Lo spettro della solitudine
di Romano A. Fiocchi
Serena Penni, La destinazione, Il ramo e la foglia edizioni, 2023
Libro chiama libro. L’utilizzo della seconda persona singolare, quel ‘tu’ insistente, mi ha subito portato a collegare La destinazione a La modificazione. Il primo di Serena Penni, uscito nel novembre scorso, il secondo di Michel Butor, uscito sessantasette anni fa. Entrambi i romanzi, guarda caso, divisi in tre parti. Butor è esponente del Nouveau Roman, la ‘scuola dello sguardo’ teorizzata da Alain Robbe-Grillet: l’occhio dello scrittore come una macchina da presa che registra meccanicamente ciò che vede, le superfici, le forme, i colori, i movimenti, nulla più. Serena Penni è l’opposto: la sua macchina da presa emette raggi X e penetra nell’oggetto-essere umano che ha di fronte, scava nella sua anima, nelle sue nevrosi, nelle sue fobie. Una ‘scuola dell’introspezione’, insomma. C’è da dire che quando i raggi X si interrompono, i due scrittori collimano nelle minuziose descrizioni esteriori. Così Serena Penni, in una sorta di ecfrasi, ritrae il personaggio di Elisabeth: «Aveva i capelli neri, lunghi e un po’ mossi, il viso magro, un paio di occhiali con la montatura di tartaruga. […] La bocca era quasi perfetta, proporzionata e con labbra carnose, ma il naso era vagamente aquilino. La carnagione chiara contrastava con il nero dei capelli e delle sopracciglia. Dimostrava tra i quarantacinque e i cinquant’anni, qualche ruga d’espressione le segnava il viso. Aveva le guance arrossate per il freddo e per il vento».
In realtà, nel testo di Butor l’utilizzo della seconda persona singolare è costante in quanto la voce narrante si rivolge sempre al protagonista (l’incipit: «Hai messo il piede sinistro sulla guida d’ottone, e con la spalla destra tenti invano di sbloccare il portello scorrevole»), mentre in quello della Penni la voce narrante ruota su tre coprotagonisti che a turno si rivolgono al proprio antagonista. Mi spiego meglio. Ciascuna delle tre parti in cui è suddiviso La destinazione ha un protagonista-voce narrante diverso: Carla, Paolo ed Elisabeth, che con il proprio nome danno il titolo alle rispettive sezioni del romanzo. In “Carla” il personaggio omonimo racconta le sue vicende a Paolo, assente ma come se fosse di fronte a lei in carne e ossa. In “Paolo”, il personaggio di Paolo apre la sua confessione come se fosse l’inizio di un diario, per poi rivolgersi a Elisabeth solo nella parte centrale, abbandonando infine il ‘tu’ e tornando alla formula ‘diario’ nelle ultime pagine, quelle del suicidio, anzi: dell’omicidio di sé («Sono l’assassino di me stesso e di tutto quello che mi illudo di aver rappresentato»). Infine in “Elisabeth”, il personaggio di Elisabeth si rivolge a Paolo – sempre fisicamente assente – e conduce così il lettore sino alla soluzione del romanzo. Questo meccanismo narrativo genera dunque tre parti costituite di pieni e di vuoti che finiscono per incastrarsi perfettamente l’una nell’altra, integrandosi al punto di chiarire le situazioni lasciate in sospeso oppure, al contrario, smentendole e sostituendole con nuove verità. Perché la verità, secondo Serena Penni, non è univoca ma relativa: è la verità di ciascun personaggio. L’unica verità comune a tutti è l’impossibilità, per ciascuno, di trovare una corrispondenza d’affetto: Carla ama Paolo, Paolo ama Elisabeth, Elisabeth ama Gabriele (suo marito). Ma così come esiste una concatenazione di amori, esiste una concatenazione di morti: il padre di Paolo uccide la madre, Paolo uccide idealmente Gabriele, la morte in culla uccide la piccola Emma (figlia di Elisabeth e di Gabriele). Alla fine di queste concatenazioni di amori e di morti non resta se non lo spettro della solitudine, il senso dell’incomunicabilità tra gli individui, il disagio esistenziale dell’uomo contemporaneo.
Qual è il tema portante di questo romanzo psicologico? Credo sia la nevrosi di colui che è poi il protagonista assoluto, Paolo. Nevrosi causata dall’episodio terribile a cui ha assistito da bambino: l’uccisione della madre da parte del padre. In sostanza, un femminicidio. O meglio: non il dramma dell’atto in sé ma quello peggiore di chi si trova nella doppia posizione di figlio della vittima e di figlio dell’assassino. Serena Penni scava nel profondo della psiche di Paolo portando alla luce le ossessioni che lo tormentano: il terrore di aver ereditato il gene dell’omicida, il dubbio mai estinto di essere il vero autore dell’assassinio della madre, l’esistenza dentro di sé di un devastante complesso di Edipo e la conseguente ricerca disperata della figura materna nelle donne che incontra. Con un amore-odio che in uno slancio autodistruttivo lo porta addirittura a frequentare la casa di Shantal, luogo per scambisti.
C’è molto Freud, dietro questa scrittura. Non per nulla il testo è disseminato di sogni dei personaggi. A cominciare da Carla, sconvolta dalla fantasmagoria del castello sul fiume che può sprofondare da un momento all’altro. Poi i sogni innumerevoli di Paolo: dalle decorazioni sulle pareti – uccelli, pesci, foglie, fiori – che si animano, agli incubi con le molteplici metamorfosi del padre, ora in forma di mostro, poi di leone, pitone, ragno velenoso, uomo in giacca e cravatta, professore in saio grigio, poliziotto, fino al sogno dell’investimento volontario di Gabriele, il cui cadavere ad un tratto si trasforma in quello della madre uccisa, mentre le mani di Paolo diventano le mani del padre assassino. Freudiana è l’associazione di idee che alimenta il sogno dove Gabriele appare come angelo non-angelo. Infine il sogno di Elisabeth, che vede la propria madre vestita di nero che le parla in una lingua sconosciuta, terribile premonizione della morte della piccola Emma. Il susseguirsi di tutti questi sogni finisce per creare una vera e propria narrazione parallela nel linguaggio dei simboli, come a evidenziare la bipolarità dei personaggi, soprattutto di Paolo, con le molteplici maschere bisessuali dietro cui si nasconde sin da piccolo: Zorro, Giulio Cesare, Luigi XVI, Cleopatra, Maria Antonietta, Simone de Beauvoir. Ma anche le maschere che gli attribuisce Elisabeth: Achab, Dorian Gray, persino Faust. Tutto ciò fa di Paolo un concentrato di troppi individui per consentirgli di sopravvivere a se stesso.
Un’ultima considerazione tecnica. Carla, Paolo ed Elisabeth sono personaggi assolutamente teatrali e letterari. Nessuna persona reale terrebbe un discorso diretto al proprio antagonista in questo modo. L’abilità della Penni, che si innamora di volta in volta di ogni coprotagonista, sta nell’instaurare una convenzione con il lettore per cui lo stesso si immedesimi nella vicenda e la segua fino in fondo come se fosse la più autentica delle storie. Persino il misterioso paesino del Brasile dove si rifugia Paolo, luogo tra fisico e mentale che per certi aspetti evoca i vuoti e i silenzi della Crisopoli di Guido Morselli, si riveste di un fascino misterioso e poetico che incuriosisce e spinge il lettore alla caccia di indizi per identificarlo. Ma, come tutti i personaggi sono privi di cognome, il paesino del Brasile resta anonimo. Personaggi e luoghi non sono se non l’incarnazione di simboli: «Perché qui c’è un fiume trasparente che scorre lento e monotono verso l’aldilà, portando con sé i petali rossi dei fiori di un albero di cui non so il nome e le anime dei dannati».
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Il ramo e la foglia è una piccola e coraggiosa casa editrice di Roma, coraggiosa perché è nata nella seconda metà del 2020, in piena epidemia di Coronavirus. Si segnalano, tra le sue ultime uscite, il fantasioso e ucronico Navi nel deserto di Luigi Weber e la riedizione, a distanza di cinquantaquattro anni, del Marcel ritrovato di Giuliano Gramigna.