Creazione di sé e progetto democratico
Devo ringraziare Ferruccio Andolfi, curatore di un volume appena uscito, Individualismo solidale. Una nuova immagine dell’utopia (MUP, 2023), per avermi dato la possibilità di ripercorrere attraverso il saggio che qui presento gli autori che sono stati fondamentali per pensare la società in cui vivo e alcuni dei suoi conflitti maggiori. Si tratta sopratutto di filosofi: Wittgenstein, Castoriadis, Descombes, ma anche antropologi come Louis Dumont o scrittrici come Léonora Miano.
Il volume curato da Andolfi, tratta dell’individualismo solidale, ossia di una prospettiva che riconosce l’irreversibilità della valorizzazione degli individui avvenuta in epoca moderna, ma ammette insieme la possibilità di conciliarla con istanze sociali di generosa reciproca dedizione. Nello stesso volume, si ritrovano interventi di Rino Genovese, Paolo Costa, Ugo Cornia, Italo Testa, Maria Borio, Charles Larmore, Francesca Sofia Alexandratos, e altri/e.
di Andrea Inglese
Siamo nati moderni, cioè individualisti
Cosa significa venire al mondo in una società individualista, in una società che concepisce se stessa attraverso l’ideologia dell’individualismo, ossia cosa vuol dire venire al mondo in una società che ha conosciuto la modernità occidentale? Prima o poi, chi nasce e cresce in essa sarà confrontato a un ideale forte, quello della realizzazione di sé. Gli individui empirici sono sempre esistiti e sono stati considerati, in ogni società, come agenti autonomi. Un agente autonomo, ad esempio, è un agente che è in grado di poter non eseguire un ordine che gli viene impartito, dando una spiegazione più o meno persuasiva di questa sua decisione (o non dandone, al limite, nessuna). Gli individui della società individualista sono individui in questo senso, ma lo sono anche in un altro: sono individui normativi, ossia hanno il compito di realizzare se stessi al di fuori del tessuto di appartenenze e di ruoli sociali che acquisiscono nel corso della socializzazione. In che rapporto questo aspetto ideale sia con l’aspetto fattuale dell’ordinaria autonomia degli individui non è qualcosa di molto chiaro, e ha suscitato vaste riflessioni sia nell’ambito delle scienze umane che in quello della filosofia. Più in generale, l’ideologia individualista fa leva su una serie di presupposti che accompagnano e rafforzano gli ideali che abitano l’individuo normativo, ossia l’individuo che deve innanzitutto esistere per sé, prima di esistere per gli altri. Questi presupposti non sono identificabili attraverso una chiara e coerente lista di nozioni. Stiamo considerando elementi di una configurazione ideologica, che ha finito per imporsi nelle società occidentali attraverso un certo numero di secoli. A questa configurazione hanno contribuito le formulazioni individuali dei filosofi, in modo particolare le loro dottrine del “soggetto”, della “coscienza”, della “ragione umana”; le diverse scienze sociali, elaborando metodi di ricerca incentrati sulla “realtà” dell’individuo; la letteratura stessa, almeno dal XVIII secolo in poi, esplorando attraverso sia generi ereditati sia forme radicalmente innovative l’immagine di un individuo ordinario sempre più estraneo nei confronti della società in cui vive.
Di questa estraneità tra l’io e il mondo sociale, noi contemporanei siamo diventati a tal punto esperti, che la consideriamo spesso un dato di fatto, giudicato a seconda dei casi come una calamità storica o, all’opposto, un punto di partenza inevitabile per affermare, in quanto individui, la nostra identità autentica nei confronti di una collettività minacciante. L’ironia dell’epoca presente vuole, però, che non siamo ancora usciti da un paradosso che già i nostri predecessori moderni ben conoscevano: se l’individualismo liberale ha trionfato, con tutti i corrispettivi vantaggi (autenticità, autoespressione, realizzazione di sé, rivendicazioni di differenze) e svantaggi (narcisismi, solipsismi, egoismi, competitività illimitata), come mai non si sono dissolte con esso le ombre di un condizionamento sempre più capillare delle menti e dei comportamenti individuali da parte di strutture di potere, megamacchine sociali, istituzioni tentacolari? L’incarnazione forse più evidente di questo paradosso è costituito dall’ambivalenza che ogni persona sperimenta nel suo rapporto con le piattaforme digitali e i social network: occasione ideale di una libera espressione di sé o tentazione irrefrenabile di narcisismo, ma anche, contraddittoriamente, pericolo di dipendenza (e alienazione) nei confronti del dispositivo tecnologico o addirittura di manipolazione da parte di algoritmi che selezionano contenuti in modo imperscrutabile.
La contraddizione apparentemente irrisolvibile tra libera volontà individuale, da un lato, e condizionamento più o meno consapevole da parte delle strutture di dominio, dall’altro, ci obbliga se non altro a uscire dall’illusione di una società che avrebbe la forma di un contratto stipulato tra individui già pensanti e agenti in una realtà definita. Come tutti, ho creduto in gioventù di possedere una vita interiore e personale da dover preservare contro un mondo di istituzioni repressive e di forme linguistiche stereotipate. Come tutti, in altre parole, sono stato affascinato dalla figura del poeta “lirico”, indipendentemente dall’aver scelto di praticare io stesso la scrittura poetica. Ho accolto, insomma, con slancio e adesione gli ideali espressivisti dell’individualismo. E ho impiegato, poi, parecchi anni per giungere a dissipare un certo numero di malintesi intellettuali legati ad essi e, più in generale, al paradosso tipico dell’individuo moderno, sospeso tra pienezza assoluta e annichilimento.
Olismo antropologico e democrazia occidentale
Se il Wittgenstein delle Ricerche filosofiche costituisce il punto di partenza di tale processo di chiarificazione, l’opera del filosofo francese Vincent Descombes ne risulta per certi versi il punto d’arrivo. In Descombes, l’eredità wittgensteiniana è combinata con il pensiero delle “significazioni immaginarie” di Cornelius Castoriadis, con la scuola francese di sociologia di Marcel Mauss e con l’antropologia comparativa di Louis Dumont. Questi molteplici riferimenti gli permettono di elaborare un approccio olistico e quindi radicalmente critico nei confronti dell’ideologia individualista. Il funzionamento di una società – inclusa la nostra, moderna e occidentale –, non può essere spiegata attraverso l’immagine che ne fornisce una tale ideologia. Solo una totalità di senso, un mondo di significazioni comuni e di pratiche adeguate ad esse, un intreccio di giochi linguistici e di forme di vita, solo uno “spirito oggettivo” così costituito può permettere la formazione di esseri umani che, oltre al fatto di essere individuati, sono anche in grado di acquisire, attraverso il processo di socializzazione, una loro autonomia di agenti. Non è possibile suppore degli individui, intesi come soggetti dotati di bisogni definiti e di una ragione funzionante, prima dell’intervento delle istituzioni linguistiche e sociali all’interno di un dato mondo storico. “La società non può fare altro, in primo luogo, che produrre individui sociali che le sono conformi e che la producono a loro volta”[1]. Se questo è vero, l’individuo alla ricerca del proprio sé autentico, l’individuo che si oppone alla società inautentica, dovrà ridefinirsi come un essere che ha acquistato la sua umanità grazie a un tipo antropologico, del quale assume finalità ultime e modalità espressive, entrando a far parte di una totalità sociale, già articolata in ruoli complementari. Dobbiamo allora considerare che è la società a fornire all’individuo tutti i valori che gli permettono di emanciparsi proprio da essa. Ma se formuliamo il legame individuo moderno-società in questi termini, rischiamo di uscire da un paradosso per gettarci in un altro: in che modo la società formerebbe degli individui, affinché essi finiscano con negarne le istituzioni e l’esistenza stessa?
È ancora Castoriadis che può venirci in aiuto: ciò che definisce una società democratica non in senso puramente procedurale, ma sostanziale, è il riconoscimento del potere istituente che individui e collettività esprimono attraverso la lingua e gli usi innumerevoli che caratterizzano una certa cultura. Solo a partire da esso, potrà venir concepito un potere costituente, ossia la scelta e l’applicazione di un certo sistema legislativo. (“Le legislazione non può creare la lingua nella quale sarà elaborata, e tantomeno può creare i costumi grazie ai quali essa non resterà lettera morta”.[2]) La particolarità delle società occidentali consiste, quindi, nell’aver reso esplicito questo potere istituente, e nel difenderne l’espressione concreta attraverso un regime politico specifico, che è quello delle attuali democrazie. In questa “cultura democratica” viene riconosciuta all’individuo singolo la possibilità di far valere una sua autonomia, ma quest’ultima ha senso esclusivamente in rapporto all’eredità culturale che gli è stata trasmessa e in cui è stato educato. In questa prospettiva va inteso, allora, un ideale di realizzazione o espressione di sé: l’agente autonomo, che tutte le società anche gerarchiche, tradizionali e pre-moderne hanno conosciuto, è invitato ora, nelle democrazie contemporanee, a individualizzarsi, ossia a ricevere criticamente l’eredità di valori, usi, discorsi che lo hanno preceduto e in parte costituito. Questa individualizzazione è meno una richiesta di riconoscimento che il singolo indirizza a una collettività, che una creazione di sé rivolta al futuro, una creazione che si realizza attraverso i ruoli e le appartenenze stabilite, ma anche al di là di esse. L’apertura al divenire socio-storico non è solo l’accettazione di un processo inevitabile e in gran parte collettivo e inconsapevole, ma è anche la partecipazione attiva e consapevole ad esso a livello individuale. La domanda di riconoscimento presuppone che, colui o colei che la formula, possegga già la sua fisionomia differente, mentre la creazione di sé implica rischi e incertezze negli esiti di tale processo.
Vorrei / m’immagino / sono persuaso d’incarnare un nuovo tipo di padre (o di marito o d’insegnante), ma in fin dei conti gli altri considerano che mi comporto come tutti i padri che mi hanno preceduto e mi circondano. Oppure gli altri possono sì accordarsi nel riconoscere la novità del mio comportamento, ma esso si traduce per loro in azioni insensate o contraddittorie, impossibili da assumere come modelli alternativi. Nulla garantisce che una creazione di sé, così intesa, possa riuscire, ottenendo quindi adesione e radicamento nelle pratiche sociali. Quello che non si può certo immaginare è una creazione di sé, individuale o collettiva, che si ponga magicamente al di là delle istituzioni esistenti e che sia in grado di esprimersi in una lingua radicalmente nuova. Per misurare il proprio grado di riuscita, una creazione di sé deve presupporre delle istituzioni, rispetto alle quali marcare la propria differenza, così come un discorso comune, di cui innovare e riarticolare alcune “province”. Le fantasie degli anarchici (e anche del marxismo più ortodosso) finiscono per collimare con quelle dell’individualismo liberale più oltranzistico: la società (post-rivoluzionaria per Marx) non è altro che una libera associazione di individui, in grado di decidere intersoggettivamente (per accordo reciproco) il senso di ogni loro atto e di ogni loro parola. Ma un tale scenario è antropologicamente e sociologicamente insensato.
Se vogliamo difendere la possibilità per gli individui di individualizzarsi, se vogliamo difendere l’idea che la creazione di sé possa rimettere in discussione le leggi che ci siamo dati, e quindi anche gli usi e le forme linguistiche, dobbiamo difendere innanzitutto le istituzioni democratiche, l’educazione democratica per i nostri figli, la lingua comune, all’interno delle quale, per altro, avvengono comunque innovazioni e invenzioni. E ciò significa riconoscere le molteplici appartenenze che ci rendono membri effettivi di una totalità che ci trascende. Possedere le prerogative, quindi, di un individuo democratico, implica innanzitutto essere cittadini, ossia membri di una comunità politica e di uno Stato determinati. Riconoscersi come cittadino – scrive Descombes – corrisponde “al momento in cui l’individuo deve riconciliarsi con il suo essere sociale”[3].
Le nostre democrazie han poco di democratico, si dirà. Nei fatti funzionano piuttosto come regimi oligarchici. E inoltre, nonostante l’insegna “democratica” che esibiscono, praticano discriminazioni molteplici, di genere, di orientamento sessuale, di razza, ecc. Tutto questo è vero, ma la democrazia, nel suo significato forte, sostanziale, che è quello difeso da Castoriadis, andrebbe considerata come un progetto da realizzare, non come un insieme di norme e istituzioni di cui siamo già stati dotati una volta per tutte, e di cui si dovrebbe solo garantire il buon governo. Ma lo stesso si potrebbe dire – come dicono per altro certi costituzionalisti – della carta costituzionale italiana: essa è un progetto, non solo qualcosa di dato definitivamente, e che eventuali modifiche o riforme potrebbero compromettere. Se dunque la condizione perché davvero si possa parlare di autonomia e di creazione di sé individuale risiede in una democrazia sostanziale, allora l’individuo dovrà differenziarsi dagli altri individui e, nello stesso tempo, rendersi solidale ad essi nel progetto democratico, in quanto cittadino tra i cittadini.
Constatare che il progetto democratico è incompiuto, e seriamente minacciato, non può comportare una semplice reazione di discredito (“la democrazia è una pura finzione che occulta le reali forme di dominio”, ecc.), in quanto è il progetto più avanzato culturalmente e politicamente che abbiamo sul piano storico-antropologico; esso coincide con il progetto di autonomia, di riconoscimento cioè che le norme che ci diamo non vengono né da Dio, né dalla natura, né dalla ragione umana universale, né della leggi della storia, ma dalla comunità umana e dalle sue istituzioni determinate.
Questo discorso, quindi, non ha valore solo per coloro che già posseggono il privilegio della “piena cittadinanza”, in quanto individui occidentali di una democrazia occidentale. Su questo punto, la scrittrice e militante Léonora Miano, di nascita camerunese ma di cittadinanza francese, è stata magistralmente esplicita. In un passo di Afropea, un saggio del 2020, si rivolge a tutti gli afrodiscendenti che vivono in Europa, e che fronteggiano situazioni di razzismo e discriminazioni istituzionali. Scrive:
Dal momento che non si riesce ad essere lì, non si può essere di nessun’altra parte al mondo. È perfettamente possibile ricusare l’occidentalità, combatterla come fa Afropea. È possibile dire no alla supremazia bianca, indicando, nello stesso movimento, che si è nati proprio su questa terra europea e, dal momento che è andata così, e dal momento che ciò deve voler dire qualcosa, ci si dà come missione di disoccidentalizzarla. La legittimità di una tale ambizione impone questo: bisogna appartenere. Senza ammettere il nostro legame con una società, con tutti quelli che la compongono, è impossibile chiederle conto, spingerla a trasformarsi.[4]
Per comprendere appieno il ragionamento di Miano, dobbiamo chiarire un punto: ciò che chiama “occidentalità” non riguarda in toto la cultura occidentale, ma una sua componente specifica, che Castoriadis per primo aveva ben isolato: l’espansione illimitata del dominio “razionale” sugli esseri viventi e sul mondo. Questo desiderio di espansione illimitata non è un’invenzione della società occidentale, ma esso ha trovato nel capitalismo la sua forma storica più efficace e perniciosa. Capitalismo – come progetto di espansione e controllo illimitati – e democrazia – come progetto di autonomia – non sono però “significazioni immaginarie” intrinsecamente legate, anche se, nell’evoluzione della società occidentale, si trovano a coesistere. A confortare l’analisi di Castoriadis, vi è il discorso di Miano, che si pone nella prospettiva dei “nuovi arrivati” in Europa, ossia di coloro che, venendo dalle antiche colonie dell’Africa, si sono ritrovati a vivere in un universo politico e in una cultura, in cui non tutto era da rigettare come nocivo o inservibile per creare una propria nuova identità. Anche per i non-europei che si sono ritrovati a vivere sul suolo europeo, l’eredità occidentale è apparsa composita, oltreché contraddittoria. In essa c’erano cose contro cui combattere, ma anche cose di cui servirsi.
I cittadini occidentali – sia individualmente, sia per gruppi minoritari o discriminati – che criticano l’occidente, devono riconoscere almeno due cose, affinché la loro critica abbia qualche possibilità d’incidere durevolmente sulla società in cui vivono. La prima riguarda la salvaguardia di quel progetto di democrazia, che costituisce la legittimazione non solo a livello di procedure, ma anche di attitudini incarnate, di quelle stesse critiche rivolte alla tradizione e alle istituzioni. Se chi critica non lo fa per un religioso rigetto della società terrena in cui vive, come accadeva nel caso degli anacoreti, allora deve sapere non solo cosa rifiutare della cultura e delle istituzioni, ma anche cosa sceglie di difendere e salvaguardare. La seconda cosa, diretta conseguenza della prima, è l’accettazione dell’appartenenza alla società di cui si criticano le istituzioni, e quindi l’accettazione della cittadinanza all’interno di una totalità sociale e politica storicamente e geograficamente determinata.
In nome del genere umano, dell’umanità universale, si può di volta in volta pretendere di ampliare i criteri di cittadinanza, in modo da includere in una società degli individui che ne sono esclusi e che, quindi, non possono intervenire sulle decisioni politiche che li riguardano. Non si possono però difendere concretamente degli individui del genere umano, considerato come un’entità astratta, aleggiante al di sopra di Stati, frontiere, istituzioni precise nei confronti di cui, eventualmente, si potrebbero indirizzare rivendicazioni, richieste, critiche. L’essere umano nella sua pura generalità assomiglia all’individuo nella sua pura singolarità: entrambi esistono al di fuori della totalità sociale storica e determinata, che sola, però, attribuisce loro i mezzi per condurre delle battaglie come soggetto politico.
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[1] Cornelius Castoriadis, « La démocratie comme procédure et comme régime », in La montée de l’insignifiance, Seuil, Paris, 1996, p. 270.
[2] Vincent Descombes, Les embarras de l’identité, Gallimard, Paris, 2013, p. 247. Si tratta di un passo in cui Descombes discute esplicitamente il concetto di potere istituente di Castoriadis.
[3] Vincent Descombes, Exercices d’humanité. Dialogue avec Philippe de Lara, Pocket, Paris, 2020, p. 211.
[4] Léonora Miano, Afropea. Utopie post-occidentale et post-raciste, Pluriel, Paris, 2021, p. 200.
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