Perché un libro sul naif?
Marino Magliani intervista Roberto Carvelli
MM Perché un libro sul naif?
RC Sono partito – è un po’ la matrice della collana della Piccola Filosofia di Viaggio di Ediciclo, per la quale avevo già scritto una sorta di matrice di osservazione del viaggio urbano del flâneur, La gioia del vagare senza meta su cui mi ero più volte adoperato al vivo – da un discorso e da una parola. Qui naif. Sono partito da uno stigma, quello della semplicità. Inaccettabile in cultura, inaccettata in società. Anni fa ho sentito un signore giapponese essere incalzato da una domanda su una parola. All’ennesimo ‘in che senso?’ rispose così: ‘in senso di vocabolario’. Sono partito da un vocabolo che purtroppo ha dovuto essere registrato in questa omissione, “originale”. La naïveté è l’originale. La naturalità, per citare l’etichetta antica della nostra birra più nota. Il naif vive in natura. Forse siamo noi che viviamo in cattività e ci siamo disabituati a quell’osmosi con il mondo. L’ingenuità è lo stigma.
MM Parli poco di pittura ma a sorpresa molto di letteratura…
RC Ci sono molti scrittori che praticano, così come nella vita, non l’ingenuità, ma la naturalezza. Il lavoro meritorio di una casa editrice di Ladispoli, RFB, che ha fatto conoscere le prove di autori italoamericani come Pascal D’Angelo o Pietro Di Donato, e del suo bellissimo Cristo fra i muratori, si unisce al meraviglioso lavoro di intercettazione del personale autodidatta che fa l’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano – penso a Vincenzo Rabito che è il caso più di scuola di quanto il racconto di sé possa assurgere alla letteratura per la strada dell’improvvisazione “ad orecchio”. Poi mi sono permesso di recuperare il bellissimo lavoro poetico dell’abruzzese di Colledimacine Clemente Di Leo, di cui non si parla da un po’, purtroppo.
MM E poi mi ha colpito questa tua incursione nell’opera di Antonio Delfini…
RC Delfini non si potrebbe definire di per sé naif, ma mi sono permesso di unire i puntini di una cosa che avevo letto in Pianura di Belpoliti. Meglio, partendo da Cesare Garboli, annotato da Marco Belpoliti su Delfini. Mi vien da pensare che l’atto di scrivere in sé, credo che lo sappiano ingenui e non, genera da solo un’emozione. E Delfini la provava in un modo del tutto evidente e forse indecente. Leggendo questa cosa che scrive Belpoliti di Garboli ho pensato che lo scrittore “professionale” è uno che sa gestire e governare questo processo di riduzione o semplificazione dell’emozione creativa. È come se non fosse in grado di fingersi scrittore, per non tradire questa emozione perfetta e pura dello scrittore che in qualche modo non voleva inquinare. Magari era scrittore di racconti per questo, o magari per lo stesso motivo per cui lo era Carver – che lo scrive con più dolore – per aver troppo tempo impiegato nella vita. Ma ora per ribaltare la tua domanda, a sorpresa abbiamo parlato poco di arte.
MM Già, nel libro ce n’è pure tanta, come è logico.
RC Come premettevo la regola del gioco del libro (e della collana) è il discorso. Non è un saggio, non prova a esserlo. C’è molta osservazione e nello scrivere il libro mi è stato prezioso ritrovare e rivedere a Terni – si fa fatica a trovarlo e nel mio caso è passata una domenica abbastanza solitaria nell’esposizione – il lavoro di Orneore Metelli. Il modesto calzolaio che dipingeva in cantina e firmava con nome e cognome aggiungendo una scarpa forse come captatio benevolentiae. Il naif non finge, dipinge e manca alcune regole prospettiche, ma Metelli, per esempio, riesce a rappresentare il passaggio dall’agricoltura e dall’artigianato all’industria, dall’ufficialità all’intimo. In questo è naif: chi lo è manca le proporzioni, non sente il grande, non si fa intimidire dagli ingombri o dalla mancanza di tecnica. Poi, se dipinge la domenica per dirla con Conte, può essere in un museo o una collezione il lunedì rimanendo lo stesso calzolaio che era la settimana prima.
MM Ma tu metti anche la pulce nell’orecchio del falso naif…
RC Sì, spesso la voce naif è finita per essere imitata, una cosa tipica ad esempio dell’avanguardia post 63, anche interessante spesso. La mia è una chiamata alla verifica più che di identità di rispetto. Non si può cercare di essere un semplice e poi essere snob. Molta scrittura è stata ed è spesso imitazione di voce più che di sentimento. Nulla di male ma la naïveté vera, quella che andrebbe ricercata più che temuta, passa per un sentimento di purezza, più che della ricerca di una purezza fine a sé
mi è piaciuta, mi ha colpito l’espressione: la voce naif è finita per essere imitata…
Perché anni fa, forse quaranta, cinquanta, ci fu un momento in cui il naif, più che altro come pittore, montò nella moda e ci fu una specie di caccia al naifartista, italiano e non, anzi non trovandone più in Emilia, certi mercanti s’involarono in Bosnia in Croazia e Serbia alla ricerca di pittor allo stato naturale. Il fenomeno modaiolo fece sì che certi pittoruzzi italiani si gettarono a fare un certo naif/nazional/primitivo. E poi quasi tutto sparì nei magazzini della paccottiglia. In vero il nominato Orneore Metelli era di altra pasta, un vero pittore al suo stato naturale, come lo fu il benedetto Antonio Ligabue, tra coloro che vagarono nei territori senza confine dell’Art Brut o Outsider Art.