Su “The interrogation” di Édouard Louis e Milo Rau
di Ornella Tajani
«C’était moi», ero io: risponde così Édouard Louis alla domanda del giornalista che gli chiede chi sia Eddy Bellegueule, il suo nome alla nascita, lo stesso che ritorna nel titolo En finir avec Eddy Bellegueule (2014), il romanzo che gli darà enorme successo poco più che ventenne e sancirà una tappa determinante nella sua traiettoria di transfuge de classe.
L’intervista in tv diventa un frammento dello spettacolo The interrogation, regia dello svizzero Milo Rau, co-scritto con Louis su drammaturgia di Carmen Hornbostel, in scena al Mercadante di Napoli ancora fino a domani (in fiammingo con sovratitoli in italiano). L’interazione fra l’attore protagonista, il bravo Arne De Tremerie, e il grande schermo sullo sfondo è continua; in un primo video Louis – che al liceo aveva sognato di fare l’attore per fuggire da Hallencourt, paesino di provincia del nord della Francia in cui è nato – spiega all’amico regista perché intende rinunciare a interpretare sé stesso sul palco: perché si è reso conto che il teatro non lo aiuterebbe a sfuggire alla solitudine che già impone la scrittura. Così tocca a De Tremerie raccontarci la sua storia, in una sorta di dialogo con il vero Louis, che appare e scompare dallo schermo, in una felpa con cappuccio che, come narra nei suoi libri, era il capo d’abbigliamento sognato dai ragazzini di provincia: appena sbarcato nella borghese cittadina di Amiens, dove è stato accettato nel liceo che costituirà il suo primo trampolino di lancio, Louis scopre che i giovani delle classi ricche si vestono in tutt’altro modo, indossano cappotti, accessori che mai fin lì aveva desiderato. Lo scenario dei suoi desideri cambia d’improvviso, la traiettoria sociale auspicata si delinea.
Perché questo titolo, The interrogation? Perché, ora che a 31 anni è famosissimo nel suo paese, le sue opere tradotte in oltre trenta lingue, traduttore a sua volta – di un’autrice meravigliosa come Anne Carson, più volte evocata durante lo spettacolo, insieme ad altri numi tutelari della sua formazione, quali Bourdieu –, Louis si chiede cosa siano il successo, il fallimento, e dove sia il suo vero io: sulla scena o dietro lo schermo; in quel cognome così socialmente chiassoso, Bellegueule, che ha voluto abbandonare, oppure in Louis, il paravento della propria vulnerabilità; nel nome che gli avevano dato alla nascita, Eddy, o in quello che la madre di una sua compagna gli suggerisce di adottare, Édouard.
The interrogation sfrutta la ripetizione, lo sdoppiamento, per riflettere sulla verità e sulla vendetta: se il premio Nobel Annie Ernaux, altra transfuga di classe, ha scritto per venger sa race, per vendicare la propria razza, come ha ripetuto più volte citando Rimbaud, Louis sembra scrivere soprattutto per vendicare sé stesso, la violenza ripetutamente subìta per via della sua omosessualità («Nei paesini che finiscono in -court, di solito la gente non è gay friendly»), lo stupro di cui racconta in Histoire de la violence (2016). Probabilmente rispetto a Ernaux, o al sociologo Didier Eribon (figura cardine per lui), la cifra di Louis è proprio la violenza: quella violenza che a Hallencourt serpeggiava in tutte le famiglie e che gli abitanti «chiamavano vita», in mancanza di consapevolezza.
Una violenza, del resto, anche autoinflitta. In Changer : méthode (2021) l’autore racconta come ha attuato l’uccisione di Bellegueule per diventare Louis: l’operazione per cambiare la propria attaccatura dei capelli, troppo da paysan; gli infiniti interventi ai denti. Colpisce, in questo spettacolo, quando nel video l’autore sembra voler imitare l’accento di provincia, che ha così faticosamente perso, ma poi non ci riesce, non vuole; la lingua, come ancora insegna Ernaux, è sempre l’elemento identitario più doloroso.
The interrogation è uno spettacolo frammentario in modo deliberato, forse perché a Rau, come a Louis, interessa mostrare i «frammenti di realtà nell’immensità dell’immagine»: se, sul piano formale, l’interazione fra schermo, videocamera su scena, attore in carne e ossa e videoproiezione dello scrittore funziona piuttosto bene, sul piano contenutistico si può considerare la pièce come una sorta di introduzione all’opera di Louis, e a questo genere che in Francia si è guadagnato una specifica etichetta, quella di récit de transfuge de classe, racconto di transfuga di classe (chi scrive preferisce chiamarlo autosociobiografia, ancora sulla scorta di Ernaux). Il tessuto intertestuale è ricco: non solo Carson, ma anche estratti recitati da Incendies di Wajdi Mouawad o da Juste la fin du monde di Lagarce (la pièce portata al cinema da Xavier Dolan nel 2016); non solo Čechov ma anche Didone ed Enea di Purcell, di cui l’attore “interpreta” in playback un’aria, momento commovente e di grande impatto, più dello scimmiottamento di Céline Dion, che pure scatena l’ilarità del pubblico. Questo continuo gioco prospettico, l’incessante alternarsi di ruoli e maschere è una mise en abyme della domanda da cui muove lo spettacolo: «Possiamo sfuggire alla nostra biografia attraverso l’arte, oppure l’arte è solo la testimonianza di una liberazione fallita?». Il quesito resta aperto, attraversabile.
«C’était moi»: quanta strada per costruirsi, decostruirsi, ricostruirsi, sembra dirci Louis, e Rau con lui, in questa breve pièce; quanta fatica per raggiungere sé stessi, prima di sparire nel buio in lontananza, come vediamo fare all’autore nel maxischermo al centro della scena. Del resto, nel romanzo Les années di Ernaux, autrice certo significativa per Louis, la prima frase recita proprio: «Toutes les images disparaîtront», tutte le immagini scompariranno.
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I testi di Louis qui citati sono stati tradotti in italiano e pubblicati da Bompiani, fatta eccezione per Metodo per diventare un altro (La nave di Teseo): ci terrei a menzionare la traduttrice o il traduttore, come faccio sempre e come sempre richiedo di fare, ma gli editori hanno dimenticato di segnalarlo perfino nelle pagine dei loro siti dedicati a questi libri. Editori, citate – voi per primi – chi traduce.