Giornata mondiale della salute mentale – 180 passi indietro
“Il nostro Paese destina alla Salute Mentale un ottavo di quanto allocano Francia e Germania, un quinto del Regno Unito e molto meno di Spagna e Portogallo”. La Stampa
di Mariasole Ariot
Esiste una zona d’ombra, nel fondale, un buio di silenzio dissotterrato in anni passati e che ora torna a farsi muto. Se negli anni della riforma basagliana la percezione che i muri venissero abbattuti e che l’abitare la soglia – per usare le parole di Peppe Dell’Acqua – fosse una direzione possibile, se la percezione era quella di un’apertura dialettica, critica e dialogica che portava anche all’emersione di voci fino a quel punto tappate, oggi i muri sono stati nuovamente eretti, e con un materiale forse anche più denso. La densità dell’ipocrisia, di una patina di chiaro che dice apertura, quando invece, in quella zona d’ombra non detta perché indicibile, il pensiero dominante e le pratiche dominanti, non si sono (solo) fermate: si sono mosse in direzione contraria, girate di spalle e tornate indietro.
Se il termine “salute mentale” circola di bocca in bocca, dalle dimensioni micro a quelle macro, è pur vero che questo, anche da un punto di vista politico, può torcersi in una vera e propria dispercezione all’occhio di chi, da fuori, vede o ascolta: se ne parla, è perché ce ne si sta occupando.
La realtà, pur con le sue sfaccettature, è però molto diversa: ce ne si sta occupando veramente? E in che modo ce ne si sta occupando?
Non è il significante salute mentale che dev’essere messo in discussione, piuttosto l’uso che ne fa un certo potere politico e sociale, che, in alcuni casi, ad eccezione di zone interstiziali, può utilizzarlo in una ripetizione incessante negli ovunque, per coprire ciò che sta dietro, ciò che non viene visto, ciò che non si vuole vedere, ciò che non può essere mostrato: ciò di cui in realtà, fuori dalle parole, non ci si sta occupando. O ce ne si sta occupando in termini di sottrazione e cancellazione.
I ricordi di Peppe dell’Acqua e di chi ha vissuto gli anni pre basagliani – il “giro medico” di un professore in camice bianco che illustra con dovizia di particolari i segni osservabili dei malati, destoricizzati e desoggettivati, ad una processione di studenti, le sbarre alle finestre, le porte chiuse a chiave, elettroshock e uomini legati ai letti, per chi non ha visto le strutture psichiatriche di questo presente, possono apparire come immagini legate ad un passato remoto, ma per chi né ha fatto esperienza diretta o indiretta, quell’immaginario non suscita stupore (piuttosto angoscia e disperazione): il presente è nuovamente questo e si muove velocemente in direzione di un futuro già presentificato.
Reparti psichiatrici che, anche da un punto di vista territoriale, vengono separati, o presentati come separati, demarcati da un confine tra un noi ( malati ospedalizzati per altre patologie) e un voi (malati psichiatrici come oggetto scarto).
Corridoi dalle pareti scrostate, le sale fumo impregnate di storie non riconosciute e posaceneri arrugginiti, corpi legati, terapie che, con una sottile manovra che cambia il nome ma non la sostanza, sono tornate in auge (ora terapie elettroconvulsionanti o magnetiche transcraniche, allora elettroshock), una scansione temporale di un quotidiano che sottrae alla persona la dimensione del tempo, per trasformarla in un rituale consequenziale di misurazioni e pratiche organizzate, prestabilite, ripetute nel quotidiano: sveglia, colazione, peso, pressione, defecazione, peso, carrello dei farmaci, l’ora nei corridoi in attesa che le stanze chiuse a chiave – e sbarrate – vengano arieggiate, non stare per terra ma le panchine non ci sono, gli specchi lastre di alluminio, togliere i lacci o le scarpe, “ricevere il dono” del proprio telefono solo a brevi orari del giorno, non fotografare, non dire, solo 5 sigarette al giorno, controllare la comunicazione, sequestrare quell’effetto personale che poteva dare sicurezza: un profumo, un crocifisso, un braccialetto, una crema da barba: frammenti di “casa” nelle proprie tasche.
Corpi misurati e controllati. Il giro medico in forma di commissione (o confessione), e poi ancora, di nuovo: il carrello delle medicine, la cena, l’ora dell’andate a letto.
E in quel “giro” non una domanda alla persona, non alla sua storia: cartelle di dati clinici osservabili, sintomi, risposta al farmaco, ha dormito, non ha dormito, aumentiamo il farmaco, diminuiamo, cambiamo. Non una persona al centro, ma un cervello-macchina malfunzionante da rimettere a posto. Per una diagnosi data in due giorni.
Il resto è un tempo svuotato, di segno e per cognizione: ridotto all’andrivieni dei degenti nei corridoi alla richiesta spasmodica di una moneta per un caffè, l’ennesimo che possa risvegliare dalla sedazione farmacologica. O i giornali: i giornali del giorno prima, o di mesi prima, persino di anni.
Se per Gabriel Tarde, il senso di straniazione nel ritrovarsi in un caffè e accorgersi di leggere il giornale del giorno prima – disconnesso quindi dall’attorno, dagli altri – è stato un ironico episodio che ha aperto a riflessioni, questo rifilare come scarti agli scarti i quotidiani di un quotidiano passato, fa inchinare la testa con un senso di rossore e vergogna.
Quale pensiero del “tanto non se ne accorgono” – o, se se ne accorgono, “così passano il tempo e non si lamentano”.
Piccoli gesti, anche i più minimi, portano il peso di un’asimmetria non solo di potere, ma anche valoriale della persona ridotta ad oggetto.
Se negli spdc la dimensione è questa, esposta nella sua crudescenza, nelle case di cura private o convenzionate, l’esterno è: il verde degli alberi, le belle strutture imbiancate, la pulizia, la postura più gentile del personale, un certo fare paterno o materno, una differenziazione di forma che però non tarda a mostrarsi nella similitudine della sostanza: resta il rumore dei carrelli, la scansione del tempo con colazione, spuntino, cena, orario della buonanotte, i farmaci, la misura, regole di buona condotta, se ne infrangi una, anche fosse un bacio: espulsione, ammunizione.
Degenti per mesi o per anni inseriti in una macchina psichiatrica che osserva sintomi, li incasella, e li trasforma in etichettature. Talvolta non osserva nemmeno: lo sguardo è cieco, si limita ad un fotogramma decontestualizzato.
I pazienti appena entrati, tanto più se sono reduci da degenze in reparti psichiatrici ospedalieri, portano in sé un senso (breve, e che durerà per poco) di meraviglia e gratitudine: qui è tutto diverso – dicono ai familiari, facciamo un sacco di cose.
Queste cose possono essere gruppi psicoterapici gestiti da personale specializzato, o attività ricreative. Nulla di male, certamente. Il problema si pone nella misura in cui questi vengono strutturati e proposti, e nella maggioranza dei casi, sfortunatamente, restano nella sfera della soluzione/assoluzione: insegnare ai pazienti come sia giusto essere, comportarsi, relazionarsi, a prescindere dalla singolarità di ciascuno, dove sbagliano, cosa sbagliano, e come il comportamento e il pensiero possa essere corretto da un allenamento addomesticato alla vita.
Se però non si può negare che in alcuni contesti la figura di uno psicoterapeuta individuale (più raramente di uno psicoanalista), sia prevista e si incarni in una comunicazione con l’altro soggettivato, all’interno di un incontro anche significativo, rispetto alle “attività”, là la zona d’ombra che riduce i soggetti a persone in minore, di serie b, si riapre.
In un passaggio di Asylum, Goffman scrive:
“Negli ospedali psichiatrici c’è ciò che viene ufficialmente conosciuto come terapia industriale o ergoterapia; i pazienti devono svolgere attività, di solito molto umili, come rastrellare foglie, servire a tavola, lavorare in lavanderia o pulire i pavimenti. Sebbene la natura di questi compiti derivi dalle necessità dell’istituto, la spiegazione abitualmente data al paziente è che queste attività lo aiuteranno a reinserirsi nella società, e che la capacità e la buona volontà che dimostrerà, sarà presa come evidenza diagnostica del suo miglioramento” [1]
Nonostante Asylum sia stato scritto nel 1961, la realtà delle cliniche psichiatriche non è cambiata. Si aggiungono, alle pratiche nominate da Goffman, altri piccoli “premi”: l’ora di cucito, la plastilina, una morbida ginnastica di movimenti lenti e goffi “su misura per chi non è capace”. Tant’è che, dopo un primo periodo di entusiasmo, queste attività, se non obbligatorie, vengono abbandonate presto : perché anche la persona imbottita di dieci pillole al giorno (in alcuni casi si può pure arrivare a venti, comprendendo quelle che servono per tamponare gli effetti collaterali delle prime), se anche non in modo verbalizzato, vive nel proprio corpo una dimensione di indegnità, di penuria, di disagio, talvolta il sospetto (fondato) che siano metodiche “a ribasso”, a misura di incapaci, menomati.
Il richiamo alla terapia industriale o ergoterapica torna poi nei luoghi del fuori, le cooperative per persone con disabilità psichica. Lavorare per committenti, prevalentemente con lavori di assemblaggio, di cucito, manuali. Pazienti addetti all’ autogrill dei matti, la vendita delle borderbag, lo schizocinema – esempi trentini – che anche là dove esiste un intento destigmatizzante, sfortunatamente rincarano una demarcazione noi/loro.
Nessuna retribuzione: siamo noi che stiamo offrendo a voi qualcosa, la possibilità di occupare il tempo. Ma questo tempo – che è lavoro – non viene ripagato com’è giusto accada per ogni lavoro degno di questo nome. Il risultato è: restare a carico delle famiglie, là dove spesso il disagio è cominciato, con una tendenza alla cronicizzazione.
Secondo due direttrici, queste modifiche graduali ma sempre più problematiche, da un lato hanno subito una percossa a causa dei gravi taglia alla sanità pubblica (drastica riduzione del personale nei centri diurni e dei servizi di salute mentale, scomparsa degli spazi pubblici che aprivano le porte non solo a un “reinserimento” del malato verso l’esterno, ma anche ad un’entrata dell’altro verso l’interno creando così una zona di soglia, trasformazione dei centri attivi in centri maltrattati da un aiuto economico statale che, per la presa in carico di persone in difficoltà ,riescono a dedicare pochi minuti al mese in cui viene valutato solo l’andamento farmacologico in modo sbrigativo – e il concetto di “cura” viene così a scomparire, ma anche una deriva, tanto più pericolosa, in un senso propriamente teorico e clinico della psichiatria italiana: si è tornati ad una visione dell’altro non come persona sofferente ma come cervello malato, un altro da raddrizzare e correggere (e qui l’immaginario richiama l’opera citata da Foucault, L’orthopédie ou l’art de prévenir e de corriger dans les enfants les difformités du corps di N. Andry), e che se non si raddrizza, se sfugge alle caselle, diventa un altro (se di altro si può parlare) problematico, non gestibile: griglie, misure, manuali diagnostici sono rassicuranti. La storia del soggetto non lo è: allora la cancellazione, l’ammutinazione di ogni segno al singolare, sintomi declinati a fotogrammi che diagnosticano nell’immediato senza contestualizzalizzazione all’interno di un tragitto esistenziale al singolare.
E’ sicuramente più facile rapportarsi con un paziente iperfarmacologizzato e arreso alla terapia che non ad un paziente che dà voce alla sua voce. Diventa ingombrante, un peso. E la voce si spegne, la bocca si cuce.
Ma esiste anche una posizione opposta, ostinatamente contraria a questa, che può però, pur con nobili intenti, esercitare un’altra riduzione e semplificazione: quella del “ in fondo siamo tutti folli”.
No, non siamo tutti folli: abitare la soglia e comprendere il dolore e la sofferenza psichica dell’altro malato deve comunque essere riconosciuta in quanto tale, significa non ridurre il soggetto alla malattia e riconoscerlo in quanto essere al singolare, ma rispettarne e ammeterne la condizione drammatica in cui vive, la qualità oggi sempre più penosa della sua vita, le difficoltà di essere ascoltato anche nel suo silenzio: e allora ricordarci che non tutti, per citare la poetessa Amelia Rosselli, vivono e transitano in una Serie Ospedaliera.[2]
[1] Asylum,Goffman, 1961
[2] Serie Ospedaliera, Amelia Rosselli, 1969
*il testo (qui ampliato) è stato pubblicato precedentemente nel sito http://www.news-forumsalutementale.it
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Intervento molto bello e appassionato, che condivido pienamente.
Stamane, leggendo alcune percentuali riferite alla sofferenza mentale, mi veniva da pensare non solo alle realtà istituzionalmente perimetrate, ma anche a quella sfumatissima zona grigia di milioni e milioni e milioni di persone che, nel corso della vita, si trovano alle prese con una più che legittima sacrosanta profonda sofferenza o per un fatto oggettivo (ad es. perdita di lavoro, scivolamento nell’indigenza, lutto, separazione, abusi ecc.) o perché rientrano nella variegata casistica di disadattamento (più che comprensibile, visto i tempi che corrono), e che scivolano, spesso inconsapevolmente, nella fin troppo facile trappola farmacologico-psichiatrica (lubrificata a dismisura sia dall’esuberanza diagnostica di certa classe medica sia dai diktat correnti che pretendono sorrisi & leggerezza), diventandone schiavi, sognando di guarire (da cosa? da chi?), agognando sol più che il proprio cervello-macchina venga aggiustato come in un’officina da solerti amorevoli manine.
Dunque, in quella zona grigia – invisibile, indicibile, inaudita – si consuma la sistematica mortificazione della persona, della sua traiettoria esistenziale, della sua unicità, lì si spengono le straordinarie scintille di umanità, magari proprio le migliori.
Grazie del commento, Paola. Purtroppo è un fatto che ci sia un “diktat della serenità”, sorrisi e leggerezza, come scrivi, sicuramente legato ad una società volta alla performance, all’essere sempre all’altezza di qualcosa/qualcuno, un superamento che va in direzione completamente diversa da quella di nietzcheiana memoria, una tendenza alla rimozione della sofferenza – che è umana, e come tale andrebbe accolta e ci si dovrebbe fare i conti, conti che prevedono anche una responsabilità del singolo rispetto alla stessa. Un discorso che però prevederebbe un articolo a sé stante e che non è trascurabile, è anche quell’esposizione del “sempre felici”, anche quando non lo si è, imposta sempre più dai social e dai media – ma questo è altro affare.
Il dramma è che, effettivamente, da un lato c’è subito la rincorsa e la domanda di mettere un tappo alla sofferenza senza attraversarla (e quindi nel modo più semplice e veloce: il farmaco), dall’altro c’è la facilità, l’estrema facilità, con cui gli addetti alla salute mentale – parola che in realtà mi piace molto poco – sbrigativamente accolgono e a cui ricorrono. Sbrigativamente perché, e qui si lega la questione dei tagli dei fondi alla sanità pubblica, in un mondo/paese in cui c’è carenza di personale e purtroppo presenza di personale anche poco informato o che si limita ad una formazione chiusa in sé stessa, senza uno sguardo che va oltre una costruzione fatta a tavolino, ricorrere al “tappo” è molto più semplice e richiede meno impegno e volontà dello strumento per eccellenza nella cura che è la parola.
In realtà anche medici di base ormai, senza alcun approfondimento, prescrivono antidepressivi e ansiolitici. Non sono affatto però per la demonizzazione del farmaco (e lo dico per esperienza diretta e indiretta), perché di scintille di umanità che tu dici “magari proprio le migliori”, se non aiutate, ma aiutate bene, e questo purtroppo è un lusso che può permettersi solo chi ha le possibilità economiche per farlo (tranne i casi in cui, inevitabilmente, la macchina psichiatrica pubblica dev’essere attraversata comunque a prescindere dalle possibilità economiche), rischiano la vita o mettono a rischio quella dell’altro, o rischiano sofferenze indicibili, insopportabili.
Per riprendere quello che diceva in una conferenza un noto psicoanalista: “non facciamo un canto della schizofrenia: la schizofrenia è un inferno.” (con un accenno a Deleuze e Guattari). E di questo va tenuto conto. Come non metterei nella stessa parentesi perdita di lavoro, scivolamento nell’indigenza, lutto, separazione, abusi ed altro: ritengo piuttosto che, per ritornare al soggettivo, non è solo la causa quella che demarca un grado di sofferenza maggiore/minore, piuttosto gli effetti che questi fatti oggettivi producono nella persona, e che però talvolta sono causa, e qui si torna la causa, dello sviluppo di patologie importanti.
Poi, purtroppo, il farmaco “schiaccia”, è inutile, non si può dire l’opposto, soprattutto per quelli più importanti, e questo è un grosso problema per la mortificazione della persona di cui scrivi, della sua traiettoria esistenziale, mentale, intellettuale, fisica anche.
Leggevo in questi giorni, ma non è una novità, in realtà, dell’importanza che ha il fatto che personaggi noti parlino delle loro problematiche apertamente: ora, questa a mio avviso è un’arma a doppio taglio. C’è un rischio, che appunto non è affatto recente, e può essere esteso anche a patologie fisiche, che anziché produrre una maggiore consapevolezza all’esterno, che si crei poi una narrazione alla “io ce l’ho fatta, quindi anche voi”. No, non tutti ce la fanno, e chi non ci riesce, cade nella vergogna – come, del resto, l’altro distante da malattia, vede quel “chi non ci riesce” come un soggetto incapace di metterci volontà o di non riuscire a sopportare e vivere dolori infernali come invece riescono altri. Tanto più che la maggior parte delle persone in difficoltà, specialmente in un paese come questo che sta andando alla deriva, si ritrova a doversi rivolgere solo a strutture che non garantiscono cure adeguate e attenzione, finendo poi, appunto, con una manciata di pillole e un “saluto alla prossima tra quattro mesi”- quello che non accade invece a “personaggi noti”.
Ci sarebbe da dire davvero tanto, rispetto ai punti toccati. Sicuramente, io credo, che nonostante in questi anni imperi una terminologia psichiatrica negli ovunque, anche tra chi ne sa veramente poco o nemmeno vi è toccato per esperienza personale o di propri cari, i buchi di sapere rispetto a queste zone nere, non facciano che produrre altro stigma. Uno stigma che passa per paradossi e che può generare anche più vergogna e nascondiglio in chi ne fa già le spese.
Cara Mariasole, grazie per la tua risposta che condivido pienamente ed è così generosa di spunti di riflessione. Ho transitato, nella zona grigia, ed è vero ciò che dici: non è tanto il farmaco in sé quanto la superficialità con cui, da una parte, lo si prescrive e, dall’altra, lo si assume, entrambe conseguenze dell’incapacità di riconoscere l’inevitabilità di molte umane sofferenze che vanno attraversate. Ad essa se ne accompagna una seconda, di grave incapacità: di accettare, quando si cade, di restare a terra, a volte per un tempo anche molto lungo, nonostante la retorica del “cado e mi rialzo, più forte e più bella di prima”. Insomma sì, ci sarebbe tanto da dire o, forse, di cui tacere, e magari tentare di incanalare in forme espressive del tutto inedite.
Grazie per l’articolo merita di essere diffuso e ragionato.