Incendiare il buio
Lo scorso maggio è uscito Incendiare il buio. In viaggio con Annie Ernaux e Goliarda Sapienza, una sorta di diario di vita e letture scritto da Valeria Nicoletti (Collettiva, qui). Ne pubblico il paragrafo intitolato “Salvare la vita dall’oblio”. [ot]
di Valeria Nicoletti
“Tomber aux oubliettes” è l’espressione francese che si usa per dire “cadere nel dimenticatoio” o “finire nell’oblio”, una perifrasi dal suono grazioso, quasi da filastrocca per bambini, tra le prime che riesco a memorizzare in quella che per me è stata l’avventurosa conoscenza della lingua francese. Per arrivare a intervenire e conversare in ogni registro, con ogni tipo di interlocutore, ci sono voluti anni. Anni di “Pouvez-vous répéter, s’il vous plait?”, di letture con la matita tra le mani per sottolineare i vocaboli sconosciuti, di film con i sottotitoli e, come scriveva Emil Cioran, “lettere d’amore scritte con il dizionario” in una rocambolesca educazione sentimentale che, per me, iniziava da un libro di grammatica. Ho corteggiato la lingua francese con testardaggine e abnegazione, senza essere sempre ricambiata. “Un desiderio non è altro che un bisogno folle. […] Ci sarà sempre qualcosa di squilibrato, di non corrisposto. Mi sono innamorata, ma ciò che amo resta indifferente. La lingua non avrà mai bisogno di me”, è quanto scrive Jhumpa Lahiri, scrittrice di origini indiane, cresciuta in America, innamorata dell’italiano, in esilio linguistico a Roma per essere circondata dal suo idioma straniero preferito. L’ebbrezza di sentirsi analfabeti e di poter riscrivere la realtà, in altre parole. È come svegliarsi la prima mattina in una nuova città, mettere i piedi in un aeroporto sconosciuto, fare qualcosa per la prima volta, ritrovarsi in una situazione di disagio, certo, di scomodità, di voluta precarietà, ma anche di eccitazione, stupore, meraviglia. “Mi piace lo sforzo. Preferisco le limitazioni. So che mi serve, in qualche modo, la mia ignoranza. Nonostante le limitazioni, mi rendo conto di quanto l’orizzonte sia sconfinato”, scrive ancora Lahiri, “quando scopro un modo diverso per esprimermi provo una specie di estasi. Le parole sconosciute rappresentano un abisso vertiginoso, fecondo. Un abisso che contiene tutto ciò che mi sfugge, tutto il possibile”. È dalle parole che parte Annie Ernaux, con il piglio dell’archivista, per collezionare dati e informazioni e imbastire una vera e propria “etnologia del sé”, scandagliando gli stili di vita di intere generazioni, con un approccio alla realtà ben più sicuro della memoria, impregnata com’è di interpretazioni soggettive e di emozioni. Le sue parentesi personali, i dettagli della vita intima, sono solo un modo di rafforzare la testimonianza della storia, un artificio necessario per salvaguardare il ricordo, il tempo che passa, dall’oblio, personale e collettivo. L’autobiografia è al servizio della memoria. Ernaux lotta contro il carattere fugace dell’esistenza, cerca di lasciare una traccia di se stessa e degli altri. Le parole diventano un porto sicuro cui ritornare, punto fermo e appiglio della creazione. La scrittura, piana, quasi telegrafica, diventa allora un etnotesto. “Sì. Dimenticheranno. È il nostro destino, non ci si può fare nulla”, scriveva Anton Cechov nella citazione in esergo a Gli anni, “Ed è curioso che noi oggi non possiamo assolutamente sapere che cosa domani sarà ritenuto sublime, importante e che cosa meschino, ridicolo. […] E la nostra vita, che oggi viviamo con tanta naturalezza, apparirà col tempo strana e scomoda, priva di intelligenza, non sufficientemente pura, forse addirittura immorale.” La narrazione prende vita da una ricerca del contesto storico e sociale dell’epoca. La memoria è una risorsa, dove pescare il materiale per la scrittura, ma i suoi ricordi non sono sufficienti. “Tutte le immagini scompariranno”, afferma all’inizio del libro. E la prima immagine che segue, come una sfilata di diapositive, è “la donna accovacciata che, in pieno giorno, urinava dietro la baracca di un bar al margine delle rovine di Yvetot, dopo la guerra, si risistemava le mutande con la gonna ancora sollevata e se ne tornava nel caffè”. Siamo a Yvetot. Un luogo ricorrente, i lettori fedeli lo sanno già, la cittadina d’origine di Ernaux, in Normandia. Possiamo quasi vederla la piccola Annie, nascosta dietro le persiane del bar dei suoi genitori, mentre spia una donna in questo bagno di fortuna. A seguire, una seconda immagine, “il volto pieno di lacrime di Alida Valli mentre ballava con George Wilson nel film L’inverno ti farà tornare. Dalla prima pagina, Ernaux tesse una storia che scava nell’immaginario collettivo, quello del cinema, con il viso di Simone Signoret, la sagoma di Philippe Lemaire, Scarlett O’Hara, che trascina per le scale il soldato che ha appena ucciso, la pubblicità delle caramelle Picorette della Nestlè, e i ricordi della sua famiglia, le spiagge delle vacanze, i primi fotogrammi della vita adulta. Le immagini, reali o immaginarie, sognate o morte “scompariranno in un colpo solo”, se ne andranno così come sono arrivate. A meno che qualcuno non le fermi su un foglio bianco. Non sono solo le immagini a essere coinvolte. Anche le parole scompariranno, “Il dizionario costruito termine dopo termine dalla culla all’ultimo giaciglio si estinguerà. Sarà il silenzio, e nessuna parola per dirlo. Dalla bocca aperta non uscirà nulla. Né io né me. La lingua continuerà a mettere il mondo in parole”, le parole che abbiamo faticato ad assimilare, quelle incamerate per sentirci parte di un gruppo, quelle che non piacevano alla mamma. “Si annienteranno d’un tratto le migliaia di parole che sono servite a nominare le cose, i volti delle persone, le azioni e i sentimenti, che hanno dato un ordine al mondo, che ci hanno fatto palpitare e bagnare”. Gli slogan, le frasi sofisticate che abbiamo fatto nostre, le offese terribili che abbiamo dovuto dimenticare, gli esempi di grammatica, le metafore usurate, “le parole da uomo che non ci piacevano, godere, le seghe – quelle imparate durante gli studi, che davano la sensazione di trionfare sulla complessità del mondo. Appena superato l’esame, sparivano dalla memoria più in fretta di come ci erano entrate”. Qui è questione di frontiere, nello spazio e nel tempo, tra il sé e gli altri, tra la vita interiore e la realtà sociale esteriore. La memoria è l’appiglio ultimo per l’esistenza. Un’eco innegabile, un dialogo che verosimilmente ha attraversato lo spazio e il tempo quando, nei taccuini di Goliarda Sapienza, si legge “Ricordare è tutto: l’etica fondamentale della vita”. C’era Parigi, c’era il silenzio di un parco in un primo pomeriggio d’inverno e c’ero io con l’impressione di aver scoperto una corrispondenza segreta, tra due donne, due scrittrici, che non s’erano mai incontrate. In Sapienza, è la memoria che viene in servizio dell’autobiografia, per recuperare una versione accettabile della vita stessa. Goliarda è terrorizzata all’idea di confrontarsi con questa cassapanca riempita di lettere ingiallite, vecchi libri, nastri, camicie usate, foto d’epoca. “I primi venti anni di questi quarant’anni, a furia di volerli scientemente ignorare, si sono così ingarbugliati che non riesco a districarli, a fare ordine. Io purtroppo sono molto ordinata, anzi direi un po’ fissata: e così i fatti passati mi schiacciano come una mosca ai muri di questa stanza che si è fatta troppo piena”. Se la narrazione per Ernaux segue quasi sempre un preciso ordine cronologico, i lettori di Lettera aperta sono costretti più volte a domandarsi chi parla e quando si sono verificati gli eventi raccontati. Il passato e il presente sono labili e la voce narrante si intreccia a quella degli altri personaggi. C’è confusione, nell’attribuzione delle date, ma anche dei dialoghi. Goliarda scambia i volti, le voci, i ricordi. Un topos ricorrente nel testo è l’esigenza di ricordare confrontata all’impossibilità, o al rifiuto, di comprendere. “Tutto un passato mi cade sul corpo come pece: non c’è gioia nel ricordo. Solo terrore dell’abisso del tempo: da dove sono venuta? Da una voragine di antichità terribile. E come ce l’ho fatta? Non lo so”.
La memoria è al tempo stesso un bacino da cui attingere e una miniera che nasconde tesori inaspettati e pericolosi. “È incredibile come non ci sia niente di più invitante che delle voci intese e non intese dietro una porta chiusa. Ma ascoltare significa sapere. Quelle voci però rintronano così forte che ho fatto bene a chiudere la porta”. La porta si chiude, spaventata, davanti al timore di ritrovarsi di fronte ai fantasmi del passato. Si aprirà, in futuro, con benevolenza e accoglienza, per abbracciare la vita e, nel suo ultimo appartamento, a Gaeta, addirittura quella porta non si chiuderà mai a chiave, sempre pronta a spalancarsi, per andare incontro allo stupore dell’esistenza. Da qui, l’esigenza di “mettere in ordine” i suoi ricordi, poco importa se il risultato finale somiglia alla verità. Dall’inizio, l’intenzione manifesta non è quella di riconciliarsi con il vero, ma di trovare lo spazio per tutti gli stralci di vissuto. L’immagine della camera da rimettere a posto, magari quella dei genitori, i loro oggetti da repertoriare o anche gettare, accompagna e dà un ritmo a tutto il racconto. Con il bisogno di raccontare, ritroviamo il desiderio di sbarazzarsi delle bugie, quelle dette dai genitori, quelle inoculate a scuola, quelle inventate da se stessa, quando comincia a farsi chiamare con il nome della madre, per esempio. Il desiderio urgente di costruire la propria realtà, lontana dai luoghi comuni, dalle paure iniettate da bambine, dalla sorte che ci avrebbe inevitabilmente colpite, se non avessimo fatto come tutte le altre. L’utilizzo della scrittura per dire a tutti che no, non è vero, che io posso essere altro. Cara Goliarda, era proprio così: “Sì. Raccontare ancora, aggiungere”, scrive, “come un dovere verso me e gli altri di testimoniare”. La scrittura autobiografica come campo di battaglia. Per sbarazzarsi di queste menzogne, mettersi a spolverare, con il rischio di andare contro “uno specchietto antico, un orologio fermo dalle due e mezzo (da quando)?”. L’orologio che si è fermato, il tempo che non scorre più, è un’analogia temporale di questo disordine spaziale. Affrontando l’autobiografia, come scrive la ricercatrice Anna Langiano, Sapienza “capovolge il rapporto tra bugie e verità in favore delle prime: di fronte all’impossibilità di imbrigliare le pulsioni vitali in una qualche ‘verità’, le bugie possono almeno rifletterne l’ambiguità, giocare con la realtà e indirettamente parlarne. […] Proprio nel momento in cui scrive nella forma che definisce se stessa sulla base del ricordo, l’autobiografia, difende il proprio diritto a non ricordare”, e a dirigere la propria nostalgia verso figure e luoghi clementi della sua esistenza, soavi isole di libertà e familiarità: il burattinaio del quartiere, l’impagliatore di sedie, la dolce Positano. “Questa assenza di commozione mi dice che ho fatto bene a rubare, sempre, la mia parte di gioia a tutto e a tutti: eventi, perso- ne, soldi o mancanza di soldi… E forse quella nostalgia non era che la pienezza della serenità che godevo e che sapevo essere rara nel vivere di ognuno di noi”. Per rendere l’effetto che hanno su di me queste parole, prenderò in prestito un’immagine da Ernaux, ne L’altra figlia: “Qui, ora, mi pare che le parole squarcino una zona crepuscolare, mi afferrino, e sia la fine”.