Rosa

di Laura Ramieri

Prima di questa storia, nessuno sapeva perché il Signor Rosa amasse quel colore. In tutte le sue sfumature, dal brillante al pastello, ma solo, rosa.

Il Signor Rosa, il cui vero cognome era proprio Rosa, era alto e sottile, più simile a un lampione che a un uomo, aveva i capelli scompigliati, nei toni di un pomeriggio bruciato, e i baffi: folti, pettinati con le punte all’insù, rosa. Splendidamente, perennemente, rosa.

Il Signor Rosa lavorava al Luna Park della città, un piccolo spazio fisso fatto di dolciumi invitanti, cartomanti in lustrini, giostrine luccicanti, pupazzi simpatici. Di giorno era frequentato da bambini golosi, ragazzini curiosi, addetti ai lavori indaffarati, e un pizzico di quel senso di abbandono caratteristico di un luogo di divertimento quando c’è troppa luce. La sera, si animava magicamente delle più strane creature. Persone sfortunate, animali perduti, e tutti quelli segnati da difetti inaccettabili alla perfezione del giorno: cicatrici spaventose, deformità tremende, arti mancanti, cecità crudeli, sorti maledette. Ma a cosa serviva, nascondersi, se le persone del giorno, chiamiamole così, non si accorgevano di quelle della notte, chiamiamole così?

Il Signor Rosa abitava entrambi i mondi, quello del giorno, e quello della notte, e non provava assolutamente nulla.

Il signor Rosa aveva ipnotici occhi azzurro piscina, e indossava sempre al polso destro un braccialetto di perline nere lucide, che sfavillavano enfatizzando ogni suo movimento, e che nascondevano una scritta tatuata all’interno dell’avambraccio, una scritta nera, appena percettibile, in una bella grafia dal tocco infantile: Rosa.

Dettagli del Signor Rosa che venivano notati, ammirati come fantasticherie, e poi, dimenticati insieme alle sue magie. Di giorno, gli sguardi che si rivolgevano a lui somigliavano a scherzi cattivi. Di notte, la sua figura diventava incanto: l’infinita altezza, gli intriganti baffi rosa, i capelli scintillanti come fiamme. Un sogno a occhi spalancati. Tutte le notti il sorriso del Signor Rosa illuminava di meraviglia l’intero Luna Park, e la sua fila lunghissima si snodava paziente ed emozionata: il Signor Rosa era il proprietario del banco dello zucchero filato, lo zucchero filato più buono del mondo, si sussurrava, dal tramonto all’alba. Uno zucchero filato che da lontano, dall’ingresso del Luna Park, riconoscevi come la più stupefacente delle visioni: formava una nuvola quasi trasparente che galleggiava poetica in aria, fino a disperdersi, lenta, in piccoli soffi. E poi ricominciava. Uno spettacolo da togliere il respiro, e il profumo, dolce, dolcissimo, ma dolce come una cosa squisita a cui ti devi avvicinare, che devi vedere, toccare, insomma quella sensazione lì, irresistibile. Tutti, si mettevano in fila. Ammaliati dalle nuvole danzanti, innamorati del profumo delizioso, prendevano il loro posto come piccoli giocattoli, in ordine, con cura, e così ciascun abitante della notte, seppur nella sua tragedia, pareva illuminato. Il magnifico carosello della sciagura, improvvisamente sorridente e felice, aspettava il momento di trovarsi di fronte al Signor Rosa, ammirarlo girare lo zucchero filato, e ricevere infine il suo tanto bramato sguardo, uno per ciascuno di loro, uno sguardo che regalava amore e perdono. Li stregava con fascino e compassione e tutti, davanti a lui, restavano in silenzio, osservavano la procedura che il Signor Rosa compiva meticolosamente, con gesti precisi, e poi, nel momento di porgere quel bastoncino di meraviglia, li guardava in faccia: tutti, tutti, tutti, si sentivano graziati, di più, benedetti. Senza vergogna. Il Signor Rosa era uno specchio che mostrava bellezza, e i più disperati si rivolgevano a lui desiderosi di comprensione, di conforto. Il Signor Rosa non giudicava, e guardava tutti con lo stesso identico, incontenibile, amore. Questo, accadeva solo la notte. Il Signor Rosa aveva un unico gusto di zucchero filato, e ovviamente, era rosa.

 

Il Signor Rosa non provava nulla, abbiamo detto. Come il più perfetto dei personaggi svolgeva un ruolo, non provava rammarico per le persone del giorno, e non provava affetto per le persone della notte, che pure sì, benediva, ma senza quell’amore spettacolare che pareva sprigionare dall’esterno. Il Signor Rosa non provava nessun sentimento. Il suo volto aveva due versioni, il giorno, e la notte, e finiva lì, come se non esistesse, fuori dal Luna Park. Le persone del giorno non avrebbero saputo dire di averlo visto in qualche altro luogo. Le persone della notte non si vedevano, di giorno, e forse vivevano solo al Luna Park, così che anche loro, il suo più fedele pubblico, non sapeva dire di averlo mai visto fuori dalla sua stessa magia.

Perché il Signor Rosa, che aveva una vita all’apparenza gratificante, di più, un uomo ammirato, non provava alcun sentimento? Qualcuno sapeva cosa significasse la scritta sul suo avambraccio?

 

Capitò che era Novembre, la notte nelle luci del piccolo Luna Park somigliava a un sogno fatato, tutto nebbia e brillii. Capitò nella fila senza movimento, senza accorgimento, come un’apparizione: occhiali dalla montatura rosa polvere, papillon rosa confetto, giacca rosa lecca-lecca, pantalone rosa bonbon, stivaletto rosa fucsia. Accanto a lui, un piccolo cane dallo sguardo triste. Il cane era tutto bianco, con una coda vaporosa tutta nera, e una macchia, anch’essa nera, attorno all’occhio destro. Il suo guinzaglio era colore rosa bambola. L’uomo rosa camminava a passi lenti, e il cane teneva la testa alta; i due personaggi seguirono la fila senza un respiro. Pur essendo adatti al contesto, stonavano terribilmente. L’uomo rosa era pallido, aveva gli occhi socchiusi come sottili fessure, e le rughe del suo viso si increspavano in infiniti disegni. Non parlò al cane. Forse qualcuno li guardò, meravigliandosi dell’abbondare di rosa, ma in quella fila erano nel posto giusto, e nessuno rivolse loro gesto, né salutò il cane: in quel bel colore sembravano nascondere qualcosa capace di allontanare anche le persone della notte. Qualcosa che non aveva nulla, di dolce, amorevole, rosa: qualcosa di freddo, di ingiusto. Qualcosa di orrendo.

L’uomo rosa e il cane bianco e nero raggiunsero il loro turno, e arrivarono davanti al Signor Rosa: ecco il momento. Il Signor Rosa divenne cereo, e si immobilizzò. Restarono a guardarsi, l’uomo rosa, il cane bianco e nero, e il Signor Rosa, rigidi come in un malvagio incantesimo. La lunga fila se ne accorse, ma rimase zitta, incapace di descrivere la scena, o di dire una parola. E poi, il cane abbaiò. Una volta, un verso delicato come un commosso saluto, da far battere lieto il cuore. Nell’improvvisamente silenzioso Luna Park una lacrima, dal rumore spettrale, agghiacciante, scese sulla guancia del Signor Rosa, perdendosi nei suoi bellissimi baffi rosa.

 

Una piccola croce costruita da due rametti giace in un campo di erba verdissima, protetta dal respiro di alberi felici. Vicino alla croce, una rosa dai petali lisci, rosa, perfetta. Accanto alla croce e alla rosa, tante altri croci, e tanti altri fiori. Al tramonto il cielo diventa rosa, e la luce, rosa, sembra guardare tutte le croci, abbracciandole con amore.

«Sei davvero tu?»

«Non hai più saputo amare, dopo di me.»

« Non volevo lasciarti sola.»

«Ma io sono in quel posto bellissimo. Tutto rosa.»

«Volevo restare con te, in quel rosa. In quella pace.»

«Non potevi. E adesso non vivi in nessun luogo.»

«Non è lo stesso rosa. Ma ti somiglia, Rosa, guarda.»

«Mi sei mancato.»

«Sei venuta a prendermi?»

 

L’uomo rosa alzò un mano e fece schioccare le dita, senza espressione. Lo schiocco sembrò velare il Luna Park di un cupo dolore, come se la morte in persona si fosse messa in fila, e avesse toccato tutti con il suo male. E quello, fu.

Per un solo primo e unico istante Il Signor Rosa, quella notte di Novembre di nebbia e brillii, perse misteriosamente il controllo del suo zucchero filato. Che devoto, non smise di continuare a filarsi, fino a invadere il banchetto, a ricoprire il Signor Rosa, per poi spargersi nel Luna Park che diventò tutto, tutto, tutto, una gigantesca nuvola rosa, e come la più appiccicaticcia delle caramelle intrappolò cose e persone e del Luna Park, per molti giorni, rimase solo un effetto nebbia che nascondeva la vista, e che nessuno voleva attraversare. Ovviamente, era tutto rosa.

Le persone del giorno si spaventarono, e dissero di aspettare, dissero che si trattava di qualche stranezza dovuta alle piogge, che sarebbe passata. La nebbia rosa durò fino al primo giorno di inverno, durante la notte uno scoppio come di un fuoco d’artificio fece rabbrividire per lo spavento chiunque lo udì. Mille sfumature di rosa colorarono il cielo. L’esplosione si portò via tutto: i dolciumi invitanti, le cartomanti in lustrini, le giostrine luccicanti, i pupazzi simpatici. Si portò via l’intero Luna Park. Ma dove sorgeva una volta l’area, come una aggraziata ombra, rimase, tra le erbacce e la terra, una polvere appiccicosa che nessuno ebbe il coraggio di attraversare, nemmeno di avvicinare. Ovviamente, rosa.

E credo che sia ancora, anche adesso, là.

 

Rosa, mia preziosa amica, la memoria serve a vivere per sempre.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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