Terre di montagna (sillabario della terra # 15)

di Giacomo Sartori

Per molti anni ho avuto la fortuna di occuparmi quasi solo di terre di boschi e alte praterie schiacciate da cieli scostanti e nervosi. Terre di altitudine, percorse da animali selvatici e da rari uomini amanti degli alberi e del silenzio. Terre linde e profumate, mai completamente asseccate, leggere e fresche anche nel pieno dell’estate.

Scavando a mano la mia buca per osservare e raccogliere i campioni avevo la certezza che nessuno era mai andato a curiosare lì sotto, che tutto quello che vedevo era lì da migliaia d’anni. I colpi del piccone e della pala rimestavano odori di funghi, vapori di muffe umide che mi salivano alla testa. Spesso dovevo tagliare delle radici, avevo un apposito seghetto pieghevole molto affilato, e quindi si aggiungeva l’asprigno delle resine. Tutta quella vita che forzavo a mostrarsi era custode di segreti che non si erano mai mostrati agli uomini, che li avevano tenuti lontani.

Lì sotto il mondo minerale, per noi invincibile, aveva la peggio. Le pietre calcaree erano limate dall’acqua, con docce arrotondate e curve sinuose che ricalcavano il percorso dei rivoli sotterranei, facendo pensare a tante sculture astratte del Novecento. Quelle di granito si sfaldavano invece tra le dita, dando una graniglia sale e pepe. Le arenarie molto alterate si mettevano in mostra con i loro gialli o rossi molto vivi, macchie espressioniste che si scioglievano anche loro nel palmo della mano lasciando una pastosità untuosa. Come per magia le pietre più dure avevano perso la loro tenacia: la avevano ceduta alla terra.

A volte mi accompagnava, per pura passione, un collega più anziano e con una vastissima cultura ambientale, anche lui stregato da quello spettacolo intimo: c’è un piacere quasi voyeuristico, nello svelare un universo sotterraneo intonso. È l’eccitazione degli esploratori, perché nemmeno con la più grande esperienza si può prevedere con esattezza la profondità e gli infiniti dettagli di un determinato suolo. Nei fatti ogni buca è almeno per certi aspetti diversa, come è particolare ogni persona, anche restando nello stesso gruppo etnico. La realtà è che a dispetto della nostra necessità di dare nomi e classificare la natura non è mai uguale a sé stessa, cambia sempre.

Non era facile convincere chi di dovere che i miei studi servivano a qualcosa, e avere qualche misero finanziamento. Bussando pazientemente a tante porte qualcuno un po’ bendisposto però lo trovavo. Alcuni botanici e alcuni tecnici forestali intuivano l’importanza della terra per la vegetazione, sapevano che a ogni suo tipo corrispondono piante precise, in un legame che a quei tempi si spiegava solo in parte. Si vedevano gli effetti dell’acidità o della basicità del suolo e della sua capacità di immagazzinare l’acqua, ma si ignorava l’azione dei microorganismi e dei composti emessi dalle radici, che controllano le successioni delle formazioni vegetali e i loro mosaici.

Con gli anni accumulavo dimestichezza. Provavo piacere a riconoscere alla prima occhiata che varietà di terra fosse, e potevo prevedere, in base alla vegetazione e al tipo di roccia e a altri elementi, cosa avrei trovato in una pecceta con un tappeto di mirtilli neri o sotto una lingua di contorti e impenetrabili pini mughi. Non mi importava nulla che fosse un filone di studi qualitativi che stava scomparendo, perfino nel Paese nei quali aveva dato i bellissimi risultati che mi servivano da guida, spazzato via da interessi più circoscritti e più alla moda. Ero un perfetto autodidatta, e non mi dispiaceva esserlo. Credo che gli esseri umani godano profondamente nel capire quello che hanno attorno, trovando una logica nell’apparente disordine, esattamente come godono mangiando buoni cibi o facendo sesso.

Ero solo, con dei mezzi più che ridotti, per non dire inesistenti. La mia fortuna era che un validissimo chimico del compassato istituto regionale di ricerca agricola mi aveva preso a benvolere: con la sua dissacrante indole anarchica eseguiva un grande numero di costose analisi chimiche senza compenso, infilandole tra quelle che svolgeva ufficialmente. Potevo quindi fare le cose un po’ più seriamente. Più andavo avanti e più mi convincevo che la lettiera e gli straterelli organici di superficie, dei quali nessuno sapeva nulla, e che erano spesso ignorati, erano fondamentali. Mi sono messo a osservarli e a confrontare le nomenclature esistenti, valutando i loro pregi e difetti. Fino a diventarne, la concorrenza in realtà era molto ridotta, un vero esperto.

Un giorno mi ha scritto un ricercatore di un ente nazionale, dicendomi che avrebbe volentieri approfondito alcuni aspetti dei suoli che studiavo: ha cominciato a svolgere le sue raffinate indagini sulla mineralogia dei minerali ai campioni che gli spedivo. Grazie a lui le terre che scavavo l’estate sulle montagne della mia regione di origine – vivevo già all’estero – sono sbarcate su una prestigiosa rivista scientifica internazionale.

Siamo stati allora contattati da un professore svizzero che trovava interessante quello che facevamo. Da noi nessuno parlava ancora di cambiamenti climatici, ma da loro era già una pressante preoccupazione. D’improvviso i suoli diventavano centrali, con la loro capacità di immagazzinare nella loro frazione organica quantità di carbonio tre volte maggiore di quella delle foreste e degli altri tipi di vegetazione del Pianeta. E lo divenivano anche gli straterelli organici ai quali avevo dedicato tanto tempo. Abbiamo quindi iniziato una collaborazione, questa volta supportata da tutti i mezzi che aveva la ricerca in Svizzera.

Con i suoi allievi e colleghi il professore svizzero eseguiva indagini ben più approfondite delle mie, addentrandosi nei dettagli più infimi della composizione delle materie minerali e organiche, e le loro evoluzioni nel tempo. Ricerche che presupponevano macchinari all’avanguardia e attrezzature sofisticate, che nel nostro Paese non avevano equivalenti, non in quel settore considerato senza interesse. A quel punto il mio ruolo diventava soprattutto quello di guida locale e di supporto logistico: conoscevo come le mie tasche le terre delle montagne della mia regione, e questo tornava molto utile nel pianificare nel modo migliore i confronti e gli approfondimenti. Gli ottimi risultati che venivano fuori si dovevano anche alle mie conoscenze empiriche e tassonomiche.

Per tutte le certosine e costosissime analisi e le elaborazioni statistiche dei risultati si arrangiavano loro, cosa della quale un po’ mi vergognavo, ma potevo rifarmi nell’esecuzione dei campionamenti e dei prelievi. Sapevo maneggiare bene pala e piccone, mi piaceva prelevare campioni che odoravano di muffa e camminare tra magnifici larici portando dei pesi. E ritornavo poi utile nella redazione degli articoli scientifici, in particolare per quanto riguarda l’inquadramento ambientale e gli aspetti generali dei suoli. Ma inaspettatamente anche nella rilettura e nelle correzioni finali degli stessi. Il mio inglese era così così, con il mio intuito e quello che avevo assimilato nelle mie letture sapevo però creare legami e proporre migliorie. E vedevo quando le frasi tenevano bene e non potevano essere attaccate: lo stile neutro della scienza è un registro retorico come un altro. Con le mie scritture invernali ero allenatissimo a mirare alla forza.

Il professore svizzero sempre sorridente era una micidiale macchina di lavoro, quindi pubblicavamo adesso moltissimi contributi sulle migliori riviste scientifiche. Quello che facevamo attraeva cocciuti ricercatori abituati a lavorare nell’ombra di sottodiscipline telluriche poco conosciute e poco finanziate: a ogni nuovo progetto si univano altri appassionati molto validi, di solito senza chiedere compensi, quando sempre più tutto veniva monetizzato. Spaziavano dagli alberi secolari alle più piccole molecole organiche, passando per il patrimonio genetico di batteri e altri microbi, i vermettini grandi a piccoli, questi o quegli insetti, i carboncini legati agli incendi di migliaia d’anni prima, gli enzimi che controllavano le trasformazioni. Specialisti abituati a andare avanti per conto loro, con tutte le limitazioni annesse e connesse, e che nelle interconnessioni trovavano più senso.

L’ultimo progetto, che metteva al centro proprio gli straterelli della lettiera sui quali mi ero intestardito, fu una cosa imponente. Partecipavano ricercatori di tanti Paesi e di campi diversissimi, molti tesisti, molti studenti. Nei rilievi in campo, sempre in quella regione dove nessun ente mi prendeva davvero sul serio, sembrava un formicaio, ognuno prendeva misure e riempiva sacchettini, trovava soluzioni e aiutava gli altri, con un entusiasmo e una energia che non avevo mai incontrato sul lavoro. Mi davo da fare con questo e con quello, ma mi sentivo un po’ escluso, io che non appartenevo in forma stabile a nessun organismo e che non avevo dietro un laboratorio, che ero ormai uno schiavo della scrittura. Tirava le file una perentoria professoressa della Germania ex-comunista con entrature nelle istituzioni europee, tarchiata e amante dei buoni vini bianchi aromatici, specializzata nella traduzione dei processi dei suoli in modelli matematici.

Sotto la sua guida risoluta tutti i dati confluivano e venivano macinati in folte equazioni, e a me sembrava che perdessero per strada tutta la loro forza, la loro verità, il loro riflettere le particolarità di ogni situazione. Mi pareva che le previsioni che sputavano fuori quei presuntuosi arnesi matematici fossero banali e insulse, per non dire molto approssimate, se paragonate alle mie conoscenze empiriche e alla mia intuizione. Mi sembrava soprattutto che non avessero più nulla a che fare con me, le terre che amavo e il mio lavoro di tanti anni. Ma certo ero io che non avevo dimestichezza con quegli strumenti, per ignoranza e forma mentale, e forse i risultati non erano poi così meschini come mi apparivano. Dopotutto approcci e linguaggi separati entravano per la prima volta in contatto e cercavano di parlarsi. Bisognava forse solo continuare su quella via.

In ogni caso non fu possibile continuare quell’esperienza così unica, come avremmo voluto, nessun organismo era disposto a finanziare tutti quei fanatici sordi ai discorsi dominanti, nessuno capiva le esplosive potenzialità di mettere assieme competenze e visioni così disparate, quelle lingue all’apparenza così inconciliabili, per capire come funziona la terra. Tutti parlano di ecologia, ma le maglie ecologiche sono complesse e difficili da indagare. Nemmeno la volitiva professoressa teutonica aveva gli agganci all’altissimo livello che ci sarebbero voluti.

Nel frattempo c’era stata del resto una crisi finanziaria, e il mondo si concentrava ancora di più sulle questioni ritenute importanti, ben legate al cosiddetto sviluppo economico. Dove non c’era certo spazio per la caccia alle interrelazioni più recondite nei suoli  non impattati dall’uomo, vero e proprio ginepraio ecologico senza ricadute finanziarie immediate. O detto meglio, senza che nessuno sapesse ancora vederne i vantaggi anche economici che senz’altro sarebbero arrivati con l’avanzare della crisi ambientale.

Non lo sapevo, ma per me era finita un’epoca. Non avrei più vagato tra i larici dai tronchi screpolati carico dell’attrezzatura, spiando i criptici segnali che lasciavano intravedere i suoli, non avrei più riesumato le zaffate di funghi e fresca umidità che mi piacevano tanto, non avrei più lavorato fianco a fianco con quelle persone appassionate dei segreti della terra e assetate di risposte. E non avrei legato a qualche giovane quello che sapevo: ben che andasse in futuro si sarebbe condotto qualche studio settoriale, senza una visione d’insieme, senza cercarla, senza badare alle reti di relazioni. Il progresso era quello, la settorializzazione delle conoscenze, e la definitiva perdita di contatto con il tempio dove tutto era legato, la terra.

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2 Commenti

  1. Ne ho goduto moltissimo, anche per il ritmo. Il narrare di questi tessuti del suolo boschivo, queste lettiere mi hanno condotto per mano, hanno stimolato la mia vista, persino il mio olfatto, hanno rievocato sensazioni tattili di quando tastavo tra gli aghi di pino presso i mirtilli. Grazie.

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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