Futuro (sillabario della terra # 20)
di Giacomo Sartori
I danni che infliggiamo alla terra sono sempre meglio stimati, meglio documentati e più mediatizzati. C’è voluto che diventassero catastrofici, e che il clima impazzisse, perché si cominciasse a prendere atto che qualcosa va fatto. Ci sono voluti molti decenni, durante i quali chi metteva in luce gli effetti delle agricolture solo mirate ai redditi immediati era tacciato di incompetenza, di rifiuto della scienza, di velleitarismo, se non di oscurantismo, di esoterismo. Ora tutti sono d’accordo, almeno a parole, che bisogna pensare a non nuocere alla terra.
Le tecniche per ridurre o contenere i guasti al suolo ci sono, come a dire la verità c’erano anche prima, perché per millenni l’agricoltura ha imparato a misurarsi con i pericoli di degradazione. Tutte hanno in comune una grande attenzione alla sua salute e alla dotazione di sostanza organica. Non è quindi questione di mancanza di alternative. E nemmeno di carenza di risorse: spesso i costi delle soluzioni ecologiche non sono elevati. Si dice che producono meno, il che è vero solo in parte. Avendo l’accortezza di conteggiare anche i vantaggi ambientali annessi e connessi, si prospetta piuttosto un indiscutibile guadagno, sul lungo periodo. Si deve però uscire da quella visuale di paccottiglia che considera i suoli dei substrati inerti, dei supporti per uno sfruttamento che vede solo i guadagni immediati, valutando solo le rese a ettaro, senza monetizzare i danni e le azioni per correre ai ripari. Troppo comodo, e troppo grave.
La logica vorrebbe che per forza di cose ora si deva tornare a rispettare la terra e le sue esigenze. Ma le cose non sono così semplici. I colossi agroindustriali si affannano per sostituire i composti chimici, sempre più impresentabili, con prodotti più naturali, compresi batteri e funghi che possono rivelarsi utili. Per assodato vizio l’assioma resta quello di trovare la medicina miracolosa per una specifica malattia o uno specifico parassita, i coadiuvanti e le vitamine più promettenti, senza guardare all’insieme e ignorando le soluzioni già esistenti, rincorrendo esclusività e brevetti. Quasi in natura non ci fossero interconnessioni, e nelle coltivazioni non contasse più di tutto la prevenzione e la salute generale.
La loro ragione di esistenza resta quella di guadagnare il massimo, con qualsiasi mezzo e a qualsiasi costo. Ora vedono aprirsi un nuovo immenso fronte di potenziali guadagni, questa volta con il cappello del rispetto per l’ambiente e dell’high tech. Dove non hanno impedimenti, e cioè nella maggior parte dei paesi poveri, continuano imperterriti con la chimica durissima, facendo gli stessi danni con gli stessi composti messi fuorilegge dai Paesi più benestanti. La morale, il senso di responsabilità, o anche solo il buon senso non hanno alcun spazio.
E la scienza agronomica? Per altrettanto consolidata cattiva abitudine anche lei propone più spesso soluzioni puntuali, preferibilmente altamente tecnologiche, leggasi costose, piuttosto che cercare di mettere assieme tutti gli elementi in gioco, mirando a visioni d’insieme, cioè realmente ecologiche. Si piega alla religione delle nuove mirabolanti tecnologie, ben foraggiata dalle ditte che contano di guadagnarci sopra, e ignara di come funziona la natura, predica di avere soluzioni miracolo. Credo che si deva pensare a questo, quando si strombazza che c’è bisogno di più scienza e più tecnologie. Scienza e tecnologie possono fare molti e irreparabili danni, il recente passato dell’agricoltura deve servire da monito.
E cosa dicono gli agricoltori convenzionali? Temono le regole restrittive e i maggiori costi che accompagnano i cambiamenti in direzione ecologica, paventano un ulteriore rosicchiamento dei loro redditi, già molto ridotti. Considerano di doversi fare carico di enormi grane aggiuntive per fare contenti gli abitanti delle città, che non hanno idea di quanto sia complicato il loro lavoro. Sono sempre più a disagio, e spesso pronti a seguire caporioni populisti arroccati su posizioni becere, in combutta con le loro organizzazioni di categoria, altrettanto retrive, che negano danni e cambiamenti climatici.
Sono avvezzi a fare quello che i tecnici, formati nell’egemonia culturale dell’agrochimica, dicono di fare. Hanno perso l’abitudine di osservare la terra e a interpretare la sua salute, a prendere atto delle evoluzioni nel tempo, a ragionare e a avere voce in capitolo. Quando invece le vere soluzioni non impattanti, adatte alle infinità di situazioni – ogni micro-regione è diversa, e perfino ogni campo tende a esserlo – possono essere trovate solo con gli agricoltori che sono sul pezzo. Con la loro capacità di osservazione, la loro esperienza e la loro inventiva. La vera e forse unica agroecologia è questa, e solo questa.
Ma allora, mentre sono in corso questi sommovimenti di portata in realtà epocale, il comune mortale può fare qualcosa, può in qualche modo influire? Certo, può fare moltissimo. Può non dimenticare mai che la nostra esistenza è strettamente legata a quella della terra, e solo la follia nella quale ci siamo imbarcati può averlo rimosso dalla nostra coscienza. Può guardarla quando passeggia e quando viaggia, contemplandola come si contemplano le cose importanti, badando al suo aspetto e provando a immaginarsi se è contenta di come è trattata. Anche senza avere nozioni particolari può cercare di metterla in relazione con le rocce del posto, con le piante che fa crescere e con il paesaggio. Non occorre essere degli psicanalisti, per capire le persone e avere intuizioni al loro riguardo, per porsi delle domande. È la stessa cosa. Ma va benissimo, e forse è ancora meglio, un po’ di sana soggezione, liberandosi della nostra sete di spiegare e comprendere tutto.
E può fare poi mentalmente il legame, l’abitante della Terra che vuole convivere in pace con la terra, tra quello che mangia e i suoli. Pensando che tutti i vegetali – cereali, leguminose, verdura e frutta che siano – compresi quelli dei cornucopici banconi dei supermercati, vengono coltivati da qualche parte con metodi che possono essere più o meno impattanti per la terra. E quindi può scegliere di acquistare alimenti con i marchi biologici e biodinamici, pur sempre una gran bella garanzia, o provenienti da mercati locali dove l’impiego di metodi non nocivi si basa sulla fiducia, alla vecchia. Restando sui prodotti di stagione e meno sfiziosi la differenza di prezzo molto spesso non è grande. Molti marchi che di ecologico non hanno proprio nulla si sono fatti furbissimi, e tentano di abbindolare con questa e quella millanteria, gli zero residui e compagnia bella, ma con un po’ di accortezza si sgamano gli specchietti per le allodole, le fandonie e le imposture. Del resto basta dedicare un po’ di tempo per documentarsi, come lo si fa quando si compra un qualsiasi altro aggeggio. Perché non per il cibo? È forse l’atto militante più importante: i presupposti della devastazione sono l’indifferenza e l’ignoranza.
E può mangiare, il cittadino che vuole esprimere il suo dissenso per le agricolture devastatrici, pochissima carne. Gli animali, e in particolare i bovini, richiedono quantità enormi di alimenti, che requisiscono il grosso delle terre agricole mondiali. Derrate che possono nutrire gli uomini, terre che possono alimentare direttamente gli umani. Una grossa fetta dell’umanità è vegetariana, non è vero che la carne è necessaria. Ma si può benissimo mangiarla, basta che sia poca. In quantità ridotta gli animali fanno molto bene, con le loro deiezioni, alla terra.
Naturalmente poi ci sono le elezioni, e la politica: è nelle istanze istituzionali che le decisioni vengono prese, è lì che le grandi svolte possono essere finanziate. L’inerzia e il negazionismo ambientale diventano sempre più i grandi cavalli di battaglia delle destre e dei populisti, ormai è evidente. Ci sono le campagne di sensibilizzazione, le tante forme di militanza, le manifestazioni, e dall’altra la strapotenza economica e mediatica delle agroindustrie, la miopia delle organizzazioni degli agricoltori. Ci sono gli equilibri internazionali, le politiche europee e quelle mondiali, le sfere geopolitiche. Cosa serve che faccia attenzione io se altri non lo fanno, se la maggior parte dei governi assecondano i distruttori, se altri Paesi non fanno il contrario?, può legittimamente chiedersi il nostro amico della terra.
Contano invece anche le persone, è così che il movimento biologico è nato e s’è affermato. È cresciuto perché un numero crescente di agricoltori ci si è messo, mettendo a rischio i propri averi, adattandosi a redditi bassi, spesso creando tensioni in famiglia, e tutto ciò in barba ai detrattori e alla feroce guerra della quale sono stati vittime in tutti i Paesi. È diventato una realtà ineludibile, e paradossalmente anche un modello per l’agricoltura convenzionale, per molti aspetti, perché c’erano degli acquirenti disposti a comprare i suoi prodotti, anche pagandoli di più. Delle persone singole che hanno voluto associarsi a un’idea di cambiamento che si presentava come un‘utopicissima scommessa.
Pure adesso è così. Pure adesso contano anche gli acquirenti che fanno attenzione e che cambiano dieta per non fare troppo male alla terra, per provare a vivere in accordo con lei. Che si interrogano sulla nostra pazzia di non considerare le sue esigenze e sui prevedibilissimi esiti. Che si rendono conto che gli artificiosi prezzi bassi del cibo, e le misere remunerazioni degli agricoltori, implicano annientamento e enormi consumi di energie fossili. Che si dicono che in ogni caso tra pochi anni diventeranno scelte obbligate, se non vogliamo continuare a dividerci tra una minoranza che si ingolfa e spreca e una maggioranza che patisce, e a guerreggiare – l’esito è scontato – per questo. Tanto vale portarsi avanti, mettersi dalla parte della terra.
Eccellente pro-memoria per chi vuol ricordare…