La tentazione di decontestualizzare e il dovere della narrazione. Sul conflitto tra Israele e Hamas
Di Andrea Inglese
Un dilagare dell’orrore “senza punti fermi”
Il 9 ottobre, in un articolo apparso sul « Corriere della Sera », Paolo Giordano, noto romanziere, scriveva riguardo all’attacco di Hamas contro Israele, avvenuto due giorni prima: “È uno strano paradosso della nostra epoca: per valutare meglio un evento non conviene più aspettare troppo, conviene quasi, al contrario, affrettarsi e perfino decontestualizzarlo.” Ora, il baratro in cui rischia di piombare Israele, e di far piombare non solo i palestinesi, ma anche tutto il Medio Oriente, l’Europa, e forse il mondo intero, dimostra che questa frase è profondamente sbagliata, ma nello stesso tempo esprime una tentazione che è presente non solo sotto la penna di uno scrittore disinteressato alle astrazioni della geopolitica, ma anche nelle parole e negli atti di dirigenti politici del mondo occidentale. Decontestualizzare, significa semplificare, diminuire i fattori, gli elementi, i dati, le esperienze di cui tener conto, anzi cancellarne una buona parte, e fare in modo che non esistano. L’assurdità di un tale atteggiamento è riscontrabile in un altro passaggio dello stesso articolo di Paolo Giordano, dove si legge: “C’è una storia del conflitto israelo-palestinese che non finisce da settant’anni. Ma ce n’è anche un’altra che è iniziata sabato mattina. Le immagini delle ragazze e delle donne prese in ostaggio sono e resteranno il mio punto fermo di questa nuova storia”. Qui Giordano non fa altro che esprimere, purtroppo, un pio desiderio, ossia il desiderio che in questa storia tra Hamas, i palestinesi, il governo Netanyahu, e gli israeliani, l’orrore si sia fermato con l’azione terroristica e crudele di Hamas il 7 ottobre (almeno 1300 morti e circa 150 ostaggi); ora, in seguito a quell’orrore, si contano – bilancio provvisorio reso pubblico sui media occidentali – già 1900 morti tra gli abitanti di Gaza, di cui 600 sono bambini. Immagini di bambini palestinesi estratti dalle macerie sono state diffuse su giornali e televisioni in questi giorni. Tutti vorremmo che l’orrore trovasse un suo capolinea, una sua immagine finale e insuperabile. Ma in molti casi così non è, e l’immagine dell’orrore dei bombardamenti dell’aviazione israeliana viene ad affiancarsi alle immagini dei militanti di Hamas, che a colpi di mitra o all’arma bianca, avevano ammazzano alcuni giorni prima inermi cittadini israeliani. Se si potesse in qualche modo fissare le immagini del 7 ottobre e non avere che quelle come punto di riferimento, saremmo in grado di confinare l’orrore in uno spazio tempo ben definito: i militanti di Hamas e le loro stragi ingloberebbero tutto il male, tutti i crimini, tutta la violenza irrazionale che ha circolato nei settanta anni di conflitto tra Israele e i palestinesi. Quello che ci dice Paolo Giordano, e che hanno detto innanzitutto dirigenti politici israeliani, seguiti da vari dirigenti politici occidentali, è che dal 7 ottobre il male ha scelto definitivamente il suo campo, e che una nuova storia più chiara, più semplice, si svolgerà: da un lato i cattivi aggressori di Hamas (e un intero popolo che sarà eventualmente una vittima collaterale) e dall’altro le vittime innocenti (il governo e la popolazione di Israele). Solo che questa è una storia che non funziona, non funziona così. Anzi, dobbiamo dirlo: vedere le cose in questo modo, pensare che una situazione di grave e costante instabilità, sia riconducibile a una causa semplice (i terroristi di Hamas), e che la distruzione della causa semplice riporterà la stabilità, è un grave errore, ed è un errore conoscitivo ancor prima che morale. Quando il governo israeliano pensa e dice questo, non sta soltanto cancellando le proprie responsabilità, dimenticando i propri crimini, ma si sta illudendo o, ancora peggio, illude i propri cittadini.
A modo loro, è una storia che gli Stati Uniti hanno raccontato dopo l’11 settembre: ora abbiamo le prove di chi incarna il male nel mondo – i terroristi di Al Qaida – e l’orrore di circa 3000 civili uccisi negli attentati cancella i nostri passati crimini di guerra, come quelli realizzati durante la Prima Guerra del Golfo (bombardamenti sulla popolazione civile). Questa prova, poi, non solo ci assolve retrospettivamente, ma ci permette anche di reagire attraverso una risposta che non ha limiti nell’esercizio della forza. Ma una volta ancora non è tanto l’errore morale a essere il più grave – la volontà di assolversi dai crimini passati, in quanto vittima di un crimine attuale –, ma l’accecamento conoscitivo, che ha provocato, da allora, un accrescimento dei conflitti convenzionali e non convenzionali in tutto il pianeta. Qual è stato uno degli esiti della Seconda Guerra del Golfo durata dal 2003 al 2011? La nascita dello Stato Islamico in territorio iracheno. Vi è intorno a questo nesso rilevante letteratura e documentazione. Quanto alla guerra in Afghanistan, è durata vent’anni, dal 2001 al 2021. Oggi, i Talebani dominano sul territorio, praticando apartheid di genere e repressione del dissenso. Per chi avesse avuto dubbi sull’efficacia della guerra globale al terrorismo lanciata nove anni prima, già nel 2010 la fiumana di documenti segreti dell’esercito e dell’amministrazione, resi pubblici da WikiLeaks e riassunti da grandi testate giornalistiche occidentali, mostrò fino a che punto gli Stati Uniti, anche se fossero stati innocenti prima dell’11 settembre, dopo quella data si stavano macchiando di crimini di guerra realizzati in modo continuativo e senza produrre alcun risultato evidente sul piano militare e politico.
La tentazione di decontestualizzare può essere letta in due modi: o in buona fede (come nel caso di Paolo Giordano): si vuole esorcizzare il trauma, illudendosi di aver circoscritto e messo a distanza il male; o per calcolo cinico – questo riguarda soprattutto i dirigenti politici – si vuole illudere il proprio elettorato, che il male – la fonte dell’instabilità e della violenza – è un bersaglio chiaramente identificabile e del tutto al di fuori di sé, quindi facilmente eliminabile.
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Quale narrazione possiamo condividere di fronte ad azioni di violenza e crudeltà estrema?
Nei giorni che hanno seguito l’attacco di Hamas contro Israele, ho fatto molta attenzione a capire non solo cosa stava accadendo, ma quali linee di narrazione si sviluppassero intorno agli eventi. Mi sono chiesto, in altre parole, come giornalisti, commentatori, dirigenti politici tentassero di dare senso e rendere intelligibile almeno in parte un evento di eccezionale brutalità e violenza ai limiti dell’insensato. La strage di civili israeliani (e non solo) perpetrata da Hamas in territorio israeliano è stata immediatamente riconosciuta come eccezionale (e quindi per certi versi inverosimile) da tutti i commentatori, dentro e fuori Israele. Diversi i motivi di tale inverosimiglianza: non tanto la barbarie in sé – Hamas aveva già usato in passato il peggiore dei mezzi terroristici: l’attentato alla bomba in mezzo ai civili – ma la modalità dell’attacco (deltaplani a motore), l’altissimo numero di vittime civili e gli errori sia da parte dell’intelligence israeliana prima dell’attacco sia dell’esercito dopo l’attacco. La ferocia dell’atto è stata poi intensificata dalle immagini diffuse dallo stesso Hamas e relative a uccisioni e rapimenti.
Per chi ha vissuto in Francia, e a Parigi in particolare, almeno dal gennaio del 2015 in poi, le immagini di uomini incappucciati che scendono da un furgoncino e sparano sventagliate di mitra su giovani disarmati, suscitano l’eco precisa di un’esperienza comune, quella degli attentati terroristici sul suolo francese: la strage alla sede di Charlie Hebdo e quelle della notte del 13 novembre per le strade di Parigi e al Bataclan.
Tipico dell’attentato terroristico è questa divaricazione tra l’atto e il suo significato, che è vera sia per la vittima diretta (coloro ne sono i bersagli concreti), ma anche per chi ne è la vittima indiretta (i parigini, i francesi che scoprono, attraverso i media, la dinamica dell’evento). Il trauma collettivo nasce innanzitutto da un’eccedenza di ferocia, di violenza gratuita ed estrema, nei confronti di qualsiasi tentativo di attribuire, a quell’atto, un significato, ossia una motivazione. Soprattutto in questo senso si dovrebbe parlare di un’azione “barbara”, ossia di un’azione opaca, che rifiuta di entrare in un discorso di senso, in una narrazione intelligibile.
Si faccia qui attenzione a una distinzione fondamentale. Quando parliamo d’intelligibilità o meno di un’azione, non parliamo di “giustificazione morale” di un’azione, ma innanzitutto di “comprensione narrativa” di essa. È il modo principale che abbiamo per dare senso a un atto, un gesto, un comportamento che, di primo acchito, ci risulta oscuro, immotivato, privo di senso. Faccio un esempio immaginario. Entro in camera di mia figlia, e vedo la foto della sua migliore amica nel cestino della carta straccia. Mia figlia (o qualcun altro) ha fatto una cosa che non capisco. Sarò costretto a chiedere a lei, perché la foto della sua migliore amica si trova in mezzo ai rifiuti di camera sua. Se vorrà rispondermi, se vorrà “spiegarsi”, se vorrà farmi capire il senso del suo atto, dovrà raccontarmi cosa è successo. Questa narrazione potrà essere più o meno lacunosa, ma mi farà capire se non altro che cosa ha spinto mia figlia a fare un tale gesto. Un comportamento inaccettabile della sua amica nei suoi confronti? Un’eccessiva permalosità di mia figlia? Entrambe le cose, combinate assieme?
Situare un’azione in un contesto narrativo non significa per forza “giustificarlo” e concludere, ad esempio, che gettare il ritratto nel cestino era la cosa migliore o giusta da fare, era la cosa che tutti avremmo fatto, se fossimo stati nei panni di mia figlia. Significa, però, sottrarlo alla pura enigmaticità, e comprenderlo come una reazione magari eccessiva, magari sbagliata di una situazione dai contorni chiari.
Torniamo ora agli attacchi di Hamas. Anche quell’evento per singolare, straordinario e terrificante che sia, esige di essere compreso, cioè inserito in un contesto narrativo. Cosa ha fatto Hamas? Sta cercando di liberare la popolazione di Gaza, rompendo gli sbarramenti israeliani? Sta difendendo dei palestinesi sotto attacco da parte di coloni israeliani? Sta ingaggiando uno scontro con i soldati della potenza occupante? Conosciamo purtroppo la risposta: Hamas sta sparando contro delle persone che sono in grandissima maggioranza civili, disarmati, presi di sorpresa. Possiamo chiamare ciò “terrorismo”, possiamo chiamarlo “barbarie”, in ogni caso c’è un linguaggio ampiamente condiviso tra i popoli delle varie nazioni del mondo per definire questo atto, in relazione al contesto in cui è emerso: si tratta di “crimini di guerra”. Il linguaggio in questione è quello del diritto internazionale, che si è concretizzato storicamente in una serie di trattati condivisi da una maggioranza di nazioni, dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 allo Statuto di Roma del 1998.
Uno dei caposaldi del diritto internazionale è che, anche in una guerra, ci sono delle norme che non vanno violate. La guerra, che sia tra popoli o Stati, è di per sé, potremmo dire, quanto di peggiore, di più distruttivo, di più irrazionale, gli esseri umani siano in grado di realizzare. Ciò nonostante le guerre continuano a esistere, e se esistono ciò significa che coloro che vi sono coinvolti – sia per ammazzare che per farsi ammazzare – sono convinti che nel loro caso non ci sia altro da fare, non ci sia soluzione migliore che prendere le armi. Se quindi le società umane non hanno ancora trovato un modo per evitare le guerre, esse si sono seriamente impegnate, in modo coordinato, per poterle almeno regolare.
In tale contesto la norma non sta semplicemente a dirmi ciò che dovrei fare in una data circostanza – anche se sei in guerra, anche se subisci un attacco terroristico, non rispondere commettendo “crimini di guerra” – ma mi aiuta a situare la mia azione, qualunque essa sia, quella sbagliata o corretta. Se non ho norme condivise, se non ho frontiere concettuali, non sono più in grado non solo di sapere se sto agendo bene o male, ma di sapere quello che sto facendo.
Se Israele dimentica i propri passati crimini nei confronti dei Palestinesi (il blocco di Gaza, la colonizzazione continua, l’appropriazione delle risorse idriche, la distruzione delle abitazioni civili, gli ammazzamenti ingiustificati, ecc.) e si accinge a commetterne di nuovi, significa che, nel conflitto con i terroristi di Hamas, azzera il linguaggio comune del diritto internazionale, sui cui si misurano non solo le sue azioni, ma anche quelle di Hamas, e di tutti i testimoni terzi, per riconoscere un unico territorio di confronto: quello della legge del più forte.
Naturalmente Israele è uno Stato sovrano, inoltre è appoggiato – seppure in modo non completamente incondizionato – dagli Stati Uniti, superpotenza mondiale, quindi può decidere a livello di governo, con l’assenso più o meno convinto della popolazione, di praticare questa via: estirpare Hamas costi quello che costi in termini di vittime civili, di diritti umani, ecc. Sono più potente militarmente, e quindi sono certo di poter schiacciare il mio avversario, ossia un partito politico e militare, ammazzandone tutti i membri. Situandosi però del tutto fuori dal diritto internazionale, dalle norme che tentano di regolare i conflitti, Israele ottiene un primo risultato catastrofico. Alla fine neppure le opinioni occidentali meno simpatizzanti per il popolo palestinese riusciranno più a distinguere barbarie da barbarie. Già adesso è difficilissimo distinguere i cittadini inermi uccisi da Hamas dai i cittadini di Gaza, inclusi 600 bambini, morti a causa dei bombardamenti israeliani. Già adesso è difficilissimo non riconoscere l’orrore dell’assedio (né elettricità, né cibo, né acqua). Hamas ne uscirebbe vincitore di fronte all’opinione pubblica mondiale, assimilando Israele a sé sul piano morale (entrambi non conosciamo limiti nel conflitto). Il secondo risultato, anch’esso fallimentare, riguarda l’obiettivo a lungo termine di una tale operazione: anche indebolendo militarmente Hamas, anche mettendolo momentaneamente fuori gioco, la volontà di autodeterminazione del popolo palestinese non sarebbe scalfita. I palestinesi per più di settanta anni hanno resistito con tutti i mezzi – quelli legittimi e quelli illegittimi – all’occupazione israeliana. Non hanno un vero Stato, non possiedono una vera terra, vivono in una condizione d’umiliazione permanente, ma ciò nonostante non se ne sono andati, non si sono dispersi, non hanno negato la loro identità culturale e la loro storia. Israele potrebbe al limite ammazzare tutti i membri di Hamas, e con essi un numero enorme di “vittime collaterali” innocenti, ma non potrà comunque sterminare tutti i palestinesi. Questo gli stessi cittadini israeliani (la maggior parte di essi) alla fine non lo permetterebbero. Quindi, dopo aver commesso una gran quantità di crimini di guerra (se non addirittura di crimini contro l’umanità), Israele si troverebbe ancora con i palestinesi al di là dei muri, e in più con nuovi candidati pronti a rilanciare la faida.
Naturalmente non ho nessun suggerimento “positivo” da dare agli israeliani. Non saprei dire come e cosa fare con Hamas. Come rispondere militarmente all’attacco terroristico del 7 ottobre. Con chi immaginare di avviare negoziati. Potrei dire soltanto: è davvero troppo pericoloso farsi guidare in un conflitto da un partito di estrema destra. Storicamente le politiche di estrema destra non hanno mai prodotto grandi risultati per la pace e la stabilità. È davvero pericoloso mettersi nelle mani di un governo che si è contestato con ostinazione per nove mesi, considerandolo corrotto e antidemocratico. Potrei soltanto dire: non trovate giustificazioni per azzerare una volta ancora e più gravemente le frontiere tracciate dal diritto internazionale. Se lo fate, diventate come Hamas, che in nome delle reali e ingiuste sofferenze del popolo palestinese, cancella tutti i limiti nell’esercizio della violenza. Le regole del diritto internazionale sono fragili e imperfette, ma al di fuori di esse non c’è salvezza: c’è l’abisso della forza bruta, della barbarie, di ciò che può disumanizzarsi indefinitamente.
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Immagine: Absalon, Cell N° 1, 1992.
Ricominciare a ragionare
Vero Francesco, e bisognerebbe pero’ che un minimo di ragione “umanitaria” sia utilizzata là, dal momento che la situazione di Gaza è ora dopo ora più disastrosa.
Intanto ringrazioe Giuseppe Acconcia, che mi ha segnalato questo pezzo di Judith Batler, di cui incollo solo l’inizio, e che risuona in modo forte con quanto ho scritto qui sopra:
The matters most in need of public discussion, the ones that most urgently need to be discussed, are those that are difficult to discuss within the frameworks now available to us. Although one wishes to go directly to the matter at hand, one bumps up against the limits of a framework that makes it nearly impossible to say what one has to say. I want to speak about the violence, the present violence, the history of violence and its many forms. But if one wishes to document violence, which means understanding the massive bombardment and killings in Israel by Hamas as part of that history, one can be accused of ‘relativising’ or ‘contextualisation’. We are to condemn or approve, and that makes sense, but is that all that is ethically required of us? In fact, I do condemn without qualification the violence committed by Hamas. This was a terrifying and revolting massacre. That was my primary reaction, and it endures. But there are other reactions as well.
https://www.lrb.co.uk/the-paper/v45/n20/judith-butler/the-compass-of-mourning
Altre consonanze. Ringrazio Davide Gallo Lassere che me lo ha segnalato. Un pezzo importante di Frédéric Lordon, apparso il 15 ottobre, sul blog del Monde diplomatique:
https://blog.mondediplo.net/catalyse-totalitaire
Un passggio che condivido fino alla virgola:
“Sans avoir besoin de « terrorisme », « guerre » et « crimes de guerre » sont hélas très suffisants à dire les combles de l’horreur. Très suffisants aussi à dire les massacres abominables de civils. Si dans la guerre, qui est par principe tuerie, on a forgé sans pléonasme la catégorie de « crimes de guerre », c’est bien pour désigner des actes qui font passer à une chose atroce en soi d’autres paliers d’atrocité.”
in vita ammetteremo malesseri lievi, brevi latenze del meccanismo perfetto,
sapremo anche ragionare sul ruolo fondamentale del peggiore tra i casi
e ne moriremo senza soluzioni alternative, per una forma di incoraggiamento del creato.
eppure ameremo il genere umano, le due gambe i due occhi, i due emisferi cerebrali,
ameremo il rituale, la sequenza semprequesta del chiaroscuro dei giorni.
badate, è di questo che si tratta, ma voi ditelo come vi pare.
Grazie, Andrea. Per chi volesse, l’articolo di Judith Butler è stato tradotto in italiano qui:
https://www.acro-polis.it/2023/10/12/condannare-la-violenza/?fbclid=IwAR2dJIZRn25RJpWYCIaz-TSs00CV4MiRZQjgYOU5vyO-w5R-9lns51lK7GI
Grazie Andrea per aver ricordato il contesto (dell’occupazione e del blocco di Gaza, ma anche delle perpetue e sistematiche violazioni dei diritti umani – segnalate entre autres da Amnesty, HRW e B’Tselem che concordano sulla diagnosi di “apartheid state” anche in Cisgiordania, dove il problema ovviamente non è Hamas).
Segnalo anche io alcuni contributi che a me sono parsi molto interessanti:
Raz Segal, https://jewishcurrents.org/a-textbook-case-of-genocide
Sarah Schulman: https://nymag.com/intelligencer/2023/10/israel-gaza-war-manufactured-consent.html
Noura Erakat: https://www.jadaliyya.com/Details/45383
e poi il dibattito su Dissent tra Joshua Leifer e Gabriel Winant, entrambi voci della anti-zionist jewish left:
https://www.dissentmagazine.org/online_articles/toward-a-humane-left/
https://www.dissentmagazine.org/online_articles/a-response-to-joshua-leifer/
Grazie Ornella.
E grazie Jamila, che presenti materiale ovviamente assente dai nostri organi d’informazione più diffusi e dunque tanto più preziosi, in quanto esprimono punti di vista “approfonditi”, come l’articolo di Raz Segal, docente israeliano, che insegna negli Stati Uniti in Holocaust and Genocide Studies. Spero che altri lettori/lettrici usufruiranno dell’occasione che fornisci loro di leggere tali interventi.
Io sono doppiamente stordito oggi, dopo il primo stordimento del 7 ottobre. Se non altro, con tutta la difficoltà del caso, si è potuto dire quello che si è visto quel giorno, si è potuto definire l’azione di Hamas (nonostante, come scrivevo, il suo carattere inverosimili). Ma oggi di fronte alla situazione di Gaza, di fronte alle immagini di Gaza, cio’ che è ancora più insopportabile, è il lavoro di una quantità di commentatori filogovernativi per rendere impronunciabili certe parole e certe formule linguistiche.
Aggiungo anche qui (per ulteriore chiarezza) questo commento di risposta alla lettera di Giuseppe A. Samonà, postata il 26 ottobre: https://www.nazioneindiana.com/2023/10/26/le-diverse-ragioni-del-silenzio-lettera-ad-andrea-inglese/
Caro Giuseppe,
ho capito che cosa ha senso risponderti qui, oggi, nonostante Israele abbia già scelto l’abisso della rappresaglia indiscriminata, al di fuori di ogni frontiera posta dal diritto internazionale a un’azione di guerra.
Se anche spostassimo le date, se anche non ci fosse stato un sette ottobre prima dell’assedio e del bombardamento di Gaza, se anche il massacro di civili israeliani inermi venisse dopo questo attacco di Gaza, nulla lo renderebbe più legittimo ai miei occhi. Resterebbe un crimine di guerra in risposta a dei crimini di guerra, resterebbe un’azione basata sulla celebrazione della morte e del terrore. Certo, si puo’ capire come nasce Hamas, certo si puo’ capire perché l’estrema destra israeliana ha favorito Hamas, certo si puo’ capire la natura politica di Hamas, ma essa rappresenta per i Palestinesi da tutti i punti di vista una regressione e un allontanamento dalle prospettive di pace per le ragioni che tu stesso ricordi.
Questo naturalmente non giustifica in nessun modo il massacro della popolazione palestinese che Israele sta oggi perpetrando. (29/10/23)
[anch’io aggiungo anche qui, per le stesse ragioni]
Caro Andrea,
Grazie, sai sempre avvicinare con garbata originalità le cose più difficili: sì, certo, nulla giustifica nulla, in questa tragedia. E se devo dirtelo con una parola sono, semplicemente, disperato. Disperato umanamente, innanzitutto, per i civili, la maggior parte giovanissimi, e bambini, che cadono sotto le bombe e le armi a Gaza. Disperato politicamente, perché questa guerra mi sembra se possibile rendere ancora più accesa, irreversibile, la spirale dell’odio e della vendetta. E poi disperato per la nostra impotenza, per la nostra incapacità collettiva non solo a fermare questa guerra, com’è purtroppo ovvio, ma anche semplicemente a incontrarci, a parlarci veramente, al di là di quei pochi amici intimi di cui abbiamo già misurato il pensiero e l’azione, disperato in altri termini per l’impossibilità, adesso, di trovare, di costruire un nostro luogo collettivo, di azione e di pensiero, che permetta di esprimere insieme la propria pena e la propria totale opposizione a questa guerra, alla guerra, insieme immaginando, elaborando, costruendo proposte per l’unica pace possibile, anche se oggi sembra impossibile: che non può che partire dalla fine reale dell’occupazione. Perché quel nostro luogo collettivo dovrebbe purgarsi di qualunque odio e pregiudizio, dovrebbe poter sentire ed esprimere – proprio come dici tu – che l’orrore di fronte a questa guerra, insieme alla volontà di metterci fine, non scacciano, non devono scacciare l’orrore di fronte al massacro di Hamas, insieme alla volontà di sconfiggerne la cultura di morte che lo sottende, e anche dovrebbe riflettere, ci dovremmo in particolare riflettere noi scrittori, “esperti” di parole, sulla scelta e l’uso dei termini, nella fattispecie interrogandosi per esempio (ma la lista dei termini da analizzare è lunga) sul se, come e quando impiegare “crimini di guerra” e se come e quando “crimini contro l’umanità”: non perché i primi siano in qualche modo più giustificabili, più scusabili degli altri – è osceno anche solo il pensarlo – ma perché anche il linguaggio è un’arma, e la precisione nella scelta delle parole è fondamentale per potersi parlare, capire, agire. Soprattutto, quel nostro luogo collettivo dovrebbe essere animato dal desiderio che tutti, tutti!, quelli che vivono su quella terra – che oltre ad essere “medio-orientale” è anche innanzitutto mediterranea il che ce l’avvicina ancor di più – ci possano vivere in pace e giustizia, qualunque siano le soluzioni considerate (due popoli due Stati, una Confederazione, un solo Stato per due popoli… o altre ancora che si potranno immaginare: anche se oggi tutte sembrano impossibili, e dal mio punto di vista alcune ancora più impossibili di altre). In tale direzione, questo nostro luogo collettivo dovrebbe prendere atto che questa tragedia viene da lontano, e la sua storia – che si dovrebbe conoscere, studiare – è terribilmente complessa e non può essere ridotta a slogan; o se vuoi, se proprio vogliamo “semplificare”, partiamo dalla constatazione che in quella stessa terra si confrontano due memorie contrapposte, e nessuna può, deve essere mortificata, negata, entrambe devono essere considerate; ed è solo se gli attori di una parte, come è stato detto, cercheranno di mettersi nella pelle degli attori dell’altra, che si potrà cominciare a costruire quella strada di pace, a rendere possibile quel che oggi è impossibile. Laggiù, sia pur nel naufragio presente, alcuni – sono fili oggi rari, esilissimi – continuano a provare a farlo. E qui, noi, dovremmo fare di tutto perché quella strada riprenda, quei fili si rinforzino, si moltiplichino : non per idealismo, ma perché anche se impervia, pressocché impercorribile, altra strada non c’è. Questo nostro dialogo a due, immerso nel silenzio e pieno di cautela (come anche alcune risposte disarmanti per la loro feroce e sorda chiusura ricevute in privato, insieme ad altre, sempre private, per fortuna assai confortanti) testimonia l’enorme difficoltà di intraprendere questo cammino collettivo, perché la polemica infiammata è sempre in agguato; ma ne è anche il timido, preziosissimo inizio, e te ne ringrazio di cuore.
Caro Giuseppe, possiamo anche in questo caso fare un passo in più verso la chiarezza e l’esplicitazione. E’ in effetti importante avere un riferimento non vago o generico a formule come “crimini di guerra”, che nel caso del mio ragionamento, ad esempio, hanno un ruolo fondamentale. Sarà utile anche ad altri che eventualmente ci leggono avere questa definizione sotto gli occhi. Mi sono rivolto alla voce dell’enciclopedia Treccani:
https://www.treccani.it/enciclopedia/crimini-internazionali_%28Diritto-on-line%29/#:~:text=S
“In linea di principio, crimini di guerra possono essere commessi sia da combattenti che da civili. È in ogni caso indispensabile una connessione tra l’atto da questi compiuto e il conflitto armato, affinché possa configurarsi un crimine di guerra. Tale connessione deve essere accertata volta per volta.
I crimini di guerra possono essere distinti in quattro gruppi: crimini contro persone protette; crimini contro beni protetti; crimini connessi all’impiego di metodi di combattimento vietati; crimini relativi all’uso di mezzi di combattimento proibiti. I crimini contro persone protette, sia nei conflitti internazionali che nei conflitti interni, comprendono tra l’altro: l’attacco deliberato contro la popolazione civile o singoli civili che non partecipino direttamente alle ostilità; l’uccisione e la tortura di prigionieri di guerra; il reclutamento di bambini soldato; l’attacco deliberato contro il personale di una missione di assistenza umanitaria o di peacekeeping, a cui sia riconosciuta la protezione spettante ai civili.
Come esempi di crimini contro beni protetti, quale che sia la natura del conflitto, possono citarsi: l’attacco deliberato contro beni civili, ovvero beni che non costituiscano obiettivo militare (…); la distruzione e il sequestro di beni dell’avversario che non siano imperativamente richiesti dalla necessità militare; l’attacco deliberato contro edifici religiosi, monumenti storici, musei e ospedali, che non costituiscano obiettivo militare; il saccheggio di paesi e luoghi; l’attacco deliberato nei confronti di edifici, materiali e mezzi di trasporto che espongano gli emblemi distintivi delle Convenzioni di Ginevra.
Quanto ai crimini connessi all’impiego di metodi di combattimento vietati, sia nei conflitti internazionali che nei conflitti interni, possono citarsi ad esempio: l’uccisione e il ferimento di combattenti avversari mediante il ricorso alla perfidia; la dichiarazione che non sarà dato quartiere; la deliberata riduzione alla fame dei civili, privandoli dei beni indispensabili per la sopravvivenza; l’impiego di civili come scudi umani (…).
Infine, come esempi di crimini relativi al ricorso a mezzi di combattimento proibiti, in qualsiasi conflitto armato, possono menzionarsi: l’uso di armi chimiche; l’impiego di armi batteriologiche; l’utilizzo di armi che abbiano come principale effetto quello di produrre il ferimento mediante schegge nel corpo non individuabili con i raggi X; l’uso di armi laser specificamente concepite per provocare una cecità permanente.”
Non ho usato che una volta, e come una possibilità, il termine “crimine contro l’umanità” non perché credo con certezza che sia inappropriato in questo contesto (attacco di Hamas, effetti della colonizzazione israeliana, assedio e bombardamento di Gaza, ecc.), ma perché sono termini, come ben dici, ancora più “pesanti’, e non mi va di usarli con disinvoltura, cioè senza prima fare un lavoro di documentazione minimamente approfondita. Anche in questo caso, pero’, è importante rinfrescarsi le idee, e sempre da Treccani:
“I crimini contro l’umanità sono atti inumani compiuti nell’ambito di una prassi estesa o sistematica di violenze nei confronti di una popolazione civile. La Carta del Tribunale di Norimberga, che per prima ha fornito un elenco di tali crimini, richiedeva che gli atti elencati fossero commessi in esecuzione di o in connessione con crimini di guerra o crimini contro la pace. Un siffatto nesso, richiesto anche dalla Carta del Tribunale di Tokyo, non è tuttavia necessario secondo il diritto internazionale contemporaneo (v. però l’art. 7, par. 1, lett. h) dello Statuto della CPI, che per la sola persecuzione richiede un nesso con altri crimini contro l’umanità o con altre categorie di crimini rientranti nella giurisdizione della CPI).
Diversamente dai crimini di guerra, i crimini contro l’umanità possono essere compiuti sia durante un conflitto armato che al di fuori di esso, in tempo di pace. Inoltre, mentre i crimini di guerra sono diretti contro combattenti o civili di nazionalità nemica o comunque legati da un vincolo di fedeltà all’avversario, per i crimini contro l’umanità è irrilevante la nazionalità della vittima e, nel caso sia in corso un conflitto armato, la sua fedeltà all’una o all’altra parte del conflitto. Occorre pure rilevare che mentre i crimini di guerra possono essere atti isolati, i crimini contro l’umanità richiedono l’esistenza di una molteplicità di condotte lesive.
Lo Statuto della CPI qualifica come crimini contro l’umanità gli atti di seguito elencati, «quando commessi come parte di un attacco esteso o sistematico diretto contro qualsiasi popolazione civile, con la consapevolezza dell’attacco»: l’omicidio volontario; lo sterminio; la riduzione in schiavitù; la deportazione e il trasferimento forzato di popolazione; la detenzione e ogni altra grave privazione della libertà personale in violazione del diritto internazionale; la tortura; lo stupro, la schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità; la persecuzione per motivi politici, razziali, nazionali, etnici, culturali, religiosi, di genere o altri motivi non ammessi dal diritto internazionale; la sparizione forzata di persone; l’apartheid; e altri atti inumani di carattere analogo comportanti grandi sofferenze o gravi lesioni fisiche o psichiche (art. 7, par. 1).
Lo Statuto della CPI dà anche una definizione di «attacco diretto contro qualsiasi popolazione civile», richiedendo la reiterata commissione degli atti sopra elencati in attuazione di o in base a una politica dello Stato o di un’organizzazione (art. 7, par. 2, lett. a). Quanto a quest’ultima, è da ritenere che possa trattarsi non solo di un’organizzazione che abbia il controllo del territorio, ma di qualsiasi gruppo di individui strutturato dotato della capacità di condurre un attacco siffatto, inclusa un’organizzazione terroristica (Werle, G.-Jessberger, F., op. cit., 342 ss.).”