l’endodermide, la seconda dai tessuti (cribro, parenchima, ecc.) originati dal cambio verso l’esterno dell’organo. 2. In anatomia: corteccia cerebrale, la sostanza grigia che forma lo strato superficiale degli emisferi cerebrali, costituita essenzialmente da cellule nervose.

 

Il feto tirò fuori il pungiglione dal coccige. Il sottile arnese metallico seguì la curva della sua spina dorsale. Superò l’arco della testa inclinando, poi, la punta verso il secondo feto, che lo fronteggiava di spalle. Agli occhi che guardavano sembrò che stesse per attaccare quel mostro delicato, suo simile, suo amico. La schiena indifesa del feto era pronta ad accogliere il morso. La sua schiena era liscia come la pelle di un bambino.

 

Teratogeno (dal greco terato-genesis, “generazione di mostri”): sostanza che provoca teratogenesi, ossia malformazioni del feto nel grembo materno. Esempi di teratogenesi sono, per elencarne alcuni, focomelia (malformazione degli arti), labbro leporino, palatoschisi (fenditura nel palato), iperdattilia (soprannumero delle dita), spina bifida (malformazione della spina dorsale), ectromelia (assenza di uno o più arti), etc. In botanica, la teratologia indaga le implicazioni teoriche di campioni anormali. Ad esempio, la scoperta di fiori anomali: fiori con foglie al posto dei petali.

 

Il feto posò il pungiglione sulla pelle del secondo con un gesto soffice. Come un pelo che si posa a terra. Cominciò a praticare piccoli fori sulla superficie della schiena, tesa come una vela gonfia. Gli incise sulla pelle segni che sembravano lettere. Lo tatuò di punti. Le scrisse sulla pelle merhaq.

 

Ai primi di maggio del 1704, nella sua lettera a Lady Masham, il matematico e filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz affermò che la sua intera opera potesse essere riassunta con due massime tratte dal teatro italiano, in particolare del Tasso: Tutto è come qui e Per variar natura è bella. Nonostante le due massime potessero sembrare contraddittorie – tutto è ovunque identico; la bellezza proviene dalla varietà di forme – il pensatore di Lipsia sostenne che proprio in questa apparente opposizione risiedesse l’«armonia prestabilita», la perfezione dell’atto divino.

 

Il feto terminò il suo attento gioco. Alla fine del processo, l’intervistatore giunse a porre le sue questioni al feto. I mille occhi volevano sapere. Com’era dunque possibile tutto ciò? Dove nasceva quell’arte, quel gesto, quella così precisa sicurezza? Dove aveva appreso, il feto, a fare quelle cose? Su quali studi e quali scuole di pensiero si basava quella muta selezione delle forme? Il feto tacque. Poi parlò e disse. «Legge semicaspica del nulla, secco grillo da yerare/ Rela kati un susseguivi che rigàsa: punto giàvi, giàvi, giàvi. / Omnia la scommessa è di-scrizione / Sopruso a spoglia brama di vagare / L’attesa non è più rovistacose / Ora ci si stringe come palmi sotterrati».

 

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1 commento

  1. Questo bellissimo brano mi ricorda uno dei racconti più belli che abbia mai letto, “La spirale”, di Italo Calvino, nelle Cosmicomiche. La storia di un batterio che si spinge verso la Vita. Grazie.

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