“Culo di tua mamma: Autobestiario 2013 – 2022”. Intervista ad Alberto Bertoni

 

a cura di Andrea Carloni

 

Alberto Bertoni è nato a Modena nel 1955 e insegna Letteratura italiana contemporanea e poesia del Novecento nell’Università di Bologna. In poesia, dopo una serie di opuscoli, libretti, plaquettes inaugurata nel 1981, ha esordito con il volume Lettere stagionali (Book Editore 1996, con una nota di Giovanni Giudici), a inaugurare una sequenza di otto libri, tra cui spiccano le tre edizioni di Ricordi di Alzheimer (Book Editore 2008, 2012, 2016) accompagnate da una poesia in versi pavanesi di Francesco Guccini oltre che da una nota critica di Milo De Angelis, e che si compone nei suoi ultimi esiti di Traversate (SEF 2014, prefazione di Paolo Valesio), della silloge Poesie 1980-2014, (Nino Aragno Editore 2018), del libro in dialetto modenese Zàndri (Book Editore 2018), delle traduzioni di Irlandesi (Corsiero Editore 2020), dell’Isola dei topi (Einaudi 2021 Premio Carducci 2021 e Premio Pontedilegno 2022) e dell’“Autobestiario” Culo di tua mamma, (Collana Giallo oro di Pordenonelegge, Samuele Editore 2022).

Proprio sull’“Autobestiario”, la sua ultima raccolta di poesie, Alberto Bertoni ha gentilmente accettato di rispondere ad alcune mie domande.

Il titolo di questa raccolta, Culo di tua mamma: Autobestiario 2013 – 2022, ci porta a due autori: il Charles Bukowski poeta e il Federigo Tozzi di Bestie. Cosa può dirci di questo titolo e del rapporto con questi due riferimenti letterari? 

Per rispondere a questa domanda, devo prendere le mosse da qualche considerazione di ordine strutturale prima che meramente descrittiva o confessionale di uno stato d’ispirazione legato a una specifica poesia. Nel settembre del 2022 è uscito un libro che io non avevo minimamente previsto di fare. Anzi, tutto è avvenuto per caso (il caso è una componente tutt’altro che secondaria dell’ispirazione e della composizione poetica): verso la metà dello scorso giugno 2022, gli amici Gian Mario Villalta e Alessandro Canzian mi hanno proposto di partecipare con un mio volume di versi alla collana Gialla Oro che la Fondazione Pordenonelegge ha affidato da un paio d’anni a Samuele Editore. Io avevo i cassetti dove conservo gli inediti che vengo componendo quasi del tutto vuoti, perché nel ’21 è uscito un mio libro impegnativo, L’isola dei topi, nella prestigiosa collana “Bianca” di Einaudi. Tuttavia la proposta dei due compari di poesia era molto intrigante, perché non mi chiedevano un libro generico, bensì un libro monotematico.

Così, d’acchito ho risposto che mi sarebbe piaciuto comporre un Bestiario, includendovi qualche poesia del passato, qualche inedito (che sapevo di conservare in un certo comparto segreto del cassetto cui ho fatto cenno prima) e qualche traduzione. I due furono entusiasti della proposta, ma mi diedero una scadenza ravvicinatissima: dieci giorni al massimo, dal momento che intendevano uscire per il settembre successivo, quando per l’appunto si svolge la kermesse di Pordenonelegge.

Quello stesso pomeriggio sono entrato nel tunnel di un trip compositivo e ordinatore mai sperimentato prima e – dopo otto giorni di lavoro matto, notturno e disperatissimo – ho consegnato ai due committenti il volume Culo di tua mamma, che riprende nel titolo un verso di Charles Bukowski dedicato all’ippica, sport e motore di un rapporto con i cavalli da corsa che mi appassiona e mi attrae fin da quando ero bambino: proprio loro, i cavalli, incarnano da sempre per me gli animali più degni di passione. In una parola, l’elemento unificatore di questo libro (nel quale riconosco alcuni dei motivi e degli esiti più durevoli della mia scrittura poetica) risiede nel capovolgimento del prevalente uso letterario degli animali nel tempo lungo della storia occidentale, dalle favole di Esopo e Fedro fino ad Alice nel paese delle meraviglie e a Pinocchio, ma anche oltre, spingendoci almeno verso Rodari e Scialoja.

La via maestra, infatti, è stata il più delle volte quella di un’umanizzazione più o meno esplicita delle proprietà animali e di una esposizione più o meno parodica di vizi e virtù del genere umano, proiettata su una serie di comportamenti animaleschi evidentemente permeati da peculiarità caratteriali e psicologiche di per sé umane. Rileggendo alcune mie poesie del passato più recente insieme con quel blocco di una trentina di inediti che erano andati a rintanarsi nel cassetto segreto di cui sopra, mi sono accorto che – al contrario – gli animali che facevano sempre più spesso capolino nella mia poesia erano portatori della procedura opposta: e incarnavano quel processo di animalizzazione dell’umano che mi sembra sempre più diffuso entro la nostra civiltà di massa, meccanizzata e informatizzata, ma anche sempre più spietata, belligerante e “vuota” di spiritualità e di comunità.

Quanto a Tozzi lo considero non da oggi uno dei grandi rimossi della nostra tradizione letteraria, insieme coi non meno grandi Antonio Delfini e Alberto Savinio. Bestie, uscito in prima edizione da Treves (quindi un editore di primo piano, lo stesso di d’Annunzio e di Gozzano) nel 1917, nell’anno più drammatico della Prima guerra mondiale – un dato assai rilevante – è uno dei libri decisivi della nostra tradizione del nuovo, aprendo di fatto il Novecento e il suo lanciarsi a capofitto nella pratica del romanzo: in Italia sotto la spinta di un grande critico – di lì a qualche anno, per di più, convintamente antifascista – come Giuseppe Antonio Borgese.

“Chi ti piace di questa corsa?”
“Culo di tua Mamma”, l’ho informato
ma non appena si è messo
a cercarlo sul programma
me ne sono andato.

Per un momento sono stato il babbo
anzi, la mamma della larva
finché non hanno detto basta
l’aroma di pipì nell’aria
della mia casa, il
dentifricio che manca
o la risacca di carta
per terra e negli infissi
morta la larva adesso, annichilita
dalla pressione di due dita

Il suo libro trabocca di “bestie” e ci racconta delle relazioni domestiche con i propri animali affezionati. Ma allo stesso modo, in fondo, non ci ricorda anche che la selvaticità del mondo animale non potrà mai aderire del tutto alla nostra visione domestica e umana?

Sono d’accordo con l’assunto di base: il gatto è un animale domestico fino a un certo punto, non è che lo si possa assoggettare alle regole di una pacifica coesistenza piccolo-borghese entro una realtà condominiale. Dall’inizio del nuovo secolo ho avuto tre gatte, la prima era già anziana quando ho cominciato a conviverci, la terza ha cinque anni e mezzo ed è la protagonista del passo poetico ripreso qui: un passo che mi è caro, perché riprende un attimo di sospensione che mi piace equiparare al surplace nel quale si impegnavano – quand’ero bambino – i velocisti su pista, per acquisire una posizione di vantaggio tattico nei confronti dell’avversario che aveva il vantaggio di poter scattare da dietro, all’improvviso. Ovviamente, il retroscena del surplace verificatosi fra la mia gatta e me la sera che mi ha ispirato la poesia è consistito in un mio piccolo gesto sospeso fra carezza e buffetto al quale lei ha risposto con una fulminea zampata, però ad unghie chiuse: doveva ancora cenare. Non c’è bisogno che aggiunga che anche in futuro potrò convivere solo con felini di sesso femminile, proprio per questa imprevedibilità e per la punta di spirito vendicativo che nella gatta esplode sempre dopo una mia vacanza, temperate da una considerazione istintiva e intelligente per lo stato delle cose e i rapporti di potere domestico.

Siamo ben vivi
mentre ci fissiamo
immobili da qualche istante
la mia gatta e me

Siamo ben vivi e anche
pronti a scattare
l’uno verso l’altra

L’elemento che più di ogni altro gli umani e gli animali si trovano a condividere è l’ambiente. Quanto è importante oggi, nel corso della ricerca poetica, cogliere non solo la fascinazione e le storie dei paesaggi e dei luoghi, ma anche i mutamenti e i rischi che vi incombono?

Devo prenderla un poco alla larga. La poesia, di questi tempi, non è certo un genere letterario che va per la maggiore, perlomeno sul piano della resa commerciale e del conseguente interesse mediatico o editoriale. Tuttavia, i tre milioni di italiani e di italiane che sentono oggi il bisogno di scrivere in quella forma artificiale di linguaggio che è il verso e che magari hanno nell’orecchio la prosodia “non più romanza” del rap (che comporta versi non più sillabici, ma fondati su quattro o cinque battiti accentuali “forti”) superano tranquillamente ogni imbarazzo di competenza e di rapporto diretto con un’arte millenaria come la poesia nel nome di un bisogno – che è di tutti – di funzione poetica, fra confessione, autofiction e rispecchiamento nelle diverse forme gradevolmente necessarie di eufonia, armonia e musicalità verbali: in un contesto entro cui l’oralità prevale ormai endemicamente sulla scrittura.

A ciò si aggiunga che la funzione poetica è in rapporto stretto con i nuovi nodi problematici (cui corrisponde un’omologazione mai accaduta prima tra “valori” e “disvalori”, esigenze di approcci realistici e distopie) che una società in continua trasformazione come la nostra di ormai “ex primo mondo occidentale” pone con forza sempre più accentuata in primo piano: il clima, le guerre, l’istruzione, una medicina e una scienza davvero per tutti, l’attitudine maschile al femminicidio, le migrazioni, i colonialismi sempre più diffusi perpetrati dalle cosiddette “grandi potenze” nei confronti di paesi, popoli, lingue circostanti, il bisogno complessivo di un’ecologia (delle menti prima ancora che degli ambienti o delle risorse energetiche o delle connessioni fra l’umano e l’animale) che coinvolga tutto il pianeta e non sia più settoriale (cioè appannaggio solo dei più ricchi e istruiti), la perdita d’incisività del suffragio universale, sempre più orientato ad affidarsi a sistemi totalitari ed esplicitamente neofascisti. Tutti questi elementi compongono un quadro di realtà molto problematico e quasi sempre contraddittorio con il quale una poesia che ormai non fa più parte del Letterario come lo intendevamo nei secoli passati ma guarda piuttosto all’Antropologico un po’ deve e un po’ vuole fare i conti: da questo punto di vista, la radicale discrasia fra l’Economico e il mondo poetico può trasformare in atout una penuria tanto estrema entro un mondo soggiogato dal denaro e dall’ansia del possesso. Io sono davvero convinto che oggi niente meglio della poesia possa incidere sul destino civile e sull’autoconsapevolezza di una società contemporanea che possa riprendere a definirsi e in qualche modo riconoscersi giusta. Ed è plausibile che questa “rinascita” etica possa prendere le mosse da una pratica poetica di massa (e in quanto tale destinata a una vita di superficie) che tuttavia, qualora venga plasmata e incanalata verso le profondità “verticali” occupate dai bituminosi territori dell’onirico, può fornire qualche buona medicina dell’inconscio e dell’interiorità, permettendo ai suoi adepti di guarire dalle malattie purtroppo assai diffuse del narcisismo e del solipsismo.

Allo stesso modo, questo vantaggio potrà facilitare anche il rapporto (che è in realtà una contraddizione) fra l’ansia di autofiction che pervade gran parte dei testi poetici “spontanei” e la condivisione di esperienza che deve necessariamente coinvolgere un Altro/Altra-da-noi. Com’è naturale, tale condivisione è destinata ad avvenire a distanza di spazio, di tempo, talvolta di lingua. Ma, se di buona stoffa, un messaggio poetico non meramente confessionale, bensì di slancio insieme emotivo e conoscitivo, darà luogo a un’esperienza affettiva e politica, proprio perché estranea ai gravami di ideologie definitivamente archeologiche. In questa chiave, sono integralmente d’accordo col bravo poeta spagnolo Alfonso Brezmes (classe 1966), edito in Italia da Einaudi, quando dice: “Il poeta – mi dici – è un’anima carica di passato. La poesia – ti rispondo – è quel luogo del futuro che io ho scelto perché tu viva.”

Come un animale
non morirò di freddo
né di fame

Di sete, piuttosto,
o di zanzare,
se non prima di Covid-19
o di guerra nucleare

Nei suoi versi il tema della morte ricorre e si manifesta come se la poesia stessa si rivelasse il principale strumento di studio e conoscenza di questo argomento. In che modo nella poesia la morte e i morti si incontrano con la vita e i vivi?

Certo, le due soglie davvero metafisiche con le quali ogni vera poesia è destinata a confrontarsi sono l’Amore e la Morte. Infatti – quando si parla di poesia – la parola assume una dimensione apotropaica, predisponendosi a far riecheggiare nei testi più riusciti (basta pensare a Dante, alla “selva oscura” che si situa al principio della nostra tradizione in lingua di sì) la voce dei morti. Della prima volta che ho percepito in modo drammatico la consapevolezza del destino di morte che tutti ci accomuna conservo un ricordo molto preciso ed è un ricordo che precede il mio innamoramento per la poesia. Avevo 8 o 9 anni, quindi doveva essere il ’63 o il ’64, e stavo sul divano del tinello in braccio a mio padre, quando scoppiai in un pianto dirotto. Lui in casa spesso stava con la canottiera, nei mesi primaverili o estivi, e quindi ho un ricordo preciso del suo collo e della spalla nuda, da cui a un certo punto sollevai la testa, già in lacrime, lo guardai in faccia e gli dissi: “Papà, ma è vero che dobbiamo morire tutti? E quindi morirai tu e morirò anch’io?”. Lui mi rispose che era vero e che a tutti noi sarebbe toccato un giorno di morire, tanto che io continuai a piangere in modo ancora più violento. Quindi la prima sensazione di morte fu autoindotta dal mio rimuginio mentale e non provocata da uno specifico evento luttuoso.

Per quanto riguarda il gusto cui si può associare il senso della morte, penserei a un tè molto forte, di quelli che poi ho imparato a bere in tempi più recenti, tipo il tè nero, oppure sicuramente a una vodka, che, infatti, è un liquore che non amo particolarmente e che cerco di evitare (non sempre riuscendoci) proprio perché con la sua secchezza e questo suo bianco di ghiaccio, questa trasparenza assoluta, mi fa pensare alla morte. Come colore, il nero, per l’appunto. Vado nell’ovvietà del luttuoso, che coinvolge il colore della mia stessa automobile, ma che, tutto sommato, non amo. Non amo non tanto su me stesso perché se mi capita di portare dei jeans neri, o una maglia nera, non ho nessun problema: non lo amo come colore di moda. Il fatto che mia moglie e le sue amiche, quando vogliono sentirsi eleganti, si vestano integralmente di nero è una cosa che io contesto fortemente e mi vengono in mente i colori che invece usavano nell’antica Roma o nelle corti durante l’autunno del Medioevo, che erano colori vivi, rossi, turchesi, verdi… Nondimeno, perfino gli emblemi della nostra idea di classicità, le statue e i bassorilievi di Fidia, nel mondo greco, erano tutti colorati in modo molto vivace (ori, turchini, porpore), così come segno di distinzione, nella Firenze medicea e rinascimentale, era portare degli abiti molto colorati, simboli di raffinatezza perché era più difficile reperire i colori. Anche nel femminile mi piacciono molto gli abbigliamenti colorati. Il nero come abbigliamento di moda e di distinzione mi mette tristezza.

Nella mia vita interiore, la presenza della morte non è affatto saltuaria. Negli anni, confesso di aver maturato un’angoscia violentissima nei confronti della morte e dell’idea che tutti dobbiamo morire: cioè non sono affatto cambiato, da quel pianto primario, esploso nel mio tinello modenese, cui accennavo poco fa. Anzi, mi sorprendo, in giorni particolarmente cupi, a fare una specie di conto alla rovescia di quanto mi rimarrà ancora da vivere: anche perché ultimamente molti amici cari o sono morti o versano in situazioni di salute decisamente rischiose. Negli ultimi anni, per esempio, mi è capitato di andare a trovare all’ospedale un amico vero, con cui ho fatto molti viaggi familiari, di coppia, sia a Parigi che in Maremma, che ha vissuto un’esperienza di leucemia fulminante e ha dovuto seguire protocolli di cura pesanti e rigidi, in attesa di un trapianto di midollo. Alla fine, il trapianto è andato bene e l’amico è guarito, ma in ogni caso, sì, io continuo a essere ossessionato dalla morte, ci penso tutti i giorni e cerco, in qualche modo, di esorcizzarla. In proposito, sono assolutamente convinto che l’unico modo sensato, umano, per esorcizzarla siano le soglie sempiterne, le frontiere di metamorfosi e di transfert, insomma l’Eros e la Poesia. E la poesia è oggi per me un appiglio decisivo: anzi, lo strumento umano che meglio mi permette di elaborare l’esperienza del lutto e di difendermi dall’insistenza sempre più ingombrante dell’idea di morte. La realtà del mio soffrire di vertigini e del terrore anche solo di affacciarmi a un primo piano è legata al fatto che, naturalmente, sento affiorare con prepotenza il desiderio di buttarmi di sotto. Avverto in quei momenti un’attrazione del vuoto davvero fortissima e non è un problema di orecchie o di equilibrio nell’orientamento. È un problema psicologico di attrazione alla morte, per annichilirne la pervasività del pensiero.

In me, ma soprattutto nel mio rapporto con la poesia (lo ripeto, più letta che scritta), non è mai rimosso il dialogo con i morti, nel senso che l’angoscia di cui sto dicendo non mi impedisce mai di parlarne, attraverso la poesia, anche se, ovviamente, cerco sempre di guardare la realtà con occhio molto lucido. Ritengo che la poesia sia lo strumento più potente che abbiamo per far parlare i morti e per dialogare con i morti. Spero che, magari, proprio loro, i più cari, i nonni i genitori le amiche e gli amici sopravvivano ancora per qualche anno dopo la mia morte attraverso alcuni versi e che, in qualche modo, se non altro il mio fiato, la mia voce, possano anche solo flebilmente far riecheggiare nel profondo di qualche coscienza aperta davvero all’ascolto le loro esperienze, i loro nomi, i loro profili attraverso l’aria dei vivi: di certo non preconizzo una sopravvivenza decennale, o centenaria, o millenaria, ma una sopravvivenza minima, di qualche mese, di un paio d’anni: mi farebbe molto piacere, naturalmente comprendendo anche me stesso in questa sopravvivenza lieve, non invasiva né tombale, ma acustica, viva, vocale.

…il problema è come
dopo la morte riascoltare
chi di una storia ci ha svelato
i dedali infiniti delle tane
intanto che i parchi
gli incroci i profili delle case
urlano implorano piangono
tutte le sagome più care

Può parlarci del ruolo della memoria nella sua attività di scrittore, e quindi anche del rapporto con la materia autobiografica e il ricordo delle esperienze vissute?

Nel contesto storico-sociale di oggi, la poesia è più importante leggerla che scriverla. Più importante ancora sarebbe imparare a leggerla, impresa difficilissima perfino per gli addetti ai lavori: infatti, se ognuno di noi conducesse un vero esame di coscienza, si accorgerebbe che nella suddivisione attuale del tempo quotidiano l’occasione per una lettura piena e liturgicamente concentrata risulta sempre più ristretta e difficile. La lettura infatti è spesso più ostacolata che favorita dal contesto nel quale ci si trova anche professionalmente ad agire: a maggior ragione se si svolge il mestiere di insegnante.

Leggere davvero una poesia (meglio precisare: una grande poesia) implica sempre un atto di riformulazione interiore e dunque di rilettura: e sollecita l’affinamento di una dote specifica (da applicare al linguaggio) di orecchio musicale e di competenza espressiva, retorica, metrica. La poesia è infatti un atto linguistico nel quale al significato referenziale degli enunciati si somma tutta una serie di strategie espressive che coinvolgono l’ordine delle parole, le strutture allitterative e fonosimboliche, la dislocazione degli accenti lungo il filo del discorso, gli effetti di parallelismo grafico e sonoro (rime, assonanze, consonanze), la suddivisione metrica che – in tempi di verso libero – tende a organizzarsi secondo un’accettabile suddivisione del recitativo, la qualità spiazzante dei cosiddetti tropi, che si danno quando il linguaggio sostituisce i termini propri con termini che provengono da campi semantici diversi rispetto a quelli che richiederebbe una logica consequenziale: metalessi, metonimie, sineddochi, soprattutto metafore.

L’effetto di queste energie aggiuntive rispetto al semplice “contenuto” del testo poetico (e letterario in genere) e alla sua organizzazione tematica hanno il fine di potenziare la parte emotiva, suggestiva e infine immaginativa propria del messaggio poetico. Lo dice già Leopardi, meglio di ogni altro, quando nell’Infinito elenca una serie di percezioni sensoriali, intessute di “spazi”, “silenzi”, “quiete”, concludendo “io nel pensier mi fingo”: in questa formula, risiede l’essenza stessa della compiuta ricezione poetica, affidata all’opera ri-creatrice dell’immaginazione individuale, esperienza somma di piacere, di condivisione e di trasformazione dell’emozione sensoriale in conoscenza, per una congiunzione finalmente compiuta di corpo e pensiero.

Tutto questo ha direttamente che fare con la memoria, che – non dimentichiamolo mai – è necessariamente composta anche di oblio: altrimenti non potremmo vivere. La memoria poetica non è qualcosa di passivo o acquisito una volta per tutte: piuttosto è uno strumento dinamico e in continua evoluzione, nel cui dominio rientra anche quel fenomeno meraviglioso che è la memoria involontaria, tanto legata ai sensi corporali solo in apparenza “minori” rispetto alla vista e all’udito: il gusto, il tatto, l’olfatto. Ma la memoria, in un poeta, è anche letteraria, oltre che storica, familiare, personale. E lì si affacciano i traumi, le ossessioni, i tabù, vale a dire tutti quei sintomi che proiettano nel linguaggio della poesia anche le attitudini meno visibili del nostro inconscio.

Ha un odore, credimi, il passato
quando torna nell’eco di una voce
covo e rogo di polvere
in fuga non appena piove
come oggi sui muri le lucertole

 

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2 Commenti

  1. Abbiamo della poesia la medesima idea, o quasi. Tu lo dici con più precisione analitica, professionale concisione e competenza linguistica delle figure retoriche. Et alia: per esempio il rapporto con l’animale gatta, che è anche per me l’unico desiderabile, ma al quale non permetto quasi mai di passare dalla mia contemplazione all’interazione. Ma resta che pensiamo la morte come segno determinante del vivere, e angoscia virilmente riconosciuta/esorcizzata. Non è certo un sentimento esclusivo, o raro ad ogni modo, per la poesia che penso maggiore; senza questa nota cupa, intera, assordante dentro e silente all’esterno, che è il pensiero della morte (e dell’amore, ma in seconda) la poesia scolorirebbe, ingiallirebbe, si riempirebbe di tic nevrotici. Mi auguro altre occasioni di scambio e di maggiore scavo. Intanto buone cose

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ornella tajani
Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa prevalentemente di studi di traduzione e di letteratura francese del XX secolo. È autrice dei libri Tradurre il pastiche (Mucchi, 2018) e Après Berman. Des études de cas pour une critique des traductions littéraires (ETS, 2021). Ha tradotto, fra vari autori, le Opere di Rimbaud per Marsilio (2019), e curato i volumi: Il battello ebbro (Mucchi, 2019); L'aquila a due teste di Jean Cocteau (Marchese 2011 - premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012); Tiresia di Marcel Jouhandeau (Marchese 2013). Oltre alle pubblicazioni abituali, per Nazione Indiana cura la rubrica Mots-clés, aperta ai contributi di lettori e lettrici.
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