La vanga di Velázquez
Questo saggio è incluso nel n°6 (2023) dei “Quaderni del PENS” dal titolo: L’esercizio dello sguardo. Poesia e immagini. Il numero curato da Fabio Moliterni contiene interventi di vari studiosi e autori (Francesco Muzzioli, Marilina Ciaco, Chiara Portesine, Riccardo Donati, Ugo Fracassa, Giulia Pellegrino, ed altr*).
di Andrea Inglese
Vi è una dimensione utopica nelle immagini pittoriche, e particolarmente in quelle che si basano sulla tanto criticata “illusione”, sull’inganno percettivo, ossia su quella “pittura retinica” che da Duchamp in poi è stata più volte condannata dagli artisti novecenteschi, concettuali o no. Vi è una promessa di felicità delle più banali: l’impermanente per eccellenza sarà permanente, verrà sottratto alla duplice temporalità che corrode sia l’oggetto guardato sia il soggetto che guarda. (A essere precisi, l’immagine pittorica non conserva tanto l’oggetto dipinto – una brocca, un viso, un sasso –, fagocitato una volta per tutte nella tela, quanto piuttosto lo sguardo che include quell’oggetto, e quindi anche il lato soggettivo, mentale, insomma il punto di vista di colui che guarda.) Questo lo fa anche la fotografia, ma in modo diverso, con la certificazione della medesima luce, come a dire: quello che si trova nell’immagine è un’estensione diretta di ciò che normalmente accade qui e vedi qui. L’illusione è ridotta, quasi abolita. Nella visione ordinaria e nella sua traccia fotografica siamo sotto lo stesso sole, dentro lo stesso mondo. Non così nell’immagine pittorica, che prende dalla nostra realtà occasioni d’incontro tra uno spettatore e uno spettacolo – almeno per quel che riguarda una certa tradizione artistica occidentale – per situarle, queste occasioni, in un mondo parallelo: quello delle superfici dipinte su tela. Insomma, c’è una specificità delle immagini pittoriche, che è ovviamente di natura tecnica e materiale, ma che ha conseguenze sulla loro dimensione utopica. Alla fine, anche la fotografia più sorprendente e spaesante, è una fotografia terrestre, fatta sotto la luce che ci investe quotidianamente. Le immagini pittoriche, invece, sono immagini di un altro mondo, e non ci stupisce che per tanto tempo siano state dedicate alla sfera di ciò che è sacro, remoto, ultramondano, dotato di apparenza simile alla nostra, ma di sostanza aliena, divina.
Questa alterità dell’immagine pittorica ha qualcosa dell’etere incorruttibile, di una sostanza in grado di riempiere e al tempo stesso conservare le figure, in una sorta di eterna giovinezza, una giovinezza, però, da mondo parallelo rispetto al nostro. La pittura funziona come l’ambra con gli insetti: una resina preistorica in grado di catturare oggetti e persone, trattenendoli attraverso milioni di anni nel suo succo traslucido. Vi è quindi un fascino delle immagini pittoriche che è irriducibile a quello delle immagini fotografiche di ieri e delle immagini elettroniche di oggi. È certo vero che, di rado, noi entriamo in contatto diretto con i dipinti, con una tela esposta allo sguardo per altro temporalmente limitato dello spettatore, quando invece siamo di continuo circondati, attraversati, da riproduzioni d’immagini dipinte. L’incontro, però, quando avviene, non si confonde con il consumo delle riproduzioni, semmai lo giustifica, lo motiva. Ho visto una sola volta, a oggi, La Fucina di Vulcano di Velazquéz, tela del 1630 e conservata al Prado di Madrid. Accadde molti anni fa: fu un incontro rivelatore – che era già stato preceduto da altri simili, e che sarebbe stato seguito da altri ancora. Ci sono incontri con singoli quadri che rivelano in modo più intenso e perentorio la dimensione utopica della pittura in generale. Guardando per la prima volta la Fucina di Vulcano rimasi ipnotizzato da tutto quanto si trovava al suolo, e fui ovviamente ipnotizzato dal suolo stesso, così come Velazquéz l’aveva reso, anzi inventato. Quasi subito persi interesse per le pur magnifiche sei figure che lo abitavano – Apollo, Vulcano e i quattro fabbri dell’officina – per concentrarmi sugli oggetti che erano posati a terra: un pezzo di pietra, una ciotola, alcuni martelli, un’incudine, una sbarra di ferro, il pettorale in metallo di una corazza… Nel mio ricordo c’è anche una vanga, ma essa non appare nella riproduzione a schermo che sto osservando. Ora, quella vanga fantasma – che appartiene forse a un altro quadro di Velazquéz, o che è scivolata nella Fucina, provenendo addirittura da altro autore, di altro dipinto e di altro tempo – ebbene quella vanga, frutto di un errore o di una creazione della mia memoria, racchiude in sé tutte le caratteristiche non più dell’immagine pittorica, ma del dettaglio dell’immagine pittorica. (E sappiamo la potenza evocativa dei dettagli. Ne ha scritto in maniera efficace Antonella Anedda: “Il corpo è davanti a un quadro. A un tratto un dettaglio ci attira tanto da farci avvicinare. L’intero quadro diventa resto. Il dettaglio è l’isola del quadro. Per vedere meglio dobbiamo trasgredire lo spazio, abolire ogni distanza ragionevole. Il desiderio disubbidisce, porta al delirio. Il quadro scompare. Lo ha inghiottito il buio. Resiste solo il dettaglio che ti ha fatto cenno. Ora è un mondo”. È quanto si legge in una delle prime pagine di La vita dei dettagli uscito per Donzelli nel 2009.)
Tocchiamo qui un livello ulteriore, uno strato di godimento e stupefazione specifico, rispetto a quello che abbiamo già evocato – l’esistenza in sé di un dipinto e dell’illusione che esso proietta nella nostra mente. Ma i due tesori sono connessi, lo sfavillio della Fucina, nel suo impatto percettivo globale, nella forza e nella sontuosità della sua composizione, si nutre dello sfavillio in seconda battuta dei dettagli, dentro cui lo sguardo può incespicare, rimanere intrappolato, e persino dirupare, come si trattasse di superfici scoscese. Ed ecco che quei martelli e quella ciotola, quel suolo che li sostiene e su cui poggiano, sembrano qualcosa di definitivo, gli esemplari concreti e insuperabili dei concetti che a essi corrispondono. Non ci sarà più bisogno di prendere in mano martelli, di continuare a usarli, di guardarli nelle loro fattezza concrete, di dipingerli nuovamente o fotografarli: sono i martelli ultimi, quelli che troveremo alla fine dei tempi, dopo la rivoluzione, dopo che il capitalismo sarà finito, e con esso le varie maniere di rendere sofferente, triste, forzato, l’uso di un martello.
Qui bisogna, però, introdurre il tema dell’ecfrasi; il tema del godimento che la mente prova nel dire un’immagine, nel convertirla e tradirla, nel trasformarla e inventarla, grazie al movimento delle parole. Ciò vale ovviamente per quell’enunciato verbale, che gode anch’esso di una caratteristica fondamentale dell’immagine pittorica, ossia l’essere incorniciato, inquadrato, ritagliato, in superficie, nel mondo, ma sganciato da esso. Alludo ovviamente all’enunciato poetico – sia esso in forma tradizionale di blocchi di versi (strofe) o meno tradizionale di blocchi di prosa. L’intimità storicamente certificata di poesia e pittura è data senza dubbio dal desiderio di figurare il mondo (l’inesauribile, l’illimitato) all’interno di superfici ridottissime (la tela, la pagina), dove convergono strati di colore e sequenze di parole. Su entrambi le superfici ritagliate, che sono parte del mondo, e nello stesso tempo pretendono di rifletterlo nella sua totalità, si gioca la medesima aspirazione utopica: l’annullamento del tempo, la fuoriuscita dalla storia. Quello che è visto (è detto), è visto (è detto) per sempre, perché nulla più necessita di essere aggiunto (si fermi il pennello, secchi il colore – sia posta l’ultima parola, si volti la pagina). Il movimento delle parole che dicono l’immagine è un movimento de-limitato; esso funziona poiché può a un tratto fermarsi, poiché giunge a compimento, a conclusione.
Si ricordi come termina la lunga frase che da sola costituisce l’intero testo intitolato L’image di Samuel Beckett (Minuit, 1988): “à présent c’est fait j’ai fait l’image”. Qui fare l’immagine (poco importa se mentale o pittorica) significa articolarla attraverso le parole, affinché sia possibile, però, giungere finalmente al silenzio, interrompere il flusso verbale, arrestare l’assillo (la pena) della “vociferazione”. Nella pagina del testo poetico, le parole si muovono, si dispongono, per ripercorrere l’immagine pittorica di cui sono responsabili, affinché possano giungere, attraverso di essa, grazie ad essa, alla medesima completezza figurativa che la tela esibisce, premendo un intero universo dentro i suoi quattro lati. L’obiettivo condiviso, l’abbiamo detto, è l’abolizione della storia, della temporalità, del disfarsi continuo di una composizione sotto le pressione degli eventi, ossia di ciò che, nuovamente e diversamente, accade.
In La ragione e i suoi eccessi (Feltrinelli, 2014), il filosofo Paolo Costa formula una definizione della felicità che ben si attaglia all’esperienza che sia la pittura sia la poesia (ognuna con i propri mezzi) tentano di perseguire. Scrive Costa:
La vera felicità consiste solo nel possesso di Dio, della verità, in una parola nella prossimità a qualcosa di atemporale, che consenta la sospensione e l’oltrepassamento della temporalità (in quanto deriva e dissipazione) in un attimo che permane (nunc stans). Il modello, qui, è evidentemente il presente della memoria: la fissità di un attimo che non può più essere diverso da ciò che è stato. Il superamento del tempo in un presente immobile, per così dire irrigidito e congelato.
Il presente della memoria assomiglia a quell’immagine né completamente soggettiva né completamente oggettiva, che trova il proprio luogo di fissazione materiale, tangibile, nell’immagine pittorica, sulla tela, da un lato, e nell’enunciato verbale delimitato della composizione poetica, sulla pagina scritta, dall’altro.
Come tutte le utopie, però, quella della pagina poetica che si propone di fare l’immagine, è fragile, ed esposta a catastrofe. Ed è qui che m’interessava arrivare, anche per mettere in relazione questa catastrofe con la mia pratica di scrittura. Il tentativo di dire un’immagine pittorica, perseguendo la felicità stessa che la resina intemporale del quadro esibisce, congelando per sempre e in forma compiuta i suoi oggetti, può in ogni istante rovesciarsi in un’esperienza opposta e assillante, quella dell’inesauribilità del dire di fronte all’inesauribile “spessore” delle immagini pittoriche. Detronizzati dal paradiso della fissità, del tempo sospeso, della compiutezza, ci ritroviamo nel purgatoriale e illimitato movimento dei personeggi beckettiani, e della loro vociferazione. In altre parole, quella “vita dei dettagli” di cui parlava Antonella Anedda si rivela un allucinato e travolgente pullulare di mondi, come se in ogni punto della tela si aprissero universi che reclamano la loro specifica traduzione verbale. Gli elementi della realtà che l’artificio pittorico aveva magicamente staccati da terra e congelati nell’ambra traslucida, precipitano ora nuovamente, moltiplicandosi e innescando continue derive, anche perché, oltre all’incontro istantaneo tra il quadro reale e lo spettatore in carne e ossa, s’insinua il flusso associativo della immagini simili, riprodotte, circolanti in rete, sugli schermi, i manifesti, le copertine dei libri, ecc. Ma questa deriva, provocata appunto dall’irruzione d’immagini parassitarie, che s’impongono cioè secondo meccanismi associativi in parte involontari, e che pescano nell’enciclopedia iconografica dell’autore, costituisce, allo stesso tempo, un magnifico motore, un incitamento forsennato al dire e al descrivere.
Il lavoro che ho realizzato in libri come Quando Kubrick inventò la fantascienza (inizialmente Camera Verde 2011 e poi in Ollivud, Prufrock spa 2018) o Commiato da Andromeda (Valigie Rosse, 2022), risponde a questa condizione di un’ecfrasi precipitante e inesauribile, che ha qualche vaga parentela con l’archeologia del paesaggio di Zanzotto. È un’archeologia delle immagini pittoriche e cinematografiche, ossia un assillante e illimitato inseguimento ecfrastico (ma anche meditativo e autoanalitico) dell’insolubile intreccio che le immagini instaurano tra loro (e dentro di noi) a partire dalla semiosfera. Questa condizione di “rintronamento iconico” può rivelare a suo volta un lato utopico, se concepito in termini di celebrazione dell’infinito spessore del mondo (e delle sue figure). La scrittura diventa allora testimonianza di uno spazio gremito di oggetti opachi e superfici traslucide, in cui è vano separare nettamente il dentro dal fuori, l’intimità autobiografica dall’intrusione del corpo estraneo, l’autentico dall’ideologico. Questo non significa, però, abolire tutte le gerarchie, i salti di scala, le differenze specifiche. L’immagine pittorica che s’incontra in modo diretto, nel fronteggiamento tra tela e spettatore (ad esempio La Fucina di Vulcano al Prado), è sempre avvolta in una nube d’immagini riprodotte, parodiate, derivate, ma non si confonde interamente con esse, in quanto mantiene la propria carica energetica determinata. D’altra parte l’incontro con un’immagine riprodotta, trovata in un catalogo, può avere una propria forza stregante e propulsiva, ed essere capace d’innescare quegli effetti a catena, che spingono la scrittura simultaneamente verso la propria memoria autobiografica e culturale, e verso nuove superfici di mondo.
Postilla sul Commiato di Andromeda
Il Commiato è un libro nato intorno al quadro rinascimentale di Piero di Cosimo, La liberazione di Andromeda. Al momento della scrittura, io potevo basarmi su un duplice ricordo: uno più remoto, riguardante l’incontro agli Uffizi con la tela medesima, e uno ben più recente, relativo alla sua riproduzione in forma di manifesto, che era diventata parte dell’arredo di un appartamento in cui vissi per diversi anni. A queste due relazioni con l’immagine pittorica, se ne è aggiunta poi una ulteriore durante la redazione del libro, basata sul ricorso alla sua riproduzione digitale, che potevo contemplare a schermo sul mio computer. Ogni specifico rapporto con l’immagine della Liberazione di Andromeda ha rinforzato quello successivo, fino a motivare un esercizio ecfrastico, che avrebbe assunto un ruolo strategico nel mio progetto di scrittura. Quello che mi preme mettere in evidenza, qui, a conferma di quanto scritto sulla dimensione utopica delle immagini pittoriche, è la possibilità di tradurre in una duplice direzione la carica di felicità insita in esse. La prima direzione è quella di cui ho lungamente parlato: l’immagine delimitata e incorniciata ambisce a riflettersi in una composizione in versi, a sua volta delimitata all’interno della pagina a stampa. Nel prosimetro del Commiato, questo accade. La descrizione del quadro trova dei momenti di coagulo in una serie di testi in versi: tre esattamente, nella quinta delle sette sezioni del libro (“Sono stato quello, chissà come”, “Perseo, sei tu, nuovamente”, “Andromeda non dà più segnali”). A questo movimento centripeto se ne oppone, fin dalle prime sezioni, un secondo, centrifugo e in prosa, sempre descrittivo, ma che si fa parassitare da altre immagini pittoriche o di diverso genere (fotografiche, fumettistiche, cinematografiche). Se l’ecfrasi del dipinto di Piero di Cosimo assume il carattere di una ricerca autoanalitica sulla propria esperienza amorosa passata, ma anche, più in generale, sui rapporti di coppia tra uomo e donna, la deriva che si viene a creare con l’intrusione di nuove immagini (la Santa Margherita, San Giorgio e il drago, ecc.) acquista valore e senso in sé, come felice digressione e oblio momentaneo della propria ossessione dominante. Ciò che conta, allora, in questa prospettiva, è la possibilità delle immagini d’innescare un “infinito intrattenimento” con la scrittura, ossia con la capacità di dire, di nominare e/o narrare il mondo al di fuori di ogni tema (limite) costituito.
Bello e molto interessante, Andrea. Ho spesso pensato a questo “infinito intrattenimento” tra immagine e scrittura, sia in forma di pittura, segno/disegno, che in forma di fotografia, ma anche di immagine “solo” vista e impressa, rovesciata nella retina. Credo peraltro che, per quanto la musica venga “scritta”, e dunque rimandi ad una vicinanza diretta con linguaggio e parola (in poesia o prosa), per quanto anche la musica e il suono siano legati o possano essere legati e in intrattenimento con la scrittura, pittura e fotografia abbiano con la parola un legame più forte, o comunque in un piano forse meno immediato ma più (pre)potente. Quando scrivo ho sempre la necessità di un sottofondo sonoro, altri ancora di assoluto silenzio – e in fondo è comunque un’esigenza opposta ma della stessa natura,
– eppure, appunto, se la dimensione del sonoro, del silenzio o del rumore sta “sotto” la scrittura, un basso continuo della e nella scrittura, (non è un caso, peraltro che spesso letture siano accompagnate da musicisto), il legame tra immagine e parola scritta apre o mi apre spazi di riflessione più articolati, meno immediati ma di alta carica elettrostatica. I miei primi esperimenti sono stati flussi di coscienza a margine di opere espressioniste: aprivo il libro di storia dell’arte, e, dicevo: “faccio uscire le parole dal quadro”. Perciò, che dire, felice di aver letto un testo che attraversa sia il pittorico che la parola.
In effetti Mariasole questo pezzo riusona in modo particolare con il tuo, “fotografico”, di ieri. In fondo la fotografia, esprime anche lei la fascinazione per la delimitazione e la fissazione del reale. Per me, l’immagine pittorica ha qualcosa pero’ di irrimediabilmente remoto o forse “alieno”. In ogni caso, m’interessa molto il tuo metodo di produrre dell’infinito intrattenimento, aprendo il libro di storia dell’arte, per “fare uscire le parole dal quadro”. Quello che mi colpisce sempre è perché si abbia bisogno di far uscire le parole da un quadro piuttosto che da un episodio reale, un’esperienza di vita. C’è una riserva di energia nelle immagini, riprodotte o no, fotografiche o dipinte, che il continuo svolgersi della realtà non posside, o possiede diversamente. Discorso a parte, bisognerebbe poi farlo per quelle immagini bizzarre, senza supporto certo, che sono i ricordi.