Storia tripla (racconto giovanile)
di Lisa Ginzburg
- José
L’ho scelta perché scopava bene; e perché non c’era niente, né in lei, né nella sua vita, che mi procurasse una qualche pena, un coinvolgimento. Adesso credo che se solo volessi ragionerei in un altro modo con une donna. Ma allora era così: da una donna cercavo solo sesso e silenzio; distanza mentale e amore fisico.
Ha scelto un lavoro (o meglio l’ha preso, in un momento in cui aveva ben poco da scegliere) che l’ha guastata. Se ne è resa conto anche lei, ne sono certo, anche se finge provocatoriamente di no; e c’è qualcosa di agressivo, e disperato, in questo suo giocare col proprio abbrutimento.
Anch’io mi sono guastato, sicuro: anzi, secondo la gran parte di quelli che ci conoscono, io molto più di lei. Ma anche se loro non lo sanno né lo sapranno mai, almeno io non ne godo. Anzi la gioia sta nei pochi instanti in cui ritrovo il me di prima, il sentimento, l’intensità.
Julio è nato dopo solo un anno, e quasi subito abbiamo smesso di scopare. O forse per qualcosa di più complicato, di cui non so e non voglio capire nulla. Non ci penso. E anche se vedo quanto gli ho fatto male, lo ignoro e spesso lo maltratto.
Ho cominciato a uscire da solo. Prima con un senso di grande libertà, poi di grande solitudine. Ana-Luz (che io però ho sempre chiamato Ana) non si è mai opposta, non glie ne è mai importato niente. I guai sono cominciati solo un anno e mezzo fa, quando ha iniziato a voler uscire anche lei. E la baby-sitter, e la cena da lasciare a Julio, e la lavatrice da stendere, e non sentire la sveglia la mattina perché da quando esce anche lei all’asilo lo portiamo a turno…una vita scema, oltre che dura scema, piena di battibecchi. Lei che ronza come una mosca, è sempre più magra, lavora sempre, e io che solo ogni tanto mi ricordo di quando con un sorriso dolce sulle labbra mi aspettava alla finestra, a casa dei suoi giù all’Alfama, e a me mentre le andavo incontro la vita sembrava fatta con l’aria della primavera.
Mi son messo a frequentare locali, locali di ogni sorta. In molti posti qui a Lisbona suonano dal vivo, e i primi tempi mi soffermavo ad ascoltare attentamente le parole delle canzoni. Tante parlavano dell’abitudine nell’amore, di come sa dsitruggerlo. Pensavo quanto banale è la vita, tutte le vite; pensavo a Ana, alla sua bocca che non baciavo più. Ero triste, ma disllluso. Rapido e perfido, il cinismo si apriva in me la sua strada.
Esteban l’ho conosciuto dopo quasi un anno di quella vita notturna. In discoteca mi spiava da lontano, e con lo sguardo, nel buio, sembrava leggere tutto, vedere tutto. “Sono di Capo Verde, ma non ci torno da più di cinque anni. Tre volte alla settimana vado in un posto a cantare la mia saudade. Vieni a sentirmi se ti va. Ci sono ogni venerdì, sabato e domenica”.
Che paura. Chissà perché subito un senso di paura. E poi quello sguardo, un po’ strabico, un po’ ridente e un po’ tragico. Voglia di ferirlo. Voglia subito di ferirlo. Bevo più del solito quella notte, e mentre torno barcollando a casa, pesto un gatto che mi taglia la strada e lo ammazzo. Avidamente quasi, lo schiaccio sotto la suola dello stivale. Mentre lo faccio penso al sorriso di Esteban, caldo, aperto. Una fitta di paura. “Io lo schiaccio pure a lui, porco dio!”. Ora non mi spavento più neanch’io; la mia rabbia non ha più ritegno, e senza ritegno io la lascio fare.
Vado il venerdì seguente, e mentre vado non so neanch’io perché sto andando. Non ci ho pensato mai durante la settimana, neanche una volta, ma la mattina del venerdì una delle prime cose che mi vengono in mente è quella visita che mi attende la notte.
Arrivo che sta già cantando. Che voce! “Calda e profonda come l’amante sapiente, dolce e avvolgente come l’inesperta”… mi molce il cuore, e non devo né voglio, assolutamente, che nessuno se ne accorga, e tantomeno lui… Lui che da lontano mi vede, e mentre canta sorride, e in quel suo guardarmi e sorridermi c’è tutto, non voglio, non è.
Viene a sedersi al mio tavolo alla prima pausa. Beviamo. In principlo parliamo poco, il minimo indispensabile, e questo mi piace, mi fa sentire a mio agio. “Tu hai un gran dolore, l’ho visto subito; e non vuoi guardarlo, e più non vuoi, più quello cresce”. Come parla sicuro, con quel sorriso – persino altero, nella sua innocenza: la prima volta non me ne ero accorto.
“Sei mai stato con un uomo?”
L’avevo anche immaginata una domanda così, da parte sua, il mio disagio però mai. Il sorriso timido che gli ho rivolto mentre nervosamente mi accarezzavo i capelli scuotendo la testa per dire di no.
“E tua moglie, com’è? Perché ce l’hai una moglie, vero?”
Chissà come mai mi metto a parlare tanto. Forse il troppo whisky, forse i troppi mesi di silenzio, cullando il mio risentimento come un bambino (un bambino questo sì amato, accarezzato). Parlo di Ana come se Esteban la conoscesse. Ascolta attento; due volte mi interrompe perché deve tornare a cantare. E due volte il suo canto mi commuove: come fosse il canto della mia vita, come se nelle sue parole, nella sua “saudade de Cabo Verde” stesse tutta la mia amarezza – e l’aria di primavera che l’ha preceduta, e lo struggimento per l’impossibilità che ritorni…
Mi accompagna alla macchina. Zoppica leggermente, e c’è qualcosa nel suo corpo, grosso, un po’ pingue, che commuove. Qualcosa di patetico, ma portato con grande dignità. Ho voglia di piangere, per quel groppo in gola rauco e serrato, lo stesso che mi accompagna da mesi senza volersi sciogliere. Così rispondo male alle sue domande, e con la mia malagrazia non aiuto, anzi interrompo la melodia della sua conversazione. Per un attimo mi sembra di essere con mio figlio, anche lui bisognoso, oppresso da necessità che io non so sopportare.
Esteban implorante e quasi felice di implorare; col suo sorriso disarmato lascia cadere le mie risposte sgarbate, e la cosa mi fa incazzare ancora di più. Quando mi chiede se ci rivedremo rispondo di no con un mugugno beffardo. “Macché, lasciami perdere, pensa piuttosto alla tua voce, che è bellissima”. Mi chiudo dietro la portiera e faccio per accendere il motore.
E’ stato allora. Preso da un impulso che nemmeno adesso so spiegarmi, sono sceso dalla macchina e l’ho baciato con furia sulla bocca. I suoi capelli lunghi profumavano; e con un gemito di piacere, senza carezze, ci siamo salutati.
Per mesi l’ho fuggito. Disertavo le strade attorno a quella del locale – la Rua do Poço dos Negros, commovente di sera coi ragazzi fuori dalle case e dai negozi, in attesa della notte che incomincia… In ufficio, una mattina ho trovato un bigliettino sul tavolo, “Ti ha cercato un certo Esteban”: l’ho strappato.
Un giorno però mentre sto guidando, accanto Julio e la sua presenza sempre per me faticosa, lo vedo attraversare la strada. Mi fermo: “Vieni, monta in macchina”. E lui felice si siede dietro e si mette a giocare con Julio. E’ bravissimo col bambino, nessuno ho visto bravo così (a parte mio padre, che però sta a Santa Cruz e il nipote lo vede due volte l’anno, se va bene). E Julio è raggiante, che finalmente qualcuno lo stia ad ascoltare, che qualcuno lo guardi come una persona, un bambino che ha occhi per vedere il mondo e orecchie per sentirlo.
Passiamo insieme il pomeriggio, un assurdo intero pomeriggio. Andiamo sino a Belèm, saliamo sulla torre. Poi ci fermiamo in un bar, Esteban compra a Julio un grosso gelato ai gusti cioccolato e banana. Il bambino è come lo vedessi la prima volta, quasi lo trovo simpatico. Alle sette e tre quarti dico che devo andare, e porto via due, un uomo e un bambino, profondamente tristi: gli sguardi di entrambi dicono delusione, in macchina incombe un silenzio risentito. Lasciamo Esteban all’angolo con Rua da Rosa; con il suo fare pesante si mette la borsa di tela sulle spalle (piena di chissà quali assurde cose strane) e abbraccia prima Julio e poi me. Non c’è allusione, non c’è niente, solo un grande calore.
Con un pretesto, dopo dieci minuti Julio scoppia a piangere. E’ rimasto di nuovo solo; non ha più con chi scambiare, e quell’istante di vicinanza e amore anche con me, è già finito. “Non frignare, non rompere” ricomincia a sentirsi dire. A cena più di una volta nomina Esteban, il suo nuovo grande amico. Al di là dei bicchieri e delle pentole unte vedo Ana rabbuiarsi. E’ ancora una donna molto sensibile, pur nel suo abbrutimento, ancora in grado di ingelosirsi per qualcosa che non sa, in cui lei non c’entra. Prima di uscire (stasera è il suo turno) mi domanda chi è questo Esteban. Mentre le rispondo evasivo avverto il tono falso, alterato, non credibile della mia voce. Ma non me ne frega niente: niente.
Mi butto sul letto. E’ assurdo, ma lo desidero; penso a quel suo culone che sballotta sotto i jeans, a quei cazzo di capelli lunghi profumati. Sono pieno di rabbia, di voglia di azzittire tutto, spegnere la luce e tutte le luci del mondo. E nel buio, gridare.
Il Venerdì, intorno a mezzanotte sono di nuovo in Rua do Poço dos Negros, e di nuovo senza averlo programmato. Da lontano, mentre canto mi sorride contento, lo stronzo. C’è molta gente, smette di cantare solo verso le due. E’ normale che mi accompagni di nuovo alla macchina, normale che questa volta salga con me, che mi dica dove abita, che io salga su da lui, che ci ritroviamo abbracciati sul suo letto scalcinato. Che spegniamo tutte le luci. Che nel buio gridiamo, come animali feriti.
Ana non mi sente entrare nel letto all’alba, né uscirne poche ore dopo quando suona la sveglia. Meglio così; meglio che non veda quanto sono pallido, quanta paura ho negli occhi – cose che mi dice lo specchio del bagno, inesorabile.
2. Esteban
I ceci mescolati a una pastella verde, l’odore delle spezie; mia madre mescola piano, e canta. Questo è il mio primo ricordo della vita.
Una notte dei bastardi di un paese vicino l’hanno ammazzata, mia madre. Mentre tornavano a casa, ubriachi, hanno sparato col fucile così, per divertirsi, e lei che stava tornando a casa l’hanno presa. Avevo quindici anni: vennero a dirmelo in tre, i vicini. Non ho gridato dall’orrore, né pianto. Non ho fatto niente; ho aspettato ancora tre anni, poi sono scappato a Lisbona. Quando torno sull’isola, tutti ancora dopo tanto tempo mi puntano addosso sguardi di compassione, cui io rispondo quasi felice, sono sguardi che mi proteggono per ché mi fanno sentire più forte di quanto non sia.
Avessi avuto più coraggio averi provato a incidere un disco. Di avere una voce speciale me ne rendo conto anche io, io stesso riesco a commuovermi quando mi sento cantare. Ma coraggio non ne ho avuto, o forse più semplicemente, voglia. Mi basta questo, addolcire le serate della gente, nella penombra vedere certi occhi lucidi, sentire voci che un po’ tremanti cantano con me. Immaginare le coppie promettersi chissà quali cose, ignare dell’amarezza dell’amore. Scaldare i cuori gonfi di saudade dei capoverdiani che frequentano il locale, amici e non. E sfinirmi nel canto. andare a dormire spossato dopo aver sfogato tutta la mia malinconia.
“Tu ti esprimi” mi dice Taudès, mio cugino, e credo proprio che abbia ragione.
Non guardo per spiare; però vedo. E ti ho visto. Tanti dicono le cose soavemente, tanti coprono tutto di un velo di falsa cortesia. Tu no; tu sei stato subito franco con me, vero, senza complimenti. E cattivo; e io per tutto questo mi sono innamorato. Mi sei entrato subito dentro, nella pelle. E tu, perché non vedi tu? Amore mio; l’ho pensato subito: amore mio.
C’è una canzone che non canto spesso, credo perché mi fa soffrire. Dice più o meno così, tradotta: “le scuse le sappiamo o le troviamo/lo so, sarebbe potuto essere/mia perduta rugiada del mattino”.
Sei stato subito, anche, quella canzone. Perché l’ho sentito subito che non era possibiie. Che avrei perso, e avrei sofferto per te. Mia perduta rugiada del mattino.
Il giorno dopo quello in cui ti avevo incontrato, quando sono andato a pranzo da Taudès e la sua famiglia, come ogni mercoledì, ero allegro. Se ne sono accorti tutti: anche Miminha, mentre come faccio di solito giocavo con lei prima di mettersi a tavola. Perché i bambini vedono, e io ho sempre cercato di vedere come vedono loro. Mantenere sulle cose gli stessi occhi profondi e attenti dell’infanzia, ascoltando i movimenti del cuore. Così campo, così mi mantengo in piedi del mondo.
Ero allegro perché pensavo a te, ai tratti decisi del tuo viso, ai tuoi capelli corti, la linea netta sulla nuca. Così virile. Amore mio. Sono come scemo, anche dopo, quando cammino per le strade sorridendo ai bambini che mi passano accanto, a Lapa. Un appuntamento te l’ho dato e chissà, chi lo sa. Presagisco guai, ma scorre vita, energia. Qualcosa di profondo e dolce, da regalare tutto a te.
Quando ti ho chiamato è stato perché non ce la facevo a sopportare l’attesa, il desiderio che mi galoppava dentro dopo il bacio che ci siamo dati. Sapevo che non avrei dovuto chiamare, ma sapevo anche che commettere un errore era il solo modo per poi, pentito, mettermi infine l’anima in pace. Infatti mi sono rassegnato, ho ricominciato a uscire il giovedì con il collega di Taudès che mi paga sempre la cena e non sa baciare, il fine settimana lavorare, il mercoledì andare a pranzo da Taudès e giocare con Miminha. C’era un gran vuoto, ma anche una strana grande calma; la stessa del pomeriggio che ci siamo incontrati e ho conosciuto Julio, Julio che ti assomiglia e in più ha la pazienza e la dolcezza che mancano a te. Al termine di quel pomeriggio mi sono addormentato prima che arrivasse il buio, per quanto ero stanco – e felice. Quelle ore trascorse a Belèm sono il ricordo di sicuro più bello; molto più di quello della notte in cui ci siamo amati. Perché lì ti ho perduto, lì eravamo soli con le nostre anime sgualcite, senza più lo sguardo saggio di Julio, lui che sapeva come farci stare vicini. Hai avuto paura dopo José, amore mio. E chissà, magari ne ho avuta anche io, per quanto proprio non mi sembra. Mentre mi penetravi ti ho chiesto: “amami, sempre”. E intanto lo sapevo, che non sarebbe stato mai più.
Poi l’altra sera siete tornati, voi due, altre persone, e anche lei. E’ stato tremendo. Vedevo nella penombra gli occhi tristi di Julio, tu eri in disparte ma io sapevo che lo stavi maltrattando con le parole, e stavo male. Parlavi con i tuoi amici, e la cosa peggiore era che tra loro c’era anche Tino, Tino che è la più bella voce di Lisbona, che è il mio maestro, con il quale ho passato tante sere infuocate di tramonto con le chitarre su al Castelo, a imparare. L’ho salutato con il microfono mentre andava via, lui mi ha fatto un cenno, un mezzo sorriso di vecchio. Tu niente, neanche ti sei voltato a guardare. Dopo un po’ ho cantato “mia perduta rugiada del mattino”, mi sono emozionato io stesso mentre la cantavo, diversi occhi lucidi in sala, commozione. E tu niente, probabilmente neppure ascoltavi – quella canzone che voleva dirti tante cose, la mia dichiarazione, la mia resa. Il desiderio che bruciava, rassegnato. Era arrivata lei, con altri, e quanto eri teso potevo vederlo da dietro, per come muovevi a scatti quel tuo collo che mi eccito solo a guardarlo.
Lei è dura e segaligna, come me l’hai descritta tu. L’aria di qualcuno che si è perduto e non può ritrovarsi. Orrenda: le mani che accarezzavano la testa del figlio erano di madre sì, ma secche, nodose, tese. Ho capito quella sera che vi odiate. Anche non vi avessi mai visto prima, l’atmosfera pesante al vostro tavolo l’avrei percepita da lontano.
Dall’altra sera sto proprio male. Ho detto al collega di Taudès che se vuole possiamo vederci anche un’altra sera alla settimana, tanto ormai cosa vuoi che me ne importi. Vaffanculo a tutto, José. Perché ti amo, per la prima volta davvero amo, quindi vaffanculo, non me ne frega un cazzo di niente.
3. Ana-Luz
Fernando prima lo vedevo di rado, scopavamo da dio, in casa sua, e basta. Ma nell’ultimo anno ci siamo proprio impazziti, tutto è sempre più triste ma più forte, e non riusciamo a stare senza vederci più di dieci giorni. Se continua così impazzirò sul serio: non ho più forza nemmeno di vedere Rosita, che mi legge le carte e almeno lei mi distrae.
José è stato il primo uomo della mia vita; a parte un timido bacio negli anni della scuola (in corriera, al ritorno da una gita a Obìdos) i maschi, prima di lui, proprio non li conoscevo – mio padre a casa non c’era mai, e quando c’era dormiva sempre.
Il primo anno mi ascoltava; si sedeva ai piedi del letto la sera, e mi lasciava parlare. Spesso mi sfotteva, o replicava alle mie confidenze in modo sbrigativo, sgarbato. Però mi capiva, o almeno, desiderava capirmi. Invece l’estate a Santa Cruz a casa di suo padre, la stessa in cui sono rimasta incinta, abbiamo smesso di provare a capirci. Come per un tacito accordo (ma sarebbe più esatto dire disaccordo) è cessato ogni sforzo. E’ incominciata una distanza, amara, proterva, nel tempo sempre più amara e proterva.
Ho preso l’abitudine di saltare i pasti, sempre più spesso. La ragione mi è chiara: non è che mi manchi l’appetito, è che il morso della fame mi fa sentire meglio. Quando ho fame provo un’emozione, un calore nel corpo che assomiglia al desiderio, una rabbia che risuona come energia. Lo sguardo affamato attira altri sguardi, e a me è sempre piaciuto sentirmi osservata per la strada. E tante volte, mentre cammino per questa città che odio e amo come fosse una persona, questa città che è il solo luogo che conosco – e lo conosco a memoria, davvero – tra le gambe sento un cuore che palpita, che canta la sua canzone rabbiosa e forte, di fame.
Fernando: ma Fernando non è niente, è solo la mia delusione (la delusione ha fatto sì che lo incontrassi). Le voci nei vicoli la sera quando torno dopo che l’ho lasciato, quelle sono la cosa più viva di questa vita mia che non capisco più, che mi è sfuggita. Ah, avessimo potuto! Forse saremmo andati a Madrid, come sognavamo all’inizio, da fidanzati. Oppure a Capo Verde, che José ama tanto senza esserci mai stato (ultimamente va sempre in un locale di capoverdiani, e l’altra sera mi ha costretta a raggiungerlo lì. E’ un mondo strano, struggente e appassionato, che non mi appartiene. C’era uno che cantava canzoni tristissime, e che chissà perché ci spiava da lontano).
Non so cosa succederà. Di separarci ne parliamo da tanto, ma non riusciamo a deciderci, non c’è dolore abbastanza, né gioia, tali da portarci a una scelta. A Julio gli occhi si fanno ogni giorno più tristi, e la maestra tempo fa mi ha convocato per parlarmi preoccupata. Io quasi non mangio più, lavoro più che posso pur di non pensare. José è come non ci fosse: anche lui, come faceva mio padre, quando è in casa dorme sempre o finge di dormire.
Eppure Rosita legge nelle mie carte un amore stupendo, una casa lussuosa, un secondo figlio (e femmina questa volta, grazie a dio). Io non so se crederle ancora, come ho fatto in questi anni per tenermi su; so solo che mi affanno, e le voci nei vicoli ormai sono grida, e il cuore tra le gambe è gonfio di pianto e sta per scoppiare.
I commenti a questo post sono chiusi
racconto bello, molto intenso. Come in altri suoi racconti e romanzi domina Eros, socraticamente inteso come desiderio di qualcosa che non si ha, i suoi personaggi cercano l’ALTRO, che può essere qualcosa in sè stessi che è nascosto e che provano a portare fuori, o l’ALTRO inteso come persone, culture, mondi; questa ricerca può avere successo come non lo può avere e da qui nasce la loro insoddisfazione, il tutto reso con una prosa diretta, ma precisa nel descrivere i sentimenti.